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19- La scuola militare

Fine estate, 1859.

Era passato ormai un anno da quando la sorella si era inserita prepotentemente nelle loro vite e ora sembrava quasi naturale che ci fosse. Jonathan non l'aveva mai perdonata per il suo tradimento e continuava a trattarla con freddezza, accettando però che condividesse le loro giornate per amore del fratello. Non gli aveva raccontato di come si fosse comportata in maniera spregevole, non aveva voluto deluderlo. Eppure sarebbe stata la sua miglior vendetta! Se anche Robert avesse iniziato a disprezzarla avrebbe esaudito il suo intimo desiderio di riaverlo tutto per sé, ma per quanto sembrasse un duro non poteva essere così crudele da condannare la ragazzina alla piena solitudine. Non riusciva a odiarla fino in fondo.

«Chissà cosa vuole nostro padre» ruppe il silenzio Robert mentre si avviavano insieme verso l'ufficio del capitano.

Jonathan alzò appena le spalle con una smorfia, millantando indifferenza, ma sotto sotto moriva dalla curiosità: non sembrava la solita convocazione per lamentarsi di qualcosa, anche perché ultimamente il loro comportamento era stato ineccepibile. Certo che con la ragazzina a creare scompiglio era davvero più facile collezionare ottime figure...

«Non so te, ma a me pareva dovesse dirci una cosa importante... sembrava euforico...» continuò Robert cercando di strappare un commento al fratello, ma quello non accennava a smettere di camminare, come se raggiungere la meta fosse più importante che condividere i suoi pensieri.

«Insomma! Hai perso la lingua?»

Jonathan si voltò di scatto sogghignando.

«Se vuoi sapere che ci deve dire, devi darti una mossa e finirla di chiacchierare... andiamo!» e lo precedette dentro la stanza.

«Ragazzi miei, ben arrivati. È giunto per voi il momento di andarvene di qui» esordì senza tanti preamboli.

I due rimasero in silenzio, trattenendo il fiato.

«Ho trovato una buona scuola militare nel Missouri pronta ad accogliervi e penso che non dovreste perdere quest'opportunità. Purtroppo non sono riuscito a farvi ammettere a West Point, ma questa sembra una valida alternativa a detta di alcune mie conoscenze.»

I due si scambiarono un'occhiata; gli occhi di Jonathan scintillavano per l'emozione, mentre lo sguardo di Robert era cupo.

«Frequentare questo istituto non potrà che giovarvi» continuò. «Probabilmente penserete di sapere già tutto quello che vi serve, visto che vivete con l'esercito da molto tempo e avete imparato molte cose dai manuali che vi ho fatto studiare... Ma questa scuola può suggellare le vostre conoscenze e dargli credito, sia che pensiate di fare carriera da quadri nell'esercito sia che vogliate intraprendere un'altra strada.»

Il capitano si avvicinò al figlio minore e gli mise le mani sulle spalle, fissandolo negli occhi.

«Robert, so bene che questa non è la vita che desideri.»

«No, padre, non è vero, io...»

«Non ti devi giustificare con me. Cogli però l'occasione di ottenere un titolo di studio prestigioso come quello che ti può dare un'accademia militare. Tu e tuo fratello vi farete compagnia, poi lui proseguirà nel suo desiderio di arruolarsi e diventare un ufficiale, tu seguirai le tue inclinazioni.» E lo abbracciò.

Robert avrebbe voluto piangere: l'accademia militare era uno degli ultimi posti dove avrebbe desiderato andare, ma capiva che suo padre aveva ragione.

Il genitore tornò a fissarlo negli occhi con aria d'incoraggiamento e il ragazzo abbozzò un debole sorriso. Lo conosceva meglio di quanto lasciasse a intendere quando rivestiva il suo ruolo di capitano.

«Partirete tra un mese. Potete andare adesso» li congedò, ma Jonathan non sembrava voler uscire.

«Padre, vi sono grato per questo, non sapete quanto significhi per me aver l'opportunità di fare il vostro stesso percorso... solo che...»

Il genitore lo guardò perplesso e lo invitò a continuare.

«Forse non sono affari che mi riguardano, ma mi chiedevo se l'onere economico di mandarci via entrambi fosse sostenibile per voi... Forse dovremmo trovarci un lavoro per contribuire alle spese» riprese, stropicciandosi le mani nervoso.

«Non vi dovete preoccupare. È vero, la paga di capitano non è particolarmente elevata, ma sono in attesa di una promozione e poi ho trovato un acquirente per la casa di Carson City: è inutile tenerla lì e avremo la liquidità che ci serve.»

I due si scambiarono uno sguardo pregno di significato. Quella era una notizia che sottintendeva troppe cose.

«Pensate che nostra madre non ne abbia più bisogno?» azzardò Robert.

«Se vostra madre tornerà, verrà a vivere nel forte, non c'è più motivo che se ne stia da sola con vostra sorella: Sabrina si è ambientata benissimo qui.»

«Perché dite se? Temete che non torni?» incalzò il ragazzo, scansando Jonathan che stava per impedirgli di continuare.

Il padre si rabbuiò. Aveva sbagliato a esprimersi: avrebbe dovuto rimanere sul vago come al solito e dire quando tornerà, ma ormai era troppo tardi. Sospirando, si avviò alla sua scrivania e ci si sedette sopra, sconfortato.

«Promettete di non dire nulla a vostra sorella.»

«Ma...»

«Non una parola sull'argomento con lei!» s'infervorò, poi scosse la testa tornando a sospirare.

«È inutile che tenti di nascondervelo ancora. Vostra madre non sembra voler ritornare da Boston. Sabrina è rimasta sola e devo proteggerla: se venisse a sapere che Marie è stata capace di prendere una tale decisione, non avrebbe più un modello femminile di riferimento. Come farei a convincerla a imparare a comportarsi da vera signora? Non so se mi capite...»

I due annuirono in silenzio. Robert era ammutolito alla notizia e pensare di partire per l'accademia in quel momento, abbandonando la sorella, gli fece sentire un peso insopportabile allo stomaco. Anche Jonathan, immaginando la sua reazione, ebbe un moto di tenerezza: quella ragazzina era destinata a rimanere da sola senza di loro, adesso che il sospetto che la madre non avesse intenzione di tornare era diventato realtà.

«Povera Sabrina» fu l'unica cosa che riuscì a pronunciare Robert e, vedendo che il capitano annuiva con gravità, i due ragazzi si congedarono. L'euforia della partenza era stata alquanto offuscata da quella tetra rivelazione.

La scuola militare non era così terribile come Robert aveva temuto. Sembrava di essere al forte: l'istituto era ritagliato all'interno di una caserma e la giornata era scandita dagli stessi ritmi di sempre, con lezioni inframmezzate a esercitazioni e momenti di pausa. L'unica vera e piacevole differenza, a parte gli edifici di pietra e legno che sostituivano le baracche male assortite della loro guarnigione di frontiera, stava nel fatto che erano circondati da coetanei e le camerate erano alquanto allegre.

Non si sentivano più ragazzini che dovevano tenere il passo con uomini adulti: lì erano con i loro pari e partivano pure in vantaggio. Ai due non pesava la sveglia all'alba, i turni di lavoro e neppure le lezioni con un istruttore severo come il maggiore Turner. Dopo aver vissuto con il capitano, sotto le sue leggi, non avevano alcuna difficoltà a reggere quei ritmi, a differenza di molti altri ragazzi che mal si adattavano alla rigida disciplina e soffrivano per la lontananza della famiglia.

La disinvoltura e sicurezza con cui si muovevano in quell'ambiente avevano fatto guadagnare loro il rispetto anche dei compagni più anziani. I fratelli Becker erano dei duri, si mormorava, e nessuno si azzardava a giocare loro qualche stupido scherzo tipicamente riservato ai novellini.

Tutto sommato, se non fosse stato in pena per la sorellina, Robert avrebbe quasi potuto divertirsi quanto Jonathan, che invece sguazzava a suo agio in quell'ambiente come un pesce.

Il padre aveva ricevuto una lettera entusiastica in merito alla loro condotta ed era fiero, mentre Sabrina macinava le sue giornate nella monotonia, ripensando ai bei momenti passati in compagnia dei suoi fratelli. Unico svago rimastole era occuparsi dei cavalli e concedersi qualche galoppata in sella a Ella, indossando i pantaloni per l'occasione. Per il resto rimaneva sotto il controllo paterno, vestita di tutto punto, a progettare il modo per liberarsi di quella vita scomoda. Stava diventando sempre più intrattabile e scontrosa e il capitano si chiedeva come avrebbe fatto a tenerla a freno.

Jonathan e Robert erano in accademia da quasi due mesi e quella sera avevano architettato un piano pericoloso. Insieme a un gruppo di ragazzi sarebbero usciti per raggiungere una bettola nei pressi e divertirsi un po'. Girava voce che ci fossero molte ragazze carine che servivano ai tavoli e tutti loro, eleganti nelle divise da cadetti, erano decisi a fare colpo.

Robert aveva espresso qualche perplessità in merito: uscire dal perimetro della caserma era severamente proibito, per non parlare dell'uso di alcol o di frequentazioni con donne di dubbia origine come quelle che avrebbero incontrato. Jonathan aveva liquidato le sue incertezze con un gesto della mano: i più vecchi del gruppo si erano già cimentati nell'impresa e nessuno li aveva scoperti, non c'era di che preoccuparsi. Avevano studiato i percorsi e gli orari dei turni di guardia ed erano certi di farla franca.

La bettola era davvero come se l'erano immaginata. Un postaccio lurido che puzzava di cibo cucinato, legna bruciata, birra e un sentore acido di vomito, ma prometteva bene. Era zeppo di gente che giocava a carte e si ubriacava senza ritegno, ciccando tabacco e sputandolo ovunque,  ignorando le numerose sputacchiere sparse per la stanza.

I cadetti cominciarono a ridere, euforici per la loro prima avventura. Le ragazze c'erano davvero ed erano giovani e belle, con camicette scollacciate che lasciavano intravedere più di quanto avessero potuto immaginare nelle loro fantasie più spinte. Era inebriante.

«Ma guarda che bel gruppo di giovani soldatini...» li apostrofò una cameriera con voce fin troppo suadente. Strusciandosi contro un paio di loro, come se non ci fosse abbastanza spazio per passare, indicò un tavolo dove potevano accomodarsi.

I ragazzi sorridevano inebetiti e si scambiavano commenti poco lusinghieri sulle ragazze, mentre ordinavano da bere.

«Hai visto la bionda là in fondo? Che tette!»

«Se si strizza ancora un po' nel corsetto, le scivolano fuori e rotolano via!»

«Ci penserei io a raccoglierle...»

E così via. Dopo un paio di boccali di birra il gruppo era fuori controllo e rideva sguaiatamente, pronunciando le oscenità più perverse che riusciva a pensare, data la scarsa esperienza effettiva di ognuno con il sesso femminile.

Un giovane afferrò una cameriera per la vita e la costrinse a sedersi sopra di lui al loro tavolo, lei stette al gioco con consumata abilità e gli lasciò affondare il naso nella piega dei suoi seni.

«Tieni a bada il tuo fucile! Potremmo andare di sopra tu e io...» gli sussurrò all'orecchio.

Il giovane quasi si sentì svenire nell'udire una tale offerta: era davvero un ragazzo fortunato! 

«Quanto denaro hai con te?» aggiunse la donna, smontando la sua euforia. Forse non era il primo cui faceva una proposta simile quella sera...

Il ragazzo farfugliò qualcosa, lasciando intendere che non era ben provvisto, e lei si alzò di scatto.

«Sarà per la prossima volta, rubacuori!» E gli diede un buffetto sulla guancia prima di andarsene e raggiungere le altre cameriere che sghignazzavano: un altro ragazzetto sprovveduto.

«Che ti ha detto! Che ti ha detto!» insistettero gli altri per capire cosa fosse successo e lui arrossì violentemente.

«Quello è il genere di donne da cui mi ha messo in guardia nostro padre» sussurrò Jonathan al fratello.

«Non paiono davvero per bene...»

«Per niente!» scoppiò a ridere Jonathan. «Meglio limitarsi a guardarle! Sono comunque uno spettacolo...»

«Già» annuì Robert, anche se doveva ammettere con se stesso che una toccatina non gli sarebbe dispiaciuta, tanto per capire che consistenza avessero quei seni procaci. Cercando di dominare quei pensieri lussuriosi continuò a bere senza sosta.

La costellazione di Orione era ben visibile. L'ora doveva essere ormai tarda, pensò Robert mentre scrutava il cielo e si liberava la vescica contro un cespuglio all'esterno. Avevano bevuto decisamente troppa birra: era il caso di rientrare.

Fece per tornare nel locale quando intravide un paio d'uomini che si avvicinavano a cavallo, sembravano in divisa. Il cuore mancò un battito e si precipitò all'interno.

«Ci sono degli ufficiali! Andiamocene!»

Ci fu un trambusto generale: sedie che cadevano, ragazzi che si spintonavano per guadagnare la porta sul retro e mettersi a correre al buio. Alcuni erano talmente ubriachi che faticavano a reggersi in piedi e inciampavano di continuo, traditi dalle loro stesse gambe.

Un paio di avventori scoppiarono a ridere. Sempre la solita storia, pensano ancora di farla franca. Ma era la risata floscia di chi ha visto la stessa scena troppe volte.

Appena i due ufficiali entrarono, il proprietario si limitò a indicare con un cenno l'ingresso posteriore tra il disinteresse generale. 

Intanto il gruppetto correva a rotta di collo per il sentiero notturno, sperando di non farsi identificare, ma i due ufficiali erano a cavallo e ci misero molto poco a raggiungerli.

«Bene bene, vediamo un po' chi abbiamo qui... signor Randy, signor Butler, signor Bethea... oh, guarda, anche i signori Becker... Immagino che vostro padre non ne sarà per nulla contento.»

Il gruppetto stava immobile, cercando di riprendere fiato, fino a che un ragazzo cominciò a vomitare per la troppa birra e lo sforzo.

I due ufficiali storsero appena il naso per il disgusto.

«Raccogliete il signor Finnegan e seguiteci. Domani faremo rapporto e vi assicuro che vi passerà la voglia di andarvene in giro senza autorizzazione.»

I ragazzi sembrarono spaventati dalla prospettiva, ma Robert e Jonathan si limitarono a scambiarsi una rassegnata occhiata complice.

Il mattino seguente i sei colpevoli stavano sull'attenti al centro della piazza d'armi, davanti agli altri cadetti schierati per l'appello del mattino. Il maggiore Turner li fissava con disprezzo mentre gli ufficiali sembravano impassibili.

Jonathan si chiese quante altre volte quel rito si fosse ripetuto, mentre guardava fieramente negli occhi i suoi compagni allineati davanti a lui. Aveva intuito di essere caduto nella trappola dei più grandi, che li avevano illusi di poter compiere una simile bravata senza conseguenze, mentre adesso se ne stavano lì a godersi lo spettacolo. Che ingenui erano stati! E lui ci era cascato come gli altri, nonostante avesse più esperienza in quel genere di cose.

Il maggiore elencò i nomi dei sei colpevoli con voce stentorea, descrisse la colpa di cui si erano macchiati, poi annunciò che si sarebbero divisi i turni di piantonamento alle camerate e i lavori di servizio dei loro compagni per due settimane. Jonathan chiuse gli occhi inspirando forte: questo significava almeno un doppio turno al giorno, tra pulizie e vigilanza, decisamente un brutto colpo. Mentre rimuginava, vide che alcuni ragazzi portavano vicino a ognuno di loro due secchi pieni d'acqua. Guardò di sfuggita il fratello, temendo il peggio, e lesse nel suo sguardo la stessa angosciosa perplessità.

«Signori!» intimò il maggiore. «Prendete i secchi.»

I sei ubbidirono, chiedendosi quale prova li aspettasse. Non era stato dato il "Rompete le righe" e tutti i loro compagni erano ancora schierati sull'attenti, seri e silenziosi.

Il sergente maggiore si fece avanti e ordinò di aprire le braccia, portando le mani all'altezza delle spalle. I ragazzi obbedirono e fu subito chiaro che li aspettava una brutta prova: in quella posizione i secchi pieni d'acqua erano maledettamente pesanti. Il sergente maggiore ordinò loro di marciare sul posto, alzando bene le ginocchia.

Jonathan sperò che si trattasse solo di un brutto scherzo, ma l'uomo gridò:

«Avanti marsch! Su quelle ginocchia, non battete la fiacca!»

Era terribilmente faticoso, sostenere quel peso era inumano. Peggio: era umiliante. I compagni li fissavano pallidi e seri e loro sbuffavano come mantici, nello sforzo di mantenere il ritmo. Il giovane Finnegan cadde al suolo dopo nemmeno un minuto, preda nuovamente dei conati di vomito, e il sergente maggiore inveì su di lui, sferrandogli un poderoso calcio al ventre che lo fece piagnucolare.

Jonathan sentiva che il sudore cominciava a infradiciargli la giubba e grosse gocce rotolavano dalla fronte scendendo lungo il naso o superando la barriera delle sopracciglia. Stringeva i denti per non mollare in maniera così poco onorevole come Finnegan, ma le braccia e la schiena erano scosse da spasmi muscolari per lo sforzo.

«Tieni alte quelle braccia tu, non fare il furbo!» abbaiò il sergente maggiore a uno dei ragazzi. «Siete solo delle femminucce senza palle! Uno spettacolo davvero disgustoso.»

Jonathan serrò le labbra e trovò la forza di voltare la testa verso il fratello: loro due non avrebbero mollato tanto presto, questo gli intimò con uno sguardo duro e caparbio.

Poco dopo cedette anche il giovane Bethea, seguito a ruota da Randy. Quest'ultimo piangeva per la fatica, senza più vergogna, e subiva gli insulti del sergente maggiore, che tentava di farlo rialzare, rimanendo immobile. Jonathan sperava solo che il giovane Butler cedesse in fretta: non aveva la minima intenzione di mollare prima di lui e pregava che anche suo fratello tenesse duro fino in fondo. Loro due si sarebbero guadagnati il rispetto degli spettatori, a costo di perdere l'uso delle braccia. Con un grido di rabbia Butler lasciò cadere i secchi e reagì all'insulto che gli rivolse il sottufficiale.

«Come osi rispondere in questo modo a un superiore?» sbraitò l'uomo cominciando a picchiarlo con il frustino.

Jonathan serrò le palpebre, poi, sentendo il fratello sibilare basta tra i denti, annuì impercettibilmente e lasciò la presa. I loro secchi rotolarono al suolo in subitanea successione e i due rimasero ansimanti a cercare un po' di riposo, con le mani appoggiate alle cosce e la schiena curva.

«Bene, quindi anche i fratelli Becker hanno mollato alla fine» li apostrofò il sergente maggiore, ma loro due erano troppo abituati a quel tipo di vita per cadere nell'errore di rispondere per le rime. Lentamente si misero sull'attenti, all'apparenza impassibili.

L'uomo li scrutò con severità, poi accennò un sorrisetto soddisfatto.

«Almeno qualcuno che sa come ci si comporta davanti a un superiore c'è. Che sia d'esempio per tutti!» esclamò rivolto agli altri colpevoli e ai ragazzi che assistevano rigidi.

«Rompete le righe. Lo spettacolo è finito» ordinò il maggiore Turner.

La folla si disperse in fretta, diretta alle varie occupazioni della giornata, mentre il gruppetto cercava di ricomporsi.

«Che vi sia servito da lezione. Andate a darvi una ripulita, ci vediamo in classe. Spero che almeno siate preparati sulla lezione del giorno o dovrò rincarare la dose.» E, lanciandogli un'ultima occhiata pregna di disapprovazione, si avviò con gli altri ufficiali.

«Andiamo» fece cenno Jonathan al fratello mentre fissava le schiene degli uomini che si allontanavano con passo deciso.

Non aveva paura di loro e non lo preoccupava minimamente la minaccia del maggiore Turner: ciò che lo angosciava davvero era il pensiero di come avrebbe reagito il padre. Era certo che ne sarebbe stato informato e la prospettiva lo terrorizzava. L'avrebbe preso come un affronto personale, una figura indegna che i figli gli avevano fatto fare davanti ai suoi pari in grado. Jonathan rabbrividì all'idea e Robert intuì al volo quali cupi pensieri stesse rimuginando il fratello. Erano gli stessi che passavano per la sua testa, angosciandolo.

La punizione sembrava avere un lato oscuro particolarmente spiacevole: qualche ora dopo si trovarono con i muscoli così indolenziti e doloranti da faticare a compiere anche i gesti più banali. Allungare la mano per intingere il pennino nel calamaio era una tortura, portare le posate alla bocca durante il pasto un'impresa. Robert non si era mai reso conto di quante azioni semplici compisse ogni giorno con le sue braccia fino a quel momento e serrava le labbra a ogni movimento per evitare di lamentarsi. Jonathan non sembrava essere nelle sue stesse condizioni: nessuna espressione del volto tradiva disagio.

«Dannazione, ma come fai a stare così bene? Ogni fibra del mio corpo chiede vendetta...» sbottò Robert, mentre erano soli nel loro angolo e tentava di spogliarsi per andare a dormire.

«Anche il mio» rispose serafico.

Robert lo fissò incredulo.

«Davvero» scoppiò a ridere Jonathan. «Ci hanno fatto proprio un bello scherzetto oggi, non avrei mai immaginato di stare così male dopo...»

«Be' non si direbbe che tu stia male» rispose offeso il fratello che non ci trovava nulla di comico nel non riuscire nemmeno a sfilarsi la camicia.

«Te l'assicuro... Solo che ho pensato che non mi va di farlo sapere agli altri, non so se mi spiego. Dopo aver visto Randy lamentarsi a ogni movimento ho pensato che stava facendo proprio una magra figura, quindi ho raddrizzato le spalle e deciso che potevo riuscire a fingere se lo volevo. E sai una cosa? Fa male esattamente nella stessa maniera, solo che gli altri non ti fissano come se fossi un cretino...» rispose strizzandogli l'occhio.

Robert scoppiò a ridere.

«Hai ragione! Dignità ci vuole!» rispose, poi, vedendo che la camerata si stava affollando, abbassò il tono di voce.

«Comunque, non so te, ma più che i vari turni di lavoro che ci hanno affibbiato, mi spaventa la reazione di nostro padre quando verrà a saperlo...»

Jonathan rimase serio e in silenzio: ci aveva pensato tutto il giorno, ogni volta che sentiva una fitta muscolare vedeva la faccia contrariata del genitore. Il fratello aveva ragione: la reazione del capitano sarebbe stata la vera punizione.

«E se non venisse mai a saperlo?» si decise infine a rispondere.

«Tu sogni. Il maggiore avrà già preparato una bella letterina per lui, puoi scommetterci.»

«Lo so bene... Solo che potrebbe non riceverla mai.»

Robert sgranò gli occhi e rimase interdetto a fissarlo, poi lo prese per un braccio e si avvicinò.

«Non vorrai metterti a rubare la posta adesso? Siamo già abbastanza nei guai, mi pare» gli sussurrò con un tono di voce quasi impercettibile.

«Tu non ti preoccupare...» replicò con un mezzo sorriso, scostandosi da lui e continuando a prepararsi per andare a dormire come se nulla fosse mai stato detto.

Robert stava per ribattere, ma Jonathan si limitò a fargli un cenno con il capo a indicare tutti gli altri ragazzi, scoraggiandolo dal proseguire.

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