Capitolo 9
Nora leggeva e sfogliava le pagine dei suoi tre diari in cerca d'indizi ma non trovò nulla. Niente. Pagine e pagine colme d'inchiostro registravano gli appostamenti degli ultimi tre anni, uno per ogni anno, e il terzo era quasi terminato. Aveva poco e niente su Athena e non perché non avesse provato. Lei era un fantasma, non a caso nella banda la chiamavano la Bianca. Eterea come il latte, pallida come la luna. Athena era stata l'unica ragazza della Banda per molti anni, la compagna del Leader, ma a differenza delle normali donne Alpha nei branchi –Nora era un'esperta di lupi ma più volte aveva dubitato che ci fossero somiglianze tra le due specie– lei sembrava non avere alcun potere. Più che sottomessa, era assente. Quasi non esisteva. La sua vita si limitava alla sopravvivenza nella Banda, alla passiva postazione di fianco a Blaise e all'amministrazione generale del suo branco. In più, Nora era sua amica, o almeno, lei si considerava tale. Non si erano mai parlate molto, soprattutto per colpa di Athena, e Nora non aveva insistito. Le piaceva tenersi in disparte, osservare le persone da lontano e annotare le sue analisi su dei diari. Era tutto cominciato quando aveva preso servizio volontario all'orfanotrofio tre anni prima e aveva conosciuto Athena. Da allora era entrata nel giro della Banda senza mai farne davvero parte. Quando incontrava un membro per strada, si ritrovava a seguirlo prima di accorgersi che forse non era una buona idea. Quante volte era scappata a gambe levate perché finita in posti dove non avrebbe mai dovuto mettere piede. Allora correva a casa e scriveva tutto nei suoi diari.
Davanti a lei, zia Jane sbuffò. «Non fa niente, Nora, capisco.»
«Ho provato a raccogliere più informazioni su di lei ma è come una cassaforte sigillata con catene e porte blindate. È una ragazza irraggiungibile.»
Zio John si lasciò andare a una risata moscia che non riuscì a smorzare la tensione. «È solo giovane e confusa. Non ha passato una bella vita negli ultimi sedici anni. Noi potremmo dargliela.»
La moglie annuì mestamente e gli strinse la mano. Nora strinse le labbra, avvilendosi per la sua sconfitta. Quando gli zii erano entrati nel Jonas Jennings per un saluto, Nora aveva subito chiesto notizie su Athena e su come intendessero procedere con l'adozione. Dai loro sguardi assenti e le facce imbronciate aveva intuito che la situazione non era migliorata, così aveva tirato fuori i suoi diari e si era messa a cercare qualsiasi formazione avrebbe potuto aiutarli in futuro. Tra le pagine aveva intravisto sì e no una decina di volte il nome di Athena ma ce n'era uno ricorrente che le fece sgranare gli occhi. Redard Harvey era un mistero, il più complicato e profondo presente nella Banda. E Nora aveva passato interi pomeriggi a rimuginare su di lui senza mai scoprire qualcosa di fondamentale o interessante. Per Geyer, il gemello, era stato fin troppo facile. La stessa storia valeva per Blaise. I loro profili psicologici erano lasciati in bella vista giorno e notte agli occhi di tutti, ne facevano quasi un vanto e non avevano paura di mostrarsi per com'erano davvero: affamati di qualcosa che nelle loro vite era sempre mancata. Red era tutta un'altra storia. Delle volte, i ricordi di Red bambino infestavano i sogni di Nora: le immagini sfocate proiettavano il loro passato, il parco giochi dove s'incontravano, le medie e le superiori a guardarsi da lontano, nei corridoi, senza mai rivolgersi la parola. Le risse nel cortile cominciate da Geyer e finite da Red, le loro espulsioni che Nora detestava, perché non sapeva mai se i gemelli sarebbero tornati a scuola oppure no. Un giorno lo fecero: non tornarono più. Avevano tutti e tre diciassette anni e quel giorno Nora era stata invitata la ballo da Matthew, il suo ragazzo.
Poi il sogno diventava nero, Nora apriva gli occhi e ricordava il presente. Un presente dove i gemelli non facevano parte della sua vita – se mai ne avessero fatto davvero parte –, e dove lei non passava il tempo aspettando di vedere Red spuntare fuori dalla porta di una classe o in mensa, ma da un vicolo buio e puzzolente o da un locale losco. I suoi appostamenti l'avevano sempre fatta sentire malata e un po' psicopatica, ma nei momenti di depressione si ricordava che lo faceva per la sua ricerca, come studio. Era una buona causa. E dentro di sé sperava di poter aiutare tutti quei ragazzi in futuro.
Gli zii se ne andarono più avviliti di quando erano entrati ma prima salutarono Jenny, la madre di Nora e sorella di Jane, che era chiusa nell'ufficio dall'alba. Nora stava sgobbando da otto ore, incessantemente, e la visita di famiglia l'aveva distratta per soli dieci minuti. Un paio di clienti si lamentò e lei tornò a servire i tavoli allacciandosi stretto il grembiule giallo con sopra ricamate le inziali del locale. Servì due coca cole, tre speciali del giorno, qualche omelette e due fritti di mare prima di accorgersi che un'ombra la stava osservando da fuori la vetrata. Era appostata lì da chissà quanto tempo, il cappuccio tirato sulla testa a celarne il volto e le mani infossate nelle tasche. Era poco visibile a causa dei clienti e delle luci al neon sul soffitto ma Nora percepì una stretta allo stomaco che l'allarmò. Il tempo passato a passeggiare e navigare per le strade più deserte e pericolose di The Circle le aveva insegnato a fidarsi del suo istinto. Lo stesso che adesso le gridava che quell'ombra stava aspettando proprio lei.
La fortuna volle che un tavolo fosse occupato nientepopodimeno che da May Stone, la figlia di Dessi, la stessa donna che lavorava al Jonas Jennings da svariati anni e che quel pomeriggio si era data malata. Nora conosceva May di vista e per sentito dire ma non avevano mai legato molto. La trovava... stravagante, e nella sua vita c'erano già troppe stranezze. Corse da lei e lanciò il grembiule sul tavolo. May era in compagnia e i due ragazzi alzarono lo sguardo contemporaneamente su Nora.
«Ehi» disse May con un sorriso brillante. «Tutto bene? Sei un po' pallida.»
«Mi servirebbe un favore. Tipo gigante. Tipo adesso.»
«Dimmi tutto.»
«Mi puoi sostituire per cinque minuti?»
May fissò il grembiule come fosse un ratto morto e sanguinante ma non si tirò indietro. Nora corse fuori prima di poterla ringraziare e fu subito investita dalla pioggia.
•~•
«Non ti ama.»
«Perché dici così?»
«Perché è la verità» ammise May con un sospiro e posò la testa sulla spalla di Thorne. Raymond, davanti a loro, infossò il mento sul petto.
«In fondo lo so che non mi ama.»
«Allora smettila di autocommiserarti. Lei non ti lascerà perché per lei non state insieme. Se voi metterci un taglio, devi essere tu a farlo.»
Le parole di May erano dure ma giuste. Sapeva di agire contro gli interessi della sua migliore amica ma conosceva abbastanza bene Raymond da sapere che, tra i due, era lui quello messo peggio. Sukie si sarebbe ripresa. A Sukie non fregava niente di Raymond. Diceva che era piuttosto bravo a letto, romantico quasi, e che i suoi baci erano profondi. Sukie amava essere coccolata e adorata, amava le attenzioni, e Raymond era caduto nella trappola.
«Parole sante» aggiunse Thorne lasciando un bacio nei capelli di May. «May, mi porti a ballare?»
Senza chiedere perché, dove e quando, May rispose: «Che tipo di ballo?»
«Tango.»
«Ma tango è per vecchi.»
«No, è per gli innamorati.»
«Allora non ti ci porto.»
Thorne mise il broncio. «Perché no?»
«Perché altrimenti tutte s'innamorerebbero di te.»
«Piccola volpe» disse Thorne e un attimo dopo scoppiò a ridere. May lo seguì a ruota. Raymond aveva smesso di chiedersi perché ridessero tanto insieme, la maggior parte delle volte nulla di quello che dicevano era divertente, ma loro trovavano sempre il modo di sembrare un po' fuori di testa. Era quello che Raymond adorava del suo migliore amico, e lo stesso motivo lo aveva portato ad accogliere May nella sua vita. Le loro grosse risate vennero interrotte dalla cameriera. Chiese a May di sostituirla e, pur di essere gentile, lei accettò. Mentre si dimenava tra i tavoli cercando di non far cadere le ordinazioni a terra prima che raggiungessero i clienti, Thorne e Raymond continuarono a prenderla in giro. Stava ancora sostituendo la cameriera quando la porta del locale si spalancò e Gabriel e King entrarono tutti trasandati, scuotendo la testa come fanno i cani per asciugarsi.
«Cosa ci siamo persi?» domandò Gabriel accomodandosi di fianco a Thorne. Raymond fece una smorfia mentre cedeva il posto accanto a lui a King, non gli piaceva stare accanto a lui. Quest'ultimo, infatti, fece di tutto pur di non partecipare ad alcuna conversazione. La sua presenza era gradita solamente al fratello che però aveva bisogno di conversare con altri esseri umani che non fossero King o Jemily. I suoi amici li stavano aspettando da due ore ma Gabriel aveva dovuto aspettare che King tornasse alla Casa prima di incamminarsi. Nel tragitto, la pioggia li aveva colti di sorpresa e si erano fatti l'ultimo pezzo di corsa.
Thorne indicò May e tutti i ragazzi si girarono a guardarla. Tutti tranne King, a lui non importava.
«Che cosa sta facendo?» domandò Gabriel con una risata.
«Sta sostituendo la cameriera, è dovuta uscire per chissà che cosa. Poverina, avrà preso la pioggia.»
Gabriel annuì distrattamente e si voltò verso Raymond. «Hai parlato con Jemily?»
«No, perché?»
«L'altro giorno avete litigato.»
«Non abbiamo litigato» ribatté con enfasi Raymond. Parlare di Jemily con Gabriel lo infastidiva più di ogni altra cosa al mondo. Aveva il sospetto che tra i due ci fosse qualcosa ma entrambi si ostinavano a negare.
«Allora Jemily avrà pianto perché le si è spezzata un'unghia mentre sbatteva la porta della sua stanza con tanta forza da far tremare le pareti della Casa.»
Nel tono di Gabriel c'era un'accusa che offese e ferì Raymond, e tutti si accorsero di quanto entrambi fossero profondamente connessi alle emozioni e ai sentimenti di Jemily. King cercò di ammonire Gabriel con un'occhiata ma poiché il fratello non lo stava guardando, preferì lasciar stare e continuare a farsi gli affari suoi.
«Non so perché stesse piangendo. Non l'ho fatta piangere io.»
«Se è questo che ti vuoi raccontare.»
May interruppe lo scambio di battute gettandosi sul tavolo, sfinita. «Ricordatemi perché dovrò lavorare qui per il resto della mia vita?»
«Perché non hai un altro futuro al quale aspirare» le rispose Thorne carezzandole i capelli.
Le gli fece una linguaccia e salutò i due fratelli con un gesto della mano. «Tu invece hai un futuro brillante al quale aspirare, mister partirò per Londra appena finisce il liceo. Patetico.»
«Piccola volpe antipatica.»
•~•
La signorina Montel la stava osservando con circospezione, le braccia incrociate al petto e gli occhietti vispi infossati sotto due grosse sopracciglia arcuate.
«Per quanto dovrò rimanere lì?»
«Fino alla fine dell'anno.»
«Perché?»
«Perché così avrai tutto il tempo per imparare a costruirti una vita normale.»
«La mia vita è già normale» ribatté Athena, punta sul vivo, mentre sigillava il suo borsone chiudendo la cerniera.
La signorina Montel non diede segni di esasperazione, rimase perfettamente impassibile di fronte alla lentezza di Athena o al suo brutto carattere.
«La tua normalità non è sana.»
«Non esiste il concetto di normalità.»
«Il tuo no. Ma ne acquisterai uno molto presto.»
Athena non rispose. Non era d'accordo con le sue parole, i suoi pensieri. L'idea di dover vivere per un anno dentro la Casa sulla Collina per lei non aveva senso. Tanto valeva che andasse direttamente da Jane e John. Così cambiava solamente orfanotrofio; un'altra bettola, magari più pulita e più accogliente, che l'avrebbe fatta sentire emarginata, un rifiuto del mondo che non la voleva.
Sarebbe andata via nel bel mezzo del pomeriggio, quando tutti i bambini erano a scuola. Quella notte si era accorta che avrebbe dovuto dire loro addio. Athena non aveva mai detto addio a qualcosa o qualcuno. Non aveva mai posseduto qualcosa abbastanza a lungo da affezionarsi e poi perderla. Non aveva mai amato qualcuno tanto da temere di perderlo. Quei bambini, però, loro erano innocenti. Erano i rifiuti della società. Li aveva visti piangere la notte, odiare la vita il giorno; li aveva consolati, li aveva sgridati, aveva odiato anche loro. E li aveva amati. Loro erano tutto ciò che la legava alla vita. E li avrebbe persi.
La signorina Montel attese Athena fuori dall'uscio dell'orfanotrofio e fece una smorfia quando si rese conto che i secchioni dell'immondizia non venivano svuotati da qualche settimana ed emanavano nell'ambiente circostante un olezzo mefitico.
La ragazza si strinse il borsone sulla spalla mentre seguiva l'assistente sociale. Non si girò nemmeno una volta per salutare il mostro nero che l'aveva inghiottita per sedici anni e del quale credeva che non si sarebbe mai sbarazzata.
•~•
Giglio D'oro non era famoso per il suo clima accogliente. Giglio d'Oro non era famoso e basta. Quando pioveva poi, era come essere inglobati in una tetra nuvola dalle sfumature blu e nere.
Nora venne inghiottita dalla nebbia e immediatamente la pioggia la investì, appiccicandole i capelli alla fronte e al collo. Il ragazzo incappucciato era rimasto immobile, come se avesse aspettato il temporale, e appena Nora era uscita si era girato ed era scomparso nel caos.
Nora si mise a correre per raggiungerlo, girò l'angolo e finì sul retro del locale. Il ragazzo la stava aspettando, il cappuccio calato.
Redard Harvey non era famoso per il suo bel sorriso, per gli occhi magnetici o per un fascino esorbitante; Red era famoso per essere pericoloso, grosso, un fantasma. Il braccio destro del Leader, il Ladro. E lui stava aspettando che Nora lo raggiungesse. Nel pugno stringeva qualcosa che si affrettò a lanciare alla ragazza. Nora incespicò mentre afferrava l'oggetto e inghiottì il flutto di lacrime che stava per uscire.
«Perché?» chiese al vento, all'acqua che la stava bagnando.
«Mi ricordo di lei» furono le parole di Red che arrivarono alle orecchie di Nora come un'eco lontana, un sussurro segreto.
Gli occhi di Nora non si staccarono dal piccolo orologio rosa che le era stato strappato brutalmente via da Geyer qualche sera prima. Passò il pollice sulla piccola lettera incisa nel metallo lucido. Per Nora fu troppo. Si fece sfuggire un singhiozzo, uno solo, ma potente quanto un tuono.
E Red sobbalzò. Rimase fermo a guardarla, vederla sciogliersi di fronte a quell'oggetto così piccolo, così ridicolo, così rosa. Restò in silenzio aspettando che si calmasse. Restò lontano sperando che lei non si avvicinasse. Nora non lo fece e, quando rialzò gli occhi rossi su Red, le ciglia unite tra di loro a causa della pioggia, lui gonfiò il petto e si ritirò su il cappuccio.
«Mi ricordo anche di te, Nora. Eri una ragazza pura come Lucie. Rimani tale. Non seguirci più. Non seguirmi più. Oppure te ne pentirai.»
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