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22- Buone maniere

Più tardi si decise a raggiungere il padre; aveva già saltato la colazione: non poteva mancare anche l'appuntamento quotidiano per ricevere i compiti da svolgere durante la giornata. Era ancora scossa per quello che le aveva detto Jonathan e non del tutto convinta di volersi scusare. Capiva che poteva essere un buon suggerimento, ma l'idea di umiliarsi chiedendo scusa per una situazione creata dai suoi genitori e in cui lei non avrebbe mai desiderato trovarsi le bruciava come fuoco sulla pelle.

Bussò e fece capolino nell'ufficio, il genitore stava parlando con il tenente Moore e lei si ritirò in un angolo in silenzio. Nel congedarsi l'ufficiale le passò davanti rivolgendole un cenno al quale non rispose: era troppo occupata a non perdere di vista il genitore mentre si stropicciava le mani, nervosa.

«Padre» tentò di parlare appena lui volse lo sguardo nella sua direzione. Non era ancora sicura di essere in grado di scusarsi, ma ci voleva provare.

«Buongiorno, Sabrina.»

«Buongiorno» rispose lei abbassando lo sguardo, lo slancio di coraggio si era già esaurito.

«Non ti ho vista a colazione.»

Sabrina non osò guardarlo.

«Non mi sentivo molto bene» improvvisò.

«Be', spero che ora tu stia meglio.»

La cortesia del suo tono di voce la mise in allarme e si limitò ad annuire.

«E soprattutto mi auguro che tu non vada a elemosinare del cibo in cucina prima di pranzo...»

Sabrina sgranò gli occhi, colpevole. Era successo forse un paio di volte e non aveva trovato che qualche avanzo, ma nulla sfuggiva a quell'uomo.

«Bene, spero ti sia chiaro che non si mangia fuori orario, qui.»

Sabrina aprì bocca per replicare, ma ci ripensò e chiudendo le labbra riportò lo sguardo al suolo, arrossendo come una scolaretta in un misto di vergogna e rabbia. Non era il caso di rispondere di nuovo a suo padre, però scusarsi era diventato impossibile: se anche aveva avuto una pallida idea di farlo, adesso sentiva che non ne sarebbe più stata in grado.

Il capitano rimase a osservarla in silenzio per qualche minuto, forse per darle il tempo di ripensarci, ma, vedendo che lei stava lì ferma a fissare il suolo con astio, si avviò alla sua scrivania e prese qualcosa.

«Allora, Sabrina, per oggi ti farò lavorare sulla grammatica e ho pensato di utilizzare questo testo. Lo conosci?»

Sabrina alzò circospetta gli occhi da terra e li fissò sul libro che teneva tra le dita. Deglutì a fatica riconoscendo uno dei testi preferiti di sua madre, "La scuola delle buone maniere*": in mano a suo padre suonava come un pericoloso avvertimento.

«Gli ho dato un'occhiata e penso che faresti bene a leggerlo anche tu» lasciò cadere con noncuranza. Sabrina avrebbe voluto dirgli che l'aveva già letto e che, a suo parere, conteneva anche un mucchio di scemenze, ma si trattenne.

«Oggi pomeriggio lavorerai sul capitolo secondo, in particolare sulla parte che riguarda il comportamento in casa... Dovrai copiare in bella calligrafia le quattordici regole elencate, cinque volte può bastare, poi ne farai l'analisi grammaticale.»

Sabrina seguiva attentamente i movimenti del padre e cercava di dominare le sue espressioni per non tradire alcuna emozione, non voleva dargli la soddisfazione di lamentarsi per la mole di lavoro che le stava infliggendo.

Il capitano le tese il libro e Sabrina si limitò a prenderlo in silenzio.

Stava per andarsene quando la immobilizzò con un ulteriore compito.

«Per finire, desidero che tu scriva dieci modi in cui hai infranto quelle regole con il tuo comportamento di ieri sera.»

Fu come una doccia fredda. Sabrina strinse le labbra e s'impose di uscire dall'ufficio senza mettersi a gridare. Fece attenzione a non sbattere la porta e dominò i suoi passi fino alla sua stanza cercando di sembrare indifferente, ma non appena fu al riparo da sguardi indiscreti scagliò il libro contro la parete e si gettò sulla branda, ansante.

Suo padre aveva deciso di punirla, Jonathan aveva avuto ragione anche quella volta: non scusarsi immediatamente aveva solo peggiorato le cose. Adesso l'aspettava una giornata di lavoro davvero pesante. Come poteva pensare quell'uomo di darle tutte quelle cose da fare e pretendere che finisse entro il pomeriggio? Be', lei avrebbe finito... Non gli avrebbe dato la soddisfazione di costringerla a chiedergli venia per non essere riuscita a portare a termine il compito che le aveva assegnato, per quanto fosse crudele.

Determinata, si alzò dal letto, raccolse il libro di sua madre da terra e si sedette alla scrivania. Prese dei fogli e aprì la scatola dove teneva il materiale per la scrittura. Stappò con troppa foga il calamaio facendo schizzare minuscole gocce d'inchiostro sul tavolo, sulla mano e sul naso. Stizzita, passò la manica sul volto per pulirselo e aprì il libro al capitolo indicato: tanto valeva mettersi di buona lena.

Cominciò a copiare le regole sul foglio, una serie di scemenze che la innervosivano a ogni parola che tracciava con rabbia sulla carta. "Fai un inchino ai tuoi genitori appena entri in casa e togliti immediatamente il cappello"; "Non sederti davanti ai tuoi genitori prima di aver ricevuto il permesso"; "Non discutere e non tardare a obbedire ai loro ordini"; "Non uscire dalla porta senza il consenso dei tuoi genitori"; "Non discutere e non litigare con i tuoi fratelli e sorelle"; "Non brontolare o essere scontento in merito a ciò che i tuoi genitori fanno o dicono"; "Sopporta con mansuetudine e pazienza, senza mormorii, i rimproveri e le correzioni dei tuoi genitori" e una sfilza di altre regole che le erano state inculcate fin dalla giovane età, ma che adesso percepiva come umilianti.

Se suo padre sperava che dopo aver scritto cinque volte quelle frasi lei le avrebbe messe in pratica, si sbagliava di grosso. Non voleva essere maleducata, ma da quando viveva in quel posto troppe cose erano cambiate e non riusciva più a comportarsi come quando era una bambina. Non poteva più accettare qualunque imposizione dei suoi genitori come se venisse dal Padre Eterno... Sopportare le correzioni con mansuetudine? Certo, se avevano un senso l'avrebbe fatto di sicuro, ma la maggior parte delle volte erano gratuite e non potevano pretendere che non provasse a protestare! Non parlare a tavola a meno che non sia invitata a prendere la parola? A quanto pareva, lei non poteva dire la sua in nessuna occasione...

Continuava a scrivere con rabbia, ma alla fine della seconda copiatura fu costretta a fare una pausa per massaggiarsi la mano. Aveva già i crampi e non era neppure a metà del compito!

Decise di mettere da parte il lavoro di trascrizione e dedicarsi all'analisi grammaticale: almeno avrebbe avuto qualcos'altro a cui pensare e potuto riposare un po' la mano.

Il suono della tromba la riportò alla realtà. Il tempo stava scivolando troppo in fretta: era già quasi ora di pranzo e lei era ancora indietro con il lavoro. Presa dall'ansia cercò di analizzare ogni parola più in fretta, doveva muoversi.

Arrivò in refettorio trafelata. I suoi fratelli erano seduti in disparte e li raggiunse sfinita e affamata, reggendo in equilibrio un piatto pieno di stufato.

«Ehi, tutto bene?» le chiese Robert, guardandola perplesso mentre azzannava un pezzo di pane con foga.

Lei si limitò ad annuire.

«Cos'hai lì?» domandò, indicando la sua faccia.

Sabrina si bloccò con il cucchiaio a mezz'aria.

«Lì dove?»

«Lì, sul naso... hai un segno nero.»

Sabrina rammentò il suo piccolo incidente con l'inchiostro e si strofinò energicamente con la punta delle dita mentre Jonathan fissava con interesse la sua mano piena di macchioline e i polpastrelli anneriti.

«Hai seguito il mio consiglio stamattina?»

Sabrina smise di strofinarsi il naso e scosse la testa riprendendo a mangiare, non voleva parlarne.

«Perché no?»

«Non ho potuto» tagliò corto.

«Non hai voluto, intendi.»

La ragazza appoggiò il cucchiaio fissando il fratello con aria di sfida.

«Di che consiglio state parlando?» intervenne Robert.

«Ho suggerito a Sabrina di andare a scusarsi con nostro padre.»

«Un buon consiglio.»

«Ottimo, direi.»

Sabrina decise di ignorarli e riprese a mangiare, non aveva tempo di mettersi a discutere con quei due: doveva tornare nella sua stanza e finire quel compito. I fratelli evitarono di aggiungere altro e si limitarono a osservarla mentre masticava con foga il suo pranzo come se avesse una gran fretta. La ragazza raccolse l'ultima cucchiaiata, bevve un sorso d'acqua al volo e si alzò alla svelta.

«Scusatemi, devo andare.»

«Ehi, Sabrina, dovresti pensare sul serio a quello che ti ho detto stamattina!»

La ragazza si fermò e si voltò un attimo, indecisa se sfogare la sua rabbia o meno.

«Troverà il modo di fartela pagare.»

«Non ti preoccupare, l'ha già trovato» disse con stizza, voltandosi per tornare di corsa al suo lavoro e lasciando i due a scambiarsi uno sguardo perplesso.

Aveva finalmente concluso l'analisi grammaticale e di trascrivere altre tre volte il testo, anche se doveva ammettere che l'ultima copia non era propriamente scritta con una bella calligrafia, anzi... ma la mano era rigida per lo sforzo e non sarebbe riuscita a fare meglio.

Ora non le restava che dedicarsi alla parte più difficile: mettere nero su bianco dieci modi in cui aveva trasgredito alle regole la sera prima. Praticamente un'autoflagellazione a suon d'inchiostro, l'umiliazione finale.

Sabrina se ne rese conto non appena cominciò a pensare cosa scrivere: non sarebbe stato per nulla semplice. Suo padre non era interessato alle sue motivazioni né a scoprire l'origine di tanto livore... lui era solo offeso per i suoi modi. Cosa si aspettava?

Avrebbe dovuto andare da lui in privato, chiedere rispettosa udienza e poi dire con tono pacato qualche scemenza del tipo: Padre, scusatemi per tanta arroganza nell'avanzare questa richiesta, ma desidererei avere da voi il permesso di non partecipare alla festa di Natale a Carson City. Vorrei poter essere messa al riparo dai terribili pettegolezzi sulla mia famiglia; non essere costretta a sentire le volgari insinuazioni su mia madre o sul vostro eccellente operato; né subire il disprezzo della comunità per la scelta, a me imposta, di vivere in un forte, un luogo poco adatto a una giovane donna come me che dovrebbe restare pura e crescere in un ambiente idoneo per non rischiare di rimaner zitella...

Sabrina arricciò le labbra con disgusto. Se il padre avesse accettato di buon grado un discorso così stucchevole e falso, avrebbe perso tutta la sua stima... Di certo non poteva essere tanto sciocco. Ma lo stesso si vergognò del modo in cui gli aveva parlato e soprattutto di avergli fatto il verso in maniera infantile.

Sospirando, impugnò il pennino e si preparò a ricevere la vera punizione: il lavoro svolto fin lì era stato solo un piccolo preambolo.

1- Non avrei dovuto rivolgermi a mio padre in modo insolente e irrispettoso.

2- Non avrei dovuto mettere in dubbio la sua scelta di recarci alla festa di Natale.

3- Avrei dovuto lasciare la sala solo dopo aver ottenuto il suo permesso.

4- Non avrei dovuto disobbedire allontanandomi dalla sala senza autorizzazione.

Sabrina si bloccò: che poteva scrivere ancora? Non c'era altro. Era più che sufficiente per non passare l'esame di buona educazione per un figlio... ma suo padre voleva dieci violazioni e a lei non veniva in mente niente. Già il terzo e quarto punto erano pressoché identici nel contenuto!

Riprese il libro di sua madre per cercare ispirazione e tentò di riformulare qualche concetto in modo da moltiplicarlo. Altro che sentirsi in colpa per il suo comportamento sconsiderato: si stava innervosendo a tal punto che la punizione era quanto di più inutile e controproducente suo padre avesse potuto inventare.

Cominciò a scrivere che non aveva fatto l'inchino, ridendo tra sé e sé. Inchino... quando mai? Non esageriamo, pensò, non sono alla corte del re. Aveva smesso questa abitudine dopo poco tempo che era al forte: lì non si facevano inchini, si stava in piedi impettiti come tanti galletti e lei aveva cominciato a sentirsi ridicola. Suo padre non sembrava essersene accorto, o forse non ci aveva dato peso, e lei aveva preferito imitare la marzialità dei soldati e starsene in piedi ben dritta e con la testa alta, riservando questa formalità alle persone anziane che raramente incontrava fuori da lì.

Scrisse che avrebbe dovuto aspettare il permesso prima di accomodarsi a tavola — non lo chiedeva mai in realtà — e che non avrebbe dovuto brontolare mentre il genitore discuteva della festa con i fratelli — anche se si ricordava di essere stata ben zitta, ma faceva numero quindi tanto valeva metterlo. Riformulò i primi due punti con altre parole e aggiunse che non avrebbe dovuto parlare durante il pasto se non interrogata.

Non le importava più di nulla: ormai era una farsa, una specie di gioco stilistico che non la riguardava sul serio. Soddisfatta, rilesse il suo lavoro accorgendosi che il fastidio cominciava a rimontare: se quelle regole erano davvero valide, non sapeva se avrebbe dovuto sentirsi grata per le piccole libertà concessele dai suoi genitori o irritata per il fatto di dover essere riconoscente per così poco. Questi pensieri discordanti ben esprimevano il tramestio delle sue viscere da adolescente combattuta e raggruppò i vari fogli sparsi in giro per portarli a suo padre.

Aveva finito, pensò con cupa soddisfazione.

Bussò educatamente ed entrò nell'ufficio del capitano, con un'aria seria e un fiero cipiglio. L'uomo alzò appena gli occhi dal documento che stava leggendo e la scrutò severo. Sabrina si avvicinò alla scrivania e appoggiò il plico di fogli e il libro, ma il padre riprese il piccolo volume e glielo tese.

«Questo tienilo, potrebbe servirti.»

Sabrina lo prese senza ribattere.

«Posso andare?»

Il capitano annuì, serio, e la ragazza si affrettò fuori, con un sorrisetto stampato sul volto. Aveva adempiuto ai suoi compiti e non aveva potuto dirle nulla: era evidente che non se l'aspettava.

Sentendosi più leggera, corse in camera a mettersi i pantaloni e si diresse verso la stalla. La compagnia del suo cavallo le avrebbe risollevato il morale dopo quella giornata tremenda e forse le avrebbe impedito di rimuginare ancora su sua madre.


*The school of good manners, composed for the help of parents, in teaching their children how to behave during their minority. Testo del 1790, che vantò numerose edizioni, contenente regole compilate da Mr. Eleazer Moody, un famoso insegnante di Boston.

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