Capitolo 14
Gabriel non capiva, non l'avrebbe mai fatto. E come poteva? Viveva in un mondo tutto suo. Non lo biasimava per essere così ingenuo, non lo biasima per fingere e costringere sé stesso a ignorare tutto ciò che Kingsley invece non riusciva proprio a togliersi dalla testa. Per lui sarebbe stato impossibile dimenticare, fingere che la sua vita non fosse un'immensa bugia, una continua attesa verso qualcosa che non sarebbe mai arrivato.
Quella sera Gabo aveva fatto una scenata davanti a tutti, persino davanti a quella nuova. King non le aveva ancora parlato, nonostante fossero passati giorni dal suo arrivo. Non aveva mai osato avvicinarsi. Non mangiava con gli altri e non partecipava alle riunioni di famiglia. A lui non fregava niente che ci fosse un fantasma di più in quella casa. Però Gabo aveva esagerato. Si era messo a gridare che suo fratello doveva smetterla, si era messo a chiedere il sostegno degli altri. Jole aveva cercato di calmarlo e King aveva approfittato di quegli attimi di distrazione per svignarsela. Nessuno gli disse nulla. Raymond lo vide andare via scuotendo la testa, Jemily fingendo di non averlo notato. A loro non fregava niente di cosa facesse o non facesse King la notte, né di dove andasse. E Gabriel doveva smetterla di essere così lamentoso. Aveva infastidito King, gli aveva fatto ribollire il sangue e l'aveva reso nervoso. Mentre toglieva la catena alla bicicletta e scendeva già dalla Collina, pensò che suo fratello avrebbe dovuto proprio farsi una scopata. Gli sarebbe servita, per placare i nervi. Raymond e Thorne erano già molto occupati e King aveva di meglio da fare che seguire l'attività fisica del suo fratellino, ma sperò di potergli fare un discorsetto il giorno seguente. Non che lui fosse un asso e avesse grande esperienza. Le ragazze non osavano avvicinarsi. Ma lui, a differenza di Gabo, non aveva bisogno di sfogarsi. Gli bastava far visita al cimitero che era diventata la loro vecchia casa.
Jole cercava di avvertirlo ogni sera di stare attento, di portarsi delle munizioni, ma era ben lungi da proporre di comprarsi una pistola. Per salvaguardarsi, King avrebbe dovuto usufruire del suo cattivo carattere e la speciale tendenza a sopravvivere. Perché The Circle era un postaccio che nessuno alla Collina osava visitare. E la vecchia casa in fiamme era il trono del diavolo che comandava sul quartiere dannato.
Tutti a Giglio d'Oro conoscevano quella storia, la leggendaria tragedia della famiglia Larsen. Una famiglia trasferita lì da poco più di un anno; due bambini: uno di sette e l'altro di appena dieci anni, due genitori giovani, esuberanti e piedi di speranze. Poi il buio. Terrificante, infinito. Kingsley e Gabriel erano stati risucchiati dal vortice e non erano più riusciti a uscire.
•~•
Quella notte, il cimitero – così lo chiamava King – sembrava più silenzioso del solito. Nemmeno i gufi o i pipistrelli osavano avvicinarsi a quel luogo maledetto né il vento soffiava sulle assi rovinate. Tutto era statico, quieto e immobile. Mentre si avvicinava, King pensò al terrore negli occhi del fratello. Gabo odiava quel posto con tutto sé stesso e aveva paura per King, non voleva che lui si avvicinasse. Per la prima volta dopo otto lunghissimi anni, King provò un brivido lungo la schiena. Si disse che non era niente, solo il freddo, ma tenne attivi tutti i sensi. Nemmeno i demoni di The Circle osavano avvicinarsi al cimitero, perciò poteva stare tranquillo. O almeno, così credeva.
Lasciò la bicicletta al solito posto e si avviò con le mani incastrate tra le tasche della felpa. Il cappello di lana sfilacciato gli cadeva sugli occhi ma non gli dava fastidio. Mentre faceva scricchiolare la cenere nera e le radici del legno marcio avvertì la presenza di qualcun altro. Il sangue si ghiacciò nelle sue vene. Nessuno, mai, era venuto in quel posto. Come osavano profanare quella tomba?
La rabbia prese il posto della paura e un moto di angoscia portò King ad avvicinarsi al patio. Alzò gli occhi verso il cielo nero e vide un angelo caduto che sbatteva le ali ma non riusciva a volare.
Non aveva mai visto quel ragazzo ma, come King, anche lui stava guardando le stelle. O forse la luna. Non si era accorto della sua presenza, intento a stare in equilibrio sul tetto pericolante. Aveva le mani strette in due pugni lungo i fianchi e la maglietta con le maniche corte scopriva due braccia possenti, lisce e ben allenate. Eppure era giovane. Un ragazzo di appena vent'anni, forse. La chioma dorata giaceva inascoltata sulla sua testa, gli calava sugli occhi come succedeva ai ricci di Gabriel.
Il suo viso era contorto. Bello se illuminato dalla luce fioca del cielo, scolpito come una statua, ma era turbato. King non disse una parola, non fiatò per quelle che gli sembrarono ore. Restò fermo a guadare quel ragazzo tormentato che era salito sul tetto di una casa andata in fiamme anni prima e che guardava la luna. Quando gli occhi gli cedettero, forse un paio di ore dopo, decise di arrendersi e tornare indietro. Il ragazzo angelo stava ancora fissando il cielo.
•~•
Il dondolo emise un suono rauco e terribile quando King vi si arrampicò sopra. Gli anni lo avevano reso agile ed esperto dell'arrampicata verso la finestra che gli avrebbe permesso di entrare nella Casa senza attivare l'allarme, ma riusciva ancora a visualizzare nella sua testa tutte le piccole cicatrici rossastre che gli erano rimaste su gambe e braccia a causa delle molteplici cadute.
Arpionò le mani sul davanzale esterno e si diede la spinta con i piedi. Il vento ululava tra le chiome degli alberi oltre la recinzione e King sperò che, come tutte le altre sere, Athena stesse dormendo.
Quando Jole le aveva affidato la camera con la porta rossa, l'unica grazie alla quale si accedeva alla camera che King segretamente usava come entrata dopo le sue scappatelle notturne, nessuno aveva detto niente. Nessuno aveva accennato alla possibile catastrofe che avrebbe potuto creare. King era rimasto zitto, non aveva nemmeno cercato scuse da propinare a Gabriel. Lui avrebbe continuato con il suo piano, poco gli importava che adesso il letto fosse occupato da qualcuno. Uscito dalla porta rossa – dalla camera di Athena – si trovava già nella sua, esattamente dall'altra parte del corridoio. La ragazza nuova non chiudeva alcun uscio a chiave e le cose erano rimaste le stesse, segrete, da lì a una settimana. Quando aprì le ante di vetro e mise un piede dentro, King si concesse di sospirare. Come sempre, Athena era rannicchiata sotto le coperte che le arrivavano fino sopra al naso. Dalla piccola massa che King riusciva a intravedere nel buio, sapeva che la ragazza portava le gambe fino al petto e restava chiusa a riccio senza emettere un suono e senza ammorbidirsi con un solo movimento. Chiuse facendo delle smorfie che seguivano i languidi della finestra e si tolse il cappello, facendo ricadere sulle spalle la matassa di capelli castani.
«A lungo andare, diventa esasperante.»
King si girò con un sobbalzo e sgranò gli occhi quando vide Athena seduta contro la testiera del letto, le coperte stropicciate e morenti sul suo grembo. I capelli erano come un paio di tende scure che le strofinavano ai lati del volto tondo e liscio, gli occhi brillavano nella stanza buia. Aveva le braccia nude e una canottiera bianca sottilissima grazie alla quale s'intravedeva fin troppo il freddo che provava e la cicatrice sulla clavicola bianca come la luna. King non riuscì a distogliere lo sguardo dai suoi seni. Si sentiva ridicolo, un po' depravato, con la bocca semiaperta e gli occhi stanchi di sonno.
«Ti sento sempre» continuò Athena restando completamente immobile, né si coprì né lasciò intravedere di essere imbarazzata. «La notte quando sgattaioli di sotto. La notte quando rientri.»
Ricordando di non aver propinato ancora parola, King si riscosse. Distolse gli occhi e li rivolse al soffitto.
«Desolato di aver interrotto i tuoi sogni.»
«Non stavo sognando.»
King si avviò verso la porta e strinse il cappello tra le dita quando sentì lo sguardo di Athena seguirlo.
«Sì, beh, allora torna a dormire.»
Aprì la porta e uscì, richiudendosela lentamente alle spalle. Si fermò nel corridoio e sentì della bile salirgli su nel petto. Non voleva tornare in camera sua, non voleva svegliare Gabo, non voleva tornare da Athena. Peggio ancora, non voleva uscire e far visita alla sua vecchia casa, dove era stato felice. Rimase fermo nel corridoio tra la porta rossa e quella nera e l'unica cosa che riuscì a pensare era di doversi scusare con Athena per utilizzare la sua camera – la sua privacy – come stazione; ma se pensava a lei, pensava a quella canottiera striminzita e ai suoi lunghi capelli e al suo sguardo freddo, gelido, completamente disinteressato. Pensò alla sua pelle così bianca e non pensò ad altro, per tutta la notte.
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