Capitolo 8
Jemily aveva freddo, un freddo cane. Thorne aveva lasciato la finestra della sua camera da letto aperta quando era sgattaiolato via per far visita a May, come succedeva fin troppo spesso nelle ultime settimane, e Raymond non si era disturbato a richiuderla. Era come se volesse provare quel dolore sulla pelle, vederla diventare pallida, poi viola. Non era coperto dalle lenzuola. Inerme, sdraiato sul materasso, fissava la luna nel cielo. Era un tondo perfetto, azzurra e bianca, abbracciata dalle stelle. La Casa era costruita sul cucuzzolo più alto della Collina, che di per sé aveva la vista più bella dell'isola e del mare. Il cielo, dalle loro stanze, sembrava quasi raggiungibile.
Jemi socchiuse piano la porta alle sue spalle e quando si assicurò che Raymond l'aveva vista entrare, corse alla finestra per chiuderla.
«Non ti dovevi disturbare.»
Jemi si avvicinò al letto di Raymond tirando giù i lembi della maglietta larga che usava per andare a dormire. «Sembra che mille sanguisughe ti abbiano succhiato via l'anima dal corpo.»
«Non credo di avere un'anima.»
Jemi si sedette sul letto e lo guardò. «Non puoi amarla così tanto.»
«Tu non sai nemmeno cos'è l'amore.»
«Invece lo so.»
Raymond sbuffò e abbracciò il suo cuscino, immaginando che ci fosse il corpo caldo di Sukie al posto della seta bianca. «Risparmia le energie, Jemi, questa volta non puoi dire niente per aiutarmi.»
«Non voglio aiutarti. Crogiolati pure nel tuo dolore. Sei patetico.»
Raymond alzò il busto e aggrottò le sopracciglia. «Sei ingiusta.»
«Dico solo la verità.»
«Sembri Thorne.»
Jemily tirò fuori la lingua, disgustata. «Non mi paragonare a lui. Io, al contrario suo, sono sempre stata contraria all'assurda idea di farvi incontrare.»
«Ma se nemmeno conoscevi Sukie!» Pronunciare il suo nome scatenò reazioni discordanti in entrambi. Ray si afflisse, Jemi si arrabbiò.
«Non mi serviva conoscerla. Non era giusta per te.»
Il ragazzo si ributtò sul cuscino e tirò su le lenzuola cercando di spostarla. «Torna a dormire.»
Jemily si alzò e si avvicinò alla porta. Prima di andarsene si assicurò di dirgli che lo amava. A bassa voce. Nella sua testa. In un sussurro. Raymond continuò a fissare la luna.
Jemily tornò nella sua camera trattenendo le lacrime. Ad aspettarla davanti alla sua porta, c'era Gabriel. Il ragazzo, con le gambe stese, toccava la parete opposta alla quale era poggiato; la testa era inarcata malamente in avanti, tanto che il mento quasi toccava il petto e i capelli bruni dalla testa scivolavano nell'aria come braccia fantasma. Aspettando Jemily, si era addormentato. La ragazza non aveva il coraggio di svegliarlo per entrare nella sua camera, così si mise al suo fianco e cominciò a piangere silenziosamente con la manica del pigiama tra di denti.
Dal fondo del corridoio si sentì uno scricchiolio e poi un tonfo. La porta rossa che celava una stanza abbandonata si aprì e l'ombra di un ragazzo uscì quatta nel buio. Jemily girò di scatto lo sguardo e beccò Kingsley avvicinarsi alla sua camera.
«King» sussurrò, temendo che la sua voce s'infrangesse contro le pareti mute. «Kingsley.»
«Jemi?»
King, che aveva già la mano premuta contro il pomello della serratura, si bloccò e camminò fino ai due stesi a terra.
«Quello è mio fratello?»
«Lo è» rispose Jemi con un sorrisino. «Non ho il coraggio di svegliarlo.»
Kingsley non si fece problemi; prese lo slancio e tirò un calcio allo stinco di Gabriel.
«AH!»
«Sveglia, bambolone, è tempo delle nanne.»
Gabriel si stropicciò gli occhi e si massaggiò il collo indolenzito. «Che ore sono?»
«È tardi, persino per me.»
King si slacciò la giacca e si tolse il capello di cotone nero, bucherellato e sfilacciato, la cosa più preziosa che aveva. Aiutò il fratello ad alzarsi e aspettò che Jemily facesse altrettanto. Nel frattempo Gabriel si era rianimato e aveva cercato lo sguardo di Jemily.
«Hai pianto.»
«Non è niente» disse lei entrando nella sua stanza. «Buonanotte.»
I fratelli s'incamminarono verso le loro stanze: quella di Gabriel affiancava la porta rossa, quella di Kingsley riposava inerme dall'altra parte del corridoio. Mentre entrambi aprivano il proprio uscio, Gabriel si girò verso il fratello.
«Ho sentito Jole parlare di un nuovo arrivo la prossima settimana, sai di chi si tratta?»
Kingsley si tolse la maglietta e scrollò le spalle. «Non ho sentito niente a riguardo. 'Notte.»
«King?»
«Sì?»
«Non ti stanchi mai di andare lì?»
Kingsley si sorprese della domanda ma non lo diede a vedere. «Perché me lo chiedi?»
«Ho sognato l'incendio» se ne uscì Gabriel, e il tono di voce con cui confessò il misfatto turbò entrambi. «E mi sono ricordato di non averti mai chiesto perché vai lì tutte le notti.»
«Non so dove altro andare.»
«Potresti rimanere qui, con noi»
Gabriel conosceva troppo bene suo fratello maggiore, sapeva che per lui non sarebbe stato possibile rimanere lì per tutto il giorno. Odiava la Casa e odiava il motivo per cui ci viveva.
«Va a dormire, Gabo.»
«Sì, ci vado. Ma vacci anche tu.»
«Sono tornato per questo, no?»
Gabriel annuì distrattamente. Il suo cuore si contorse un po'. Entrambi sapevano che Kingsley non era tornato solo per dormire. Era importante quello, certo, ma si trovava lì anche perché la Casa ormai ospitava il fratellino e lui non l'avrebbe abbandonato per nessuna ragione al mondo; anche se così facendo stava sacrificando la propria libertà e con essa, la sua felicità.
•~•
«Shh, fa piano!»
Thorne rise e sprofondò la faccia nel cuscino per non farsi sentire.
«Tu non farmi il solletico, allora» ribatté, quando May strusciò di nuovo le dita sul suo addome nudo.
«Ti sto solo toccando.»
«Così mi fai ridere.»
May fece una smorfia. «Soffocati nel cuscino.»
«Così muoio.»
«Moriresti felice.»
«Piccola volpe.»
Thorne rise ancora e May lo zittì con la mano. Non ci volle nulla a passare da quel momento di gioco a un intenso scambio di sguardi, che portò Thorne a baciare la mano di May, May a spostare il palmo sul collo di Thorne, le bocche di entrambi che si cercarono senza esitazione.
A May tornò in mente la prima volta che lo aveva visto. Erano a scuola, lui stava cantando una canzone che le cuffie alle orecchie in mezzo a una folla di persone che si scansavano per stargli il più lontano possibile. Lei, invece, si era avvicinata. Aveva staccato una cuffietta e se l'era messa all'orecchio per sentire la musica assieme a lui. Thorne aveva continuato a cantare ad alta voce, a muovere testa e gambe a ritmo, e anche se si era accorto di May, non aveva dato segni di esser infastidito dalla sua presenza. Non aveva detto niente quando lei si era appropriata di una cuffietta. Solo che la musica non c'era.
«Ma è spento» gli aveva detto lei alzando un sopracciglio.
«Ho la musica in testa» aveva risposto lui.
Lei era scoppiata a ridere e Thorne si era accorto di quanto fosse bella. Le aveva chiesto quanti anni avesse e da quale parte di Giglio d'Oro provenisse. Con una smorfia lei aveva risposto: «In via ufficiale abito nella zona industriale, ma il mio quartiere confina con The Circle, conosco molta brutta gente.»
Lo aveva detto con naturalezza, anche se non ne sembrava molto fiera, o felice. Mezz'ora dopo avevano camminato fianco a fianco fino al giardinetto sul retro, oscurato dalle siepi, come se le loro menti camminassero di pari passo con le loro gambe. Entrambi volevano la stessa cosa. Mentre May si abbassava le calze e la gonna, Thorne si era slacciato la camicia e si era tolto la cravatta della divisa della scuola. Lo avevano fatto velocemente, bruciando di passione. Dopo aver terminato l'amplesso, Thorne era crollato su di lei e le aveva sussurrato che non era reale. May aveva riso di nuovo, gli aveva baciato l'orecchio e gli aveva detto che più reale di così si poteva morire.
Erano passate settimane. Un'intera estate, in realtà, e ormai Thorne dormiva a casa di May ormai cinque giorni la settimana. I genitori di lei l'avevano accolto senza nemmeno presentarsi. A loro andava bene. A May andava bene. A Thorne andava bene. S'intravedeva che era un bravo ragazzo dal modo in cui camminava o come stringeva la mano di May. E poi tutti a Giglio d'Oro conoscevano Jole, la nonna di Thorne, la donna che gestiva la Casa della Collina. Erano brave persone, gentili, altruiste. Investivano i loro soldi cercando di far reintegrare i luoghi più malfamati di The Circle e allo stesso tempo supportavano la buona vita della Collina.
Quando l'aveva incontrato per la prima volta, May era stata attratta dalla follia di Thorne. La sua anima ne aveva riconosciuta una pressoché identica. Vicini, potevano essere scambiati per gemelli: stessi capelli neri, lei più lunghi e lui più mossi, stesso naso allungato, stessi occhi vivi –lui azzurri, lei nocciola dorati–. E questo l'aveva fatta sentire meno sola. Un gemello, la stessa parte della stessa medaglia. Quando lo guardava negli occhi o gli fissava le labbra o fantasticava su altre parti del suo corpo, era come guardarsi allo specchio. May riusciva a vedere ciò che alla maggior parte degli abitanti della Collina e di Giglio d'Oro in generale sfuggiva: il matto nelle persone. Quando Sukie l'aveva chiamata e l'aveva informata dell'assurdo piano di entrare nella Banda di The Circle, May era stata allarmata dal matto nella voce della sua migliore amica; poi aveva visto con i suoi occhi il matto che aleggiava nella Tana e nella ferocia delle parole del Leader. In Thorne vedeva un matto diverso, divertente, tenero. Innocuo. Un matto stravagante, libero, e irripetibile. Il suo stesso matto.
Ma Thorne e May si erano trovati perché entrambi sapevano che non sarebbe durata. Thorne sarebbe partito per Londra alla fine del liceo, May avrebbe sostituito la madre al Jonas Jennings. May sarebbe rimasta per sempre a Giglio d'Oro, la figlia di un paese dimenticato, un'anima che non desiderava mai più di quel che aveva. Thorne voleva vivere in un mondo vivo, un mondo che esisteva, desiderava sempre più di quel che aveva. Il padre di May era uno spacciatore. Il padre di Thorne era morto quando lui era soltanto un bambino.
No, loro non erano destinati a restare insieme.
•~•
Sotto le coperte, la sua vita faceva meno schifo. Dentro la sua camera, mentre Flora faceva le trecce alle bambole o saltellava sul suo letto, la vita sembrava quasi decente. Nella sala comune, circondata da tutte le risate dei bambini, troppo piccoli per capire perché a loro fosse capitato quel destino, la vita era una merda ma si poteva sopportare.
Fuori, invece, la vita non era vita. A The Circle, la vita era sopravvivenza. E con la Banda, la vita era un'illusione.
Athena si sentiva schiacciata dal peso delle sue stesse condanne, quelle a cui aveva chiesto in ginocchio di salvarla. Si sentiva schiacciata dalla promessa che aveva fatto a Blaise, quattro inverni prima, la promessa del suo amore eterno. Si sentiva schiacciata dalla propria personalità, troppo simile a quelle stesse che lottavano e sognavano dentro la Tana. L'orfanotrofio le faceva venire voglia di vomitare e piangere allo stesso tempo, lo odiava; ma era l'unica realtà che conoscesse, l'unica casa che l'avesse accolta. Senza quest'ultima certezza si sentiva alla deriva. Avrebbe sempre potuto chiedere a Blaise di nasconderla, sarebbe potuta rimanere con lui, ma che il cielo la fulminasse se osava dire a Blaise quello che sarebbe accaduto.
I coniugi Madders vivevano alla Collina, accanto alla zona industriale, ed erano brave persone: Jane una maestra d'asilo, John un contabile. Volevano adottarla. Ma Athena non aveva chiesto di essere adottata. La famiglia lei ce l'aveva: Blaise, Red, Geyer e tutti i delinquenti di The Circle erano la sua famiglia. La Tanta la sua casa. L'orfanotrofio la sua copertura. La miseria era sua madre. Il pianto suo padre. I sogni, le illusioni e le utopie piccoli e grandi fratelli che disturbavano di notte e di giorno.
Non voleva essere adottata da Jane e John, perché loro erano brave persone e non meritavano Athena nelle loro vite.
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