74- Grandi battaglie
Mississippi, 4 dicembre 1862
I tempi sono maturi.
Questa frase andava ripetendo Jonathan come un mantra in quei giorni. L'aveva scritta il padre in una lettera riferendosi ai cambiamenti che stavano avvenendo nell'assetto dell'esercito e ci aveva fantasticato sopra durante tutta la spedizione che da Granada li stava portando a Oakland nel Mississippi.
Ho sentito che il generale Rosencrans, del dipartimento del Cumberland, ha idee molto precise sull'uso della cavalleria e ha intenzione di metterle in atto. Non più un corpo d'armata sottomesso alla fanteria, ma indipendente. La cavalleria deve poter fare il suo dovere, con una sua linea di comunicazione e approvvigionamenti.
L'idea era buona. Almeno avrebbero dato un preciso scopo militare a questi reggimenti sganciandoli dal mero supporto alla fanteria.
I tempi sono maturi.
Se suo padre aveva ragione, presto tutta la cavalleria sarebbe stata riformata e forse era l'occasione che aspettavano per staccarsi dal Quinto Cavalleria del Kansas e lasciare la frontiera.
Rosencrans aveva già iniziato a riorganizzare i suoi a ottobre; se le voci che correvano erano veritiere, presto anche a Est sarebbe accaduto qualcosa e Jonathan voleva cogliere l'occasione.
Doveva solo trovare il momento giusto per parlarne a Robert.
«I tempi sono maturi, eh?» gli aveva risposto con una spiccata vena di sarcasmo, mentre fissava la sella al cavallo e stringeva la cinghia sotto pancia.
«Robert...»
«Sì, va bene, ho capito. I tempi sono maturi e tu te ne vuoi andare da qui.»
Jonathan gli scoccò un'occhiata feroce.
«Tu vuoi rimanere in questa palude?»
«Il clima fa schifo, concordo. Ma non credo che in Virginia si stia molto meglio. Comunque ne abbiamo già parlato: decidi tu. Per me un posto vale l'altro, mi basta solo di portare a casa la pelle» continuò con un sospiro senza più guardarlo. Dovevano radunare gli uomini e rimettersi in marcia: aveva ben altro cui pensare. Che se ne occupasse suo fratello, se ci teneva tanto.
Jonathan si allontanò, torvo, infilando la lettera nella tasca dei pantaloni.
«Ehi, Johnny» lo richiamò Robert. Il giovane si voltò nella sua direzione e lo vide appoggiato alla sella con un sorriso beffardo. «Se andiamo in Virginia, dobbiamo fare una sosta a Washington. Mi devi ancora un favore» lo stuzzicò.
Jonathan scosse la testa con un sorriso e liquidò la faccenda con un cenno della mano, tornando ai suoi compiti.
Boston, 2 luglio 1863
Sabrina corse in camera e prese a rovistare nel cassetto della scrivania, in ansia. Era giunta notizia che Lee si era spinto fino in Pennsylvania e che una grande battaglia si stava combattendo vicino a un piccolo paesino sconosciuto. Aveva sentito due signori scambiarsi l'informazione per strada, mentre tornava dalla passeggiata mattutina con sua madre, e aveva tentato di convincere Marie a tornare indietro per comprare un giornale. Lei però aveva finto di non sentire e se ne era disinteressata, come di ogni argomento che riguardava la guerra ma non fosse strettamente legato ai lavori dei comitati di cui faceva parte. Sabrina trovò l'ultima lettera ricevuta dai fratelli, un paio di mesi prima, e cominciò a scorrerla febbrilmente per trovare le informazioni che le servivano.
La riforma della cavalleria è avvenuta e noi abbiamo ottenuto il trasferimento nel Sedicesimo Cavalleria della Pennsylvania, nell'esercito regolare, sotto il colonnello John Irvin Gregg. Questi è un cugino del generale David McMurtrie Gregg che comanda la Seconda Divisione della nuova cavalleria. John Irvin Gregg ha combattuto in Messico con nostro padre e ha accettato di prenderci con sé. Dobbiamo ringraziare lui per questo: senza il suo intervento saremmo ancora impantanati nei bayou dell'Arkansas e del Mississippi, con un caldo afoso e degli insetti molesti che non riusciresti a immaginarti. La guerra rimane una gran brutta faccenda, ma le foreste della Virginia sono uno scenario più piacevole e poi adesso siamo stati promossi! Jonathan è diventato capitano e io ho scelto di fargli da tenente.
Si capiva che Robert cercava di mantenere un tono leggero, ma non riusciva a ingannarla. Lei sapeva che non gli interessava né della promozione né del trasferimento: era un desiderio di Jonathan e lui sposava come sempre la causa.
Il capitano Garret era un po' dispiaciuto, ma ha capito le nostre motivazioni e siamo arrivati in Virginia giusto in tempo per partecipare alla campagna di Chancellorsville. Qui la guerra è molto diversa da come l'avevamo vissuta nelle terre di frontiera. Per lo meno nei numeri. La Seconda Divisione di Cavalleria conta tredici reggimenti in tutto, di cui ben due di artiglieria a cavallo. Ci crederesti se non te lo dicessi io? È un numero di uomini montati impressionante! Davvero, a dirlo non fa lo stesso effetto che vederlo, ma ti assicuro che è uno spettacolo tanto bello quanto terrificante.
La lettera continuava con racconti di operazioni militari, ma Sabrina smise di leggere: non avrebbe capito da quelle informazioni datate l'attuale posizione dei suoi fratelli. Doveva agire in altro modo.
Sgusciò fuori dalla stanza silenziosa come un gatto, premurandosi di scendere l'elegante scala con cautela per non far scricchiolare il legno dei gradini. Nel vestibolo, afferrò il cappello e gettò un'occhiata frettolosa verso il salottino dove Marie si era ritirata, prima di aprire con delicatezza la porta e filarsela.
Fuori in strada prese a camminare in fretta, con i cerchi della gonna che ondeggiavano furiosi regalando fugaci visioni di pizzi e mutandoni, finalmente libera dal controllo asfittico della madre.
Giunse alla sede del Boston Post con un leggero fiatone e bussò al portone. L'uomo che aprì, un signore canuto e elegante nella sua giacca di lana marrone, le rivolse un'occhiata piena di rimprovero. Cosa ci faceva una giovane donna da sola sotto il sole del primo pomeriggio?
«Signore, ho bisogno della lista dei reggimenti presenti a Gettysburg» affermò con piglio deciso, sostenendo lo sguardo ostile senza paura.
L'anziano signore rimase zitto a scrutarla, sorpreso, poi l'invitò a entrare con un sospiro. Sabrina rimase seduta su una panca all'ingresso per un tempo che le sembrò eterno, in sottofondo il rumore ronzante delle rotative e i passi frettolosi degli impiegati che correvano da un lato all'altro, quando finalmente l'uomo tornò da lei con un plico di fogli.
«Ecco qua, signorina, ne ho fatta qualche copia. Magari vuole distribuirla alle sue conoscenze» disse con tono burbero. Sabrina apprezzò il gesto anche se non riuscì a essere gentile, tanta era l'urgenza di leggere cosa c'era scritto in quei fogli.
Il Sedicesimo Pennsylvania era là.
L'uomo la vide diventare pallida.
«Signorina, si sente bene? Desidera un po' d'acqua?» si premurò di accertarsi, lasciando cadere la sua maschera di ostilità indossata per sottolineare l'inappropriatezza di avere davanti una giovane donna che andava in giro da sola in quel modo.
Sabrina si riscosse, scuotendo la testa con forza.
«Non serve. Io devo andare, la ringrazio per l'aiuto» e scansandolo si allontanò in fretta.
Tornò a casa sulle gambe malferme, con il cuore che tambureggiava nel petto. Sapeva che i fratelli si erano trovati in molte situazioni pericolose: era rischioso anche andare in giro in ricognizione, non lo negava. Ma sapere che stavano partecipando a una battaglia di tali dimensioni l'atterriva. Il numero di reggimenti riportato in quella lista era infinito...
Trovò la madre ad attenderla dietro la porta: aveva notato la sua assenza ed era sdegnata. Dov'era andata in giro da sola? Che le era saltato in mente?
«Tenete e distribuitele anche alle vostre amiche.»
Sabrina tese la mano piena di liste stampate come risposta ai suoi rimproveri.
«Cosa sarebbero questi fogli?» indagò la madre con stizza.
«Sono le liste aggiornate dei reggimenti presenti a Gettysburg, ci sono anche i vostri figli» pronunciò senza energia e, lasciando i fogli su un tavolino all'ingresso, percorse la grande scalinata che portava al piano superiore per andarsi a rinchiudere in camera. Un grido soffocato la raggiunse dal piano di sotto: sua madre doveva aver realizzato la portata della notizia e aveva sentito la domestica affrettarsi verso la signora per sorreggerla.
Ma non le importava. L'unica cosa che l'angosciava era sapere che i fratelli erano là mentre lei era chiusa in quella stanza. Maledizione! Non che ritenesse il suo apporto fondamentale, ma avrebbe desiderato essere sul campo, pronta a soccorrerli se ce ne fosse stato bisogno, invece di passare lunghi minuti, ore, giorni a struggersi in attesa di notizie.
Strinse il cuscino e rimase a fissare la carta da parati a righe e fiorellini a lungo, seguendo con lo sguardo il disegno e cercando di calmare i pensieri che le affollavano la mente e irrigidivano le membra.
Pennsylvania... che ci facevano i Sudisti lì? Pensare che suo padre la voleva spedire a Pittsburgh sostenendo che la guerra non sarebbe mai arrivata così a nord... si sbagliava, evidentemente. Il pensiero di Lee che marciava su Washington l'atterriva. Se avessero conquistato la capitale? Potevano vincere la guerra?
L'immagine dei Confederati che la prendevano prigioniera le tolse il respiro. Non poteva succedere di nuovo... no. Strinse le palpebre e si sforzò di calmare il respiro ansioso.
Gettysburg, 3 luglio 1863
Era ufficiale, i Confederati si erano ritirati sulla Cresta del Seminario dopo aver tentato di sfondare le linee nordiste senza successo. I Federali erano riusciti a mantenere le posizioni dalla Collina del Cimitero, lungo tutta la Cresta fino al colle Round Top, ma c'era mancato davvero poco. Per adesso l'avanzata di Lee in Pennsylvania verso Washington era stata frenata, ma a che prezzo?
Se Jonathan voleva assistere a una grande battaglia, questa volta non aveva mancato l'obbiettivo. Stavano partecipando a una delle più grandi mai combattute finora, almeno a detta dei loro superiori.
Ed era più terribile e grandioso di quanto la sua immaginazione avrebbe potuto partorire. Combattevano furiosamente da tre giorni. Migliaia e migliaia di soldati schierati su un fronte vastissimo. Quanti uomini poteva contenere quella piana davanti alla Cresta del Cimitero dove l'esercito nordista aveva istituito la sua linea di difesa? Immediatamente a sud di Gettysburg, una cittadina minuscola e sconosciuta che all'improvviso era passata alla storia?
Si parlava di numeri enormi, difficili da immaginare. Ottantamila, forse più, per ogni schieramento. Di fatto, quando i Sudisti avevano tentato di sfondare la linea centrale quel giorno, la terra brulicava di uomini in grigio e l'artiglieria unionista aveva fatto un massacro. Non che l'artiglieria sudista fosse stata da meno: nel preparare l'avanzata della fanteria aveva sparato ininterrottamente causando gravi perdite.
Ma Jonathan e Robert avevano solo sentito i racconti di quell'avanzata grandiosa, visto che erano stati impegnati nelle retrovie per intercettare la cavalleria di Stuart che tentava di prenderli alle spalle – Una lunga battaglia corpo a corpo con la sciabola, in cui se l'erano vista brutta in più di qualche momento e che li aveva completamente sfiancati. – La misura vera del massacro era apparsa ai loro occhi solo nella sera, quando si erano riuniti al resto dell'esercito e avevano visto le squadre di portantini che correvano nel campo per recuperare i feriti a migliaia e uomini armati di zappa che si affannavano a seppellire i corpi.
Era lì che avevano ricevuto il resoconto di quella giornata di battaglia e compreso quanto avessero rischiato: se Lee fosse riuscito a sfondare al centro e Stuart a prenderli da dietro, sarebbe stata la fine per l'esercito nordista.
I soldati bivaccavano sdraiati al suolo rivivendo gli avvenimenti della giornata e recuperando le forze in vista del giorno successivo.
«Secondo te come andrà a finire, domani?» chiese Jonathan mentre si stiracchiava la schiena indolenzita da tanti giorni a cavallo inseguendo Stuart. «Lee ci riproverà?»
Robert scrollò appena le spalle concentrandosi più sul suo caffè che sul futuro.
«Dicono che il generale Hanckok sia rimasto sul campo di battaglia nonostante le ferite... Quella vecchia roccia non ha voluto lasciare la posizione finché non è stato certo che i Confederati erano in rotta. Che uomo... e pare abbia mandato un messaggio a Meade per mandare avanti due corpi d'armata contro i Sudisti e sfruttare il vantaggio della vittoria, ma il capo supremo ha tentennato, ancora una volta» lo incalzò.
«Non dovresti parlare così» lo riprese Robert, guardandosi intorno per capire se qualcuno li stesse ascoltando. «Meade è un ottimo generale ed è il capo dell'Armata del Potomac. Gode della fiducia del Presidente. Non dovresti farti scappare certe affermazioni» lo mise in guardia.
«Lo so, hai ragione... Solo che mi sembra sempre così prudente, guarda Grant piuttosto! Ha praticamente conquistato tutto il corso del Mississippi. Dicono che a giorni Vicksburg si arrenderà e allora il suo successo sarà completo! Lui è inarrestabile... mentre Meade questa volta ha rischiato grosso con Lee.»
«Perché quei Ribelli si sentono audaci. Sono arrivati fin qui e hanno combattuto come delle furie. Ieri ci hanno accerchiato e stavano per schiacciarci e oggi hanno tentato un attacco frontale. Se fossero riusciti a sfondare le nostre linee, adesso sarebbero in marcia verso Washington.»
«Ma non ce l'hanno fatta!» espresse con un sorriso di profonda soddisfazione Jonathan, poi prese una tazza di caffè e si accomodò di fianco al fratello.
«Per adesso no... vediamo domani chi attaccherà per primo» chiosò serio Robert, poi si buttò all'indietro disteso chiudendo gli occhi cerchiati di blu. Era stanco morto. La battaglia contro la cavalleria di Stuart era stata lunga e faticosa, montata e a corpo a corpo. Aveva le spalle indolenzite per i colpi vigorosi di sciabola e ora che l'adrenalina stava scendendo gli pareva di non poter sollevare nemmeno un dito. Pensare di rimontare in sella il giorno successivo e uccidere altri uomini gli dava il voltastomaco.
«Ehi, fratellino, su con il morale. Siamo ancora qui, no?»
«Sì, siamo fortunati. Basta che butti l'occhio laggiù a ovest per capire quanto» rispose con malcelato sarcasmo, riferendosi alle migliaia di uomini che ancora giacevano al suolo in attesa di soccorso. I loro lamenti giungevano soffocati nella notte appena calata e contribuivano a rendere l'atmosfera ancora più tesa e opprimente.
Jonathan tacque. Avrebbe preferito continuare a fare conversazione per non sentire quei gemiti, ma era evidente che Robert non era in vena di scherzi. Più si avvicinavano a Washington, più suo fratello gli appariva scontroso, eppure gli sembrava che avesse rinunciato al suo folle progetto di fare visita a Emily. Non aveva nemmeno mai accennato al fatto che gli doveva un favore... Forse era così arrabbiato proprio perché si aspettava che fosse lui a prendere l'iniziativa... ma lui non voleva fargli quel genere di favore! Era una pazzia.
Sospirando, si stese a sua volta fissando le stelle. Non avrebbe fatto quella mossa: sarebbe rimasto zitto aspettando che al fratello passasse il malumore.
Ma Robert non rimuginava su Washington, era già andato oltre anche se quella decisione gli era costata più di quanto immaginasse. Non aveva avuto il coraggio di parlarne con Jonathan per paura che la sua determinazione venisse meno. Ma la realtà era che aveva deciso di mettere una pietra sopra tutta la faccenda, per quanto fosse doloroso. E il fratello ignorava che nonostante tutti i suoi buoni consigli, alla fine erano state le parole del padre a scavare nella sua mente piano piano fino a convincerlo. L'idea di correre dietro a una donna inadatta, non gradita alla famiglia, e fare la fine del genitore che era stato mollato dalla moglie senza tanti convenevoli gli aveva imposto di soffocare i suoi sentimenti e cercare di voltare pagina. Quella ferita non sarebbe mai stata sanata e i dubbi l'avrebbero tormentato tutta la vita, ma lui sapeva che il suo dovere era dimenticarla e aveva deciso di mettersi d'impegno, ripetendosi ogni giorno che era la cosa più giusta da fare.
Non stava pensando a Emily quella sera e nemmeno voleva riflettere sulla battaglia. Desiderava solo spegnere la mente e trovare un po' di riposo da tutto, calmare quel nervosismo che lo faceva scattare come una molla a ogni parola del fratello. Se quella guerra fosse finita, forse avrebbe potuto voltare pagina, lasciare l'esercito e mettere su famiglia. Ma per adesso l'armata di Lee era a poche miglia di distanza e al sorgere del sole tutto sarebbe ricominciato.
Boston, 5 luglio 1863
Sabrina aspettava con ansia la lista aggiornata dei caduti e feriti, mentre cuciva con impazienza una divisa in compagnia delle amiche di sua madre. La tensione era palpabile.
Erano passati tre giorni e non vi era ancora nessuna certezza sull'esito della battaglia. Il giorno prima sembrava che i nordisti avessero vinto, ma finché non giungeva notizia che Lee si stava ritirando, non potevano esserne sicuri.
Le mani le tremavano per l'ansia e i suoi punti erano grossolani. La signora Westling l'avrebbe costretta a disfare tutto il lavoro, ne era certa. Ma come si poteva stare buoni in quella stanza a cucire mentre fuori il mondo cadeva a pezzi? E Sabrina sentiva che era un sentimento condiviso.
Il silenzio in quella stanza era opprimente, i mobili di legno di noce erano opprimenti, lo erano anche i divani di velluto imbottito e persino le delicate tendine di pizzo. Tutto schiacciava e soffocava là dentro. Le signore presenti cucivano con pazienza, ma all'interno sobbollivano come una pentola sul fuoco. Ognuna di loro stava pensando a un parente coinvolto nella battaglia e non al lavoro che aveva da svolgere. Era evidente. Sembravano tutte distratte, per prima sua madre che fissava il vuoto da diversi minuti. Come se le importasse qualcosa dei suoi figli, pensò con stizza Sabrina e poi si chiese se invece proprio la paura di perderli l'avesse resa improvvisamente più umana. Perché se era vero che l'aveva accolta, coccolata e vezzeggiata, era anche vero che non aveva voluto parlare del passato, e nel passato c'erano suo padre e i suoi fratelli.
Temendo di impazzire, si alzò di scatto dal suo sgabello lasciando cadere il lavoro a terra e si recò alla finestra più vicina. L'aprì e si sporse per prendere aria, nonostante il caldo afoso di luglio non garantisse alcun beneficio. Il corsetto le schiacciava le costole e sentiva un'improvvisa nausea.
«Sabrina» la riprese sua madre.
«Torno al giornale» rispose, risoluta.
«Non essere sciocca, il colonnello Smith ha promesso di portarci notizie qui al comitato.»
Sabrina sbuffò, tentata di rispondere qualcosa, ma non poteva. Lo sguardo di tutte quelle signore la censuravano e il debito di gratitudine verso sua madre le imponeva di controllarsi. Aveva giurato a se stessa che non l'avrebbe messa in imbarazzo e, deglutendo a fatica, tornò al suo sgabello e si lasciò cadere seduta. La signora Beauford fissò il suo broncio appena accennato, con disappunto, e la ragazza si forzò di trasformarlo in un mezzo sorriso che però non coinvolgeva gli occhi.
«Speriamo arrivi presto, allora. Questa attesa mi sta angosciando» disse nel tono più amabile che le riuscì e si affrettò a raccattare da terra la divisa da cucire per dedicarvisi, imponendosi di non guardare sua madre. Sapeva che la stava osservando, piena di rimproveri. Più tardi, nell'intimità della loro casa, probabilmente avrebbe dovuto sorbirsi una bella reprimenda per i suoi modi volgari, ma non adesso. Sua madre non avrebbe osato sgridarla davanti alle sue amiche.
Un'ora più tardi, quando le dita di Sabrina erano ormai ridotte a un colabrodo per tutte le volte che si era infilzata con l'ago, giunse l'anziano colonnello. Fece irruzione nella stanza gridando:
«Abbiamo vinto! Lee si sta ritirando, è ufficiale!»
Le signore balzarono in piedi con gridolini di felicità. Eccitate e cinguettanti si abbracciavano tra loro mentre lacrime di gioia cominciavano a scorrere. Sabrina ringraziò Dio mentalmente, poi si avvicinò timida all'ufficiale. L'uomo fu stupito di trovarsi di fronte quella ragazza seria che stonava con l'immagine di gaiezza sprigionata dalle altre signore.
«Colonnello, mi perdoni. Posso vedere le liste dei caduti e feriti?» chiese con voce tremante e l'uomo intuì quale fosse il sentimento che animava la ragazza. Più che l'esito della battaglia, aspettava notizie dei suoi cari.
«Sì, certo, signorina. Eccole qui» disse porgendole dei fogli che Sabrina prese a scorrere febbrilmente. Di colpo si ritrovò circondata dalle altre donne, come attirate dal suo campo magnetico.
Private G.Abbot, ferito... Private T.Adams, disperso... Tenente R.Bailey caduto... Sergente M.Bishop, ferito... Private J.Clegg... Improvvisamente si rese conto di aver passato la "B" e tornò indietro più volte a rileggere la lista per accertarsene, mentre lacrime di sollievo le bagnavano le guance e le altre donne le strappavano di mano i fogli per controllare a loro volta.
«Sabrina» mormorò sua madre dietro di lei. La ragazza si girò di scatto con un sorriso tra le lacrime.
«Non ci sono!» Poi gettò le braccia intorno al collo di sua madre piangendo insieme a lei.
Un grido si levò acuto, la signora Hooper si accasciò al suolo soccorsa in fretta dalle sue vicine: il figlio era nella lista. Marie e Sabrina si sciolsero dall'abbraccio per osservare la scena, inorridite. La signora Beauford si affrettò a recuperare i sali mentre le altre cercavano di fare aria alla povera disgraziata. E le intanto le grida di sgomento si moltiplicavano.
Tra le venti signore presenti al comitato quel giorno, più di una lesse il nome di un figlio, nipote o marito tra i feriti, dispersi o caduti. Questo diede a Sabrina la misura della grazia che era stata concessa alla sua famiglia più che la notizia data dai giornali nei giorni a seguire di tremila caduti e quattordicimila feriti. Quei soldati non erano più solo nomi su un foglio o numeri, ma persone reali.
All'improvviso si rese conto che da quel momento in poi avrebbe ascoltato le notizie e letto ogni bollettino con occhi diversi. E soprattutto divenne consapevole di una terribile verità: se suo padre e i suoi fratelli fossero caduti, lei sarebbe rimasta per sempre in quella città, avvolta in abiti soffocanti e sotto l'occhio critico di sua madre.
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