CASSETTA 8
[Note autore:
1) Scusate l'attesa, se c'è ancora qualcuno che segue questa storia.
2) Questa cassetta è più breve rispetto alle precedenti perché ci sono parecchie cose da metabolizzare e, soprattutto, è il punto di svolta e di cambiamento che ci condurrà al punto iniziale, un cerchio che si chiude.
3) Se siete ancora qui e non mi odiate, ditemi che ne pensate.
Un bacio.
Lilith.]
9 ottobre 2033
Quando Manuel apre gli occhi, ha un gran cerchio alla testa che sembra far girare la stanza dalle pareti bianche e troppo chiare che ha intorno.
C'è troppa luce, pensa e questo gli dà fastidio.
Oltretutto ha la gola secca, gli brucia e gli fa male come quando ha la tosse da giorni e nessuno sciroppo lenisce il fastidio.
Cerca di mettere a fuoco l'ambiente circostante il più possibile, sbattendo le palpebre. Persino tale gesto gli costa dolore - tenue, lieve, ma presente.
«Amore?»
È una voce femminile graffiata che gli raggiunge le orecchie, il primo suono in grado di provocargli una fitta alle tempie, ragion per cui strizza gli occhi non appena la sente.
«Non... urlare» soffia.
Anita non sta urlando. Al contrario, utilizza un tono tenue, basso, che di poco sovrasta dei tintinni regolari che rimbombano nella camera spoglia. «No, no. Sto zitta, mh?» replica la donna. Se è possibile, abbassa ancora di più la voce e il ragazzo, muto, ringrazia.
Manuel fatica ad abituarsi alla luce, ad un ambiente nuovo che non conosce. Gli sembra tutto estraneo, strano, per nulla accogliente, freddo.
Ha freddo, lo nota soltanto ora.
Aveva freddo pure quella sera, sull'asfalto.
Non ricorda bene cosa è successo: lo schianto, le urla, il rumore delle lamiere che si piegano, schegge di vetro che gli tagliano la pelle e poi...
«Simone?» sussurra «Dov'è Simone?»
Riesce a vedere chiaramente il viso di sua madre adesso: osserva i suoi occhi arrossati e gonfi, i segni scuri al di sotto di essi, i capelli tirati in una coda bassa, ma spettinati e in disordine.
Poche volte è stata così devastata e lui non capisce perché.
Sta bene, no?
Forse un po' ammaccato, però non è nulla di grave.
E Simone?
«Mà, dove... dov'e Simone?» sospira ancora, un po' supplica pure.
Anita annuisce ed è sul punto di piangere - forse di nuovo. Allunga una mano, gli accarezza il viso.
A Manuel pare di impazzire dal momento che quella è una domanda semplice e la risposta non è ancora arrivata.
«Mà...»
«Sta bene, sta bene» si affretta a rassicurarlo Anita. Un sorriso appare sulle sue labbra e stona incredibilmente con la sua espressione affranta. È la stessa che Manuel non è in grado di decifrare, per quanto vorrebbe farlo.
Vorrebbe capire cosa la getta così tanto nello sconforto, visto che, considerando ciò è successo, dovrebbe essere grata e sollevata dal fatto che è vivo, che entrambi lo sono e okay, con molta probabilità la loro macchina sarà in condizioni irreparabili, ma anche meglio visto il catorcio che era.
Non capisce, va oltre la sua comprensione.
Allora anche lui, per attimo, mette via la preoccupazione per Simone - solo mezzo secondo, di più non riesce - per provare a mettere insieme i pezzi, a ricostruire ogni cosa. Da solo, tuttavia, non ci arriva.
Aggrotta le sopracciglia. La testa gli fa ancora male tanto da impedirgli di tenere bene gli occhi aperti.
«Che c'è?» gracchia.
«Cosa?» replica Anita, mentre si passa una mano sul volto nel vano tentativo di ricomporsi.
«Perché—perché piangi? Perché sei triste?»
Non sopraggiunge alcuna replica, alcuna spiegazione che sia esaustiva ed è ciò che più lo snerva.
Manuel scuote il capo, provocandosi da solo una fitta di dolore dietro al collo. È pieno di aghi nelle braccia, tubicini nel naso, elettrodi, bende e cerotti.
Non deve essere un bello spettacolo.
Rischia di strapparsi via ogni cosa. «Okay, devo—devo vedè Simone.»
Agisce nella maniera più spontanea e naturale che conosce per scendere da quel letto, abbandonare la stanza e indirizzarsi verso il compagno, con l'idea che soltanto quando sarà con lui potrà trovare un briciolo di serenità.
In quel momento, tuttavia, capisce che c'è qualcosa che non va ed è in grado di decifrare l'espressione tragica di Anita, le sue lacrime e la sua assente gioia al proprio risveglio.
Non si muovono.
I suoi muscoli, le cosce, le ginocchia, i polpacci, i piedi, tutta la parte inferiore del proprio corpo.
Immobile come lo diventa il suo sguardo, come il respiro che si blocca, intanto che percepisce il cuore che martella nel petto.
Una volta, a dodici anni, ricorda di aver sognato un evento simile: durante il sonno, non riusciva a mettersi in piedi, a muoversi in alcun modo e allora aveva iniziato a urlare, a chiamare aiuto, a dimenarsi fino a svegliarsi di soprassalto, scoprendo che nulla era davvero accaduto.
Adesso, però, non può semplicemente sollevare le palpebre e far finta niente, neppure lasciarsi tranquillizzare dalla madre che non trattiene più le lacrime e gli accarezza il viso con la punta delle dita.
Manuel si blocca e basta. Non piange, non si dispera, non esterna il panico che lo sta divorando dall'interno.
Spalanca soltanto gli occhi, mentre le mani gli tremano.
«Tesoro, non–si sistema tutto, te lo prometto, io... te lo prometto.»
Non la sente. Le parole della donna gli scivolano addosso come se nulla fosse.
Non le crede, non ne è in grado perché poi le promesse sono effimere.
Quella più di tutte le altre.
Immobile, svuotato, quasi non appartenesse al mondo reale, Manuel ci rimane per le successive due ore. Non parla, a stento respira.
Anita continua a sussurrargli rassicurazioni, ad essere positiva. Lui vorrebbe urlare, ma non ci riesce. Non è in grado di proferire parola, riesce solo a fissare il vuoto, a pensare alle proprie gambe che hanno smesso di funzionare.
Forse dovresti disperarti, gli suggerisce una voce nella sua testa.
Dovrebbe.
Ma la disperazione è un sentimento e lui è diventato apatico.
La sua assenza di ogni emozione, accompagnata dai suoni ovattati e la vista offuscata, si protrae finché non è Simone ad essere al suo fianco, accomodato su una sedia di metallo bianca e scomoda.
Manuel lo vede nel tardo pomeriggio, quando il sole è già tramontato e la sua luce non traspare dalle finestre. Si permette di analizzare il suo aspetto per un breve attimo: non ha un camice d'ospedale addosso, ma una tuta grigia che gli sta larga; un cerotto bianco spunta sulla sua tempia sinistra e due punti sono stati messi sotto al suo mento.
Crede siano le uniche lesioni che ha riportato nell'incidente.
A lui è andata decisamente peggio.
Una crepa si forma sulla propria anima nel momento esatto in cui incrocia gli occhi del compagno. Non si dicono nulla, nessuno dei due parla.
Si guardano soltanto, in silenzio.
Ed è allora che vivide sensazioni ritornano, di prepotenza, tutte insieme.
Manuel ne viene travolto, come da un fiume in piena. Il suo viso si riempie di calde lacrime che gli bagnano le guance. Simone non esita ad alzarsi, prendere posto seduto sul bordo del letto e accogliere l'altro ragazzo tra le proprie braccia. Gli permette di posare il capo sul petto e infila una mano tra i suoi capelli.
Non si fa vedere, cerca di non farlo notare, ma il pianto ha colpito anche lui.
Molte volte hanno riso insieme, guardandosi, osservandosi.
Non hanno mai pianto, non stretti e avvinghiati, con tutto distrutto e a pezzi intorno a loro.
Il silenzio li avvolge come una coperta che non riscalda.
Lo fa per i successivi trenta minuti durante i quali le lacrime si asciugano ed esauriscono.
«È colpa mia» Simone è il primo a rompere tale assenza di suono.
Manuel ha socchiuso le palpebre, ma non potrebbe vedere il suo viso in alcun caso: si è stretto a lui, appoggiando la testa sul suo petto. Ascolta soltanto la sua voce roca che prosegue: «Mi sono distratto e quando ho cercato... ho cercato di girare il volante, io...»
Non ha un nitido ricordo dell'incidente, non saprebbe stilare la giusta successione degli eventi, tuttavia non crede che il compagno possa addossarsi in qualche modo la colpa. Non gliela darebbe anche se la distrazione fosse reale.
Non vuole affrontare quel discorso, come se farlo rendesse la situazione più concreta. Ha bisogno di isolarsi da quanto è accaduto, almeno per un po'.
Ha necessità di respirare.
«Parlami di qualcosa di bello» soffia.
«Che?»
«Parlami di qualcosa che non sia... l'incidente, gli ospedali, i medici... qualcosa di bello.»
È una supplica, un bisogno.
All'inizio, Simone non coglie la sua richiesta, forse la trova assurda perchè vorrebbe agire in modo tempestivo, magari chiedere a Nicola di tutti i suoi agganci in giro per l'Europa - che sicuramente conoscerà dei dottori, professionisti in grado di poter aiutare il figlio e quindi devono muoversi, fare, risolvere il problema.
Eppure gli è sufficiente scostarsi di poco, qualche centimetro e in quel modo incrociare lo sguardo spento di Manuel che lo fissa e lo implora di costruire una bolla solo per loro, solo per un po', dentro alla quale va ancora tutto bene.
Così decide di adeguarsi, di concedergli quel piccolo momento d'ossigeno.
Le sue labbra si curvano in un mezzo sorriso che solleva solo un angolo della bocca. Con due dita, scosta un riccio ribelle che è ricaduto sulla fronte dell'altro ragazzo.
Anche solo pensare a qualcosa di bello in quel momento è arduo, se non impossibile, e sebbene abbia iniziato pure lui a trovare sempre le parole per riempire gli attimi di eccessiva quiete, non riesce a mettere insieme le giuste sillabe.
Attende qualche secondo e in tale frazione di tempo fissa il compagno con gli occhi che si fanno più lucidi e fanno notare di più il fatto di essere gonfi e arrossati.
«Una volta ti ho detto che sei Londra» soffia e la sua voce gracchia «la faccio ancora la cosa di associare le persone ad un luogo e... forse è ridicolo e dovrei smetterla, lo so, ma intanto continuo e ogni tanto penso che a te non posso collegare una sola città. Mi sembra riduttivo. Io vedo te in ogni cosa: nelle foglie verdi degli alberi, nel vento che ci passa attraverso, nell'acqua del fiume che scorre, nelle gocce di pioggia di un temporale estivo. Ti vedo in ogni frammento del mondo che mi ricorda che sono vivo.»
Manuel lo ascolta con attenzione. Si aspettava un aneddoto privo di senso su qualche episodio divertente avvenuto durante la sua vita, qualcosa per la quale avrebbe potuto prenderlo in giro per gli anni avvenire. Di certo non un aspetto per crollare, sebbene per motivi differenti.
Un sorriso si delinea nella sua espressione già rotta e smorza una risata. «Dovevi—tirarmi su, non farme piangere di nuovo, cretino» bofonchia.
Delle lacrime sono tornate e coprire anche il volto di Simone che curva le labbra in una piega positiva a sua volta. «Però ti ho fatto sorridere» commenta «almeno un po'.»
Lo ha fatto, Manuel ammette, nonostante si tratti soltanto di una maschera destinata a cadere, il che succede in maniera lenta, a poco a poco, mentre i loro sguardi sono concatenati, uno dentro l'altro.
Divengono mute le loro lievi risate, affievoliscono i sorrisi e tramutano in grigio.
«Non sei solo» mormora Simone ed è più serio che mai.
Non crede neppure serva dirlo, è una cosa ovvia, che stanno insieme da tanto, certo che non lo abbandonerà proprio in quel momento. Ciò nonostante, sente la necessità di esternarlo e, soprattutto, è convinto che il compagno abbia bisogno di udire quelle frasi, quelle rassicurazioni.
«Non sei solo» ripete «io sono con te, mh?»
Manuel fa appena cenno di sì con il capo.
Sì, doveva sentirselo dire per andare completamente allo sbaraglio. «Pour toujours» soffia.
«Pour toujours.»
***
19 ottobre 2033
Manuel non aveva mai visto i cortili di un ospedale, forse perché non ci è mai rimasto abbastanza a lungo per farlo. Col senno di poi, avrebbe continuato a vivere nell'ignoranza.
Invece è lì, con un vento troppo caldo per essere ottobre che gli soffia tenue in faccia e gli agita un briciolo i capelli. Il camice dell'ospedale è ruvido sulla pelle ed è coperto da una vestaglia in cotone azzurra che Anita gli ha comprato appositamente - e fa ridere, visto che le vestaglie lui le odia, sanno di vecchio, però deve indossarla per forza se si sposta dalla sua stanza.
Spostarsi.
Oltre a quell'indumento del demonio, odia il fatto che per spostarsi, muoversi o anche solo andare in bagno abbia bisogno di aiuto.
In quei dieci giorni, i medici - sempre diversi, con differenti specializzazioni - lo hanno riempito di mille informazioni su fisioterapia, esercizi, ripresa, eventuali interventi, persino un rendiconto sui cateteri che avrebbe evitato.
Il suo cervello non ha assimilato pressoché nulla, come se una parte di lui rifiutasse di venire a conoscenza di certe nozioni.
Come se ignorare il problema fosse la soluzione.
Il punto è che ci riesce quando resta sdraiato a letto e gioca con il cellulare o vede un film, una serie tv. Dopo, però, la realtà lo colpisce in faccia a suon di pugni e schiaffi.
Lo fa pure in quel momento, mentre è nel cortile odioso dell'ospedale, su una sedia a rotelle scomoda accanto ad un tavolino di metallo rotondo, insieme a sua madre che lo guarda e scoppia a piangere nel mezzo di un discorso frivolo che nulla ha a che fare con la sua condizione.
Stiamo parlando di tende, mamma, perché piangi?
È che Anita piange sempre soltanto vedendolo e questo lo fa impazzire.
«Ma'...» sospira, esausto per una serie infinita di motivi.
La donna è sistemata accanto a lui, dalla parte opposta del tavolino. «Scusa, scusa» singhiozza e tira su col naso. Estrae un fazzoletto di carta dalla sua borsa a tracolla e si asciuga alla veloce le lacrime che le bagnano le guance. «È l'allergia, sai.»
«A ottobre?»
«Eh, beh–che non se può 'esse allergici a ottobre?»
In realtà no.
Manuel rotea gli occhi: è sia dispiaciuto che scocciato, se mai possibile. «Non devi fa' così» sussurra. Non la guarda in faccia.
Punta lo sguardo altrove, su una coppia di anziani che sta facendo una passeggiata in quel cortile spoglio: la donna ha i capelli bianchi, raccolti in un elegante chignon, mentre l'uomo cammina gobbo con una vestaglia bordeaux lasciata aperta; si tengono a braccetto, l'uno il bastone dell'altro.
A volte, ha immaginato lui e Simone da anziani a fare lo stesso, a passeggiare; il compagno lo avrebbe preso in giro per la calvizia, lui per gli occhiali spessi e insieme avrebbero riso.
Adesso quel ricordo gli pare fumo che non riesce ad acchiappare e gli sfugge dalle dita.
«Fare cosa?» borbotta Anita.
«Me guardi e piagni. È 'n po' frustrante.»
«T'ho detto che è allergia.»
«E io c'ho quasi trent'anni e non so' stupido.»
«Manuel...»
«Senti, quello che m'è successo è già 'na merda così, se... se c'ho te che me guardi come se fossi morto, incapace de fa' qualsiasi cosa, io in quel modo me ce sento e impazzisco.»
Fa una breve pausa. I suoi occhi ricadono di nuovo sulla coppia di anziani che vede sorridersi a vicenda, dopo essersi guadagnati ogni ruga segno di felicità.
«Se me guardi e cadi a pezzi pe' quello che vedi, a me viene da pensa' che la vita mia è finita quando–quando è appena cominciata, ma'» un singhiozzo gli spezza la voce, intanto che una lacrima solitaria gli percorre una guancia.
Si volta, riportando la propria attenzione su Anita, alla quale trema il labbro inferiore. Lei annuisce, si passa una mano sul viso.
«Certo, certo che è appena cominciata» biascica «scusami, io... parlavamo delle tende, giusto?»
Manuel la scruta per mezzo secondo prima di annuire. Vorrebbe dirle che gli dispiace, che forse un dolore così grande non se lo meritava, che quasi se ne assume le colpe. Però non proferisce tali parole, piuttosto riprende a parlare delle famose tende, del colore delle pareti di una casa che ancora non esiste, almeno non in quell'universo.
***
25 ottobre 2033
Gli hanno detto che può tornare a casa.
Una parte di lui ha gioito, soltanto per qualche secondo.
Dopo è subentrata la consapevolezza che torna in un luogo, però ogni cosa sarà diversa.
Lascerà quell'edificio dalle pareti bianche e tutti uguali sopra ad una sedia a rotelle nera, con lo schienale troppo rigido che già gli dà fastidio.
Ha provato a spostarsi dal letto a essa tre volte, due delle quali è caduto rovinosamente a terra. In seguito, ha supplicato le infermiere di non raccontare nulla ai suoi genitori, a Viola, a Simone, a nessuno, di sostenere la bugia secondo la quale è un campione, fortissimo, che sta andando alla grande.
Non ha problemi - non più - a mostrarsi vulnerabile, soprattutto con le persone che ama, ma in quel caso nemmeno di tratta di quello.
Non vuole apparire fragile.
Le persone fragili si spezzano con facilità e si ha il terrore di romperle.
Manuel non vuole che chi gli sta intorno abbia paura di ridurlo in pezzi, allora una voce dentro alla sua testa gli ha instillato la fissa di essere forte e basta, mostrarsi invincibile, non toccato dalla sua nuova condizione.
A volte funziona.
Altre un po' meno.
Resta seduto sul letto, la sedia a meno di un metro di distanza; ha rimosso un bracciolo, ora dovrebbe sollevarsi di peso e trascinarsi su di essa, come è successo la terza volta, quando non è caduto.
Sta esitando da venti minuti.
Non ha mosso un millimetro del proprio corpo, la parte che ancora risponde ai diretti comandi.
Il suo sguardo è fisso su quella dannata sedia, sulle ruote con raggi d'acciaio, sul tessuto ruvido dello schienale.
È un modello più nuovo rispetto a quello sgangherato che gli ha fornito l'ospedale; l'ha comprata Nicola, in un negozio specializzato, ignorando qualunque forma di convenzione offerta dalla sanità pubblica.
A Manuel fa un po' ridere - e piangere - la situazione perché avrebbe di gran lunga preferito un diverso tipo di regalo da parte del genitore, non certo quello.
«Sei pronto?»
Simone entra nella stanza in punta di piedi, cercando di fare il meno rumore possibile, cosa resa pressoché impossibile dalla porta che cigola e necessità di olio.
Manuel gli rivolge un'occhiata distratta, poi annuisce. Dopo, inevitabilmente la sua attenzione torna sulla sedia maledetta, quella che diventerà un prolungamento del suo corpo, volente o nolente.
«Ti aiuto?»
Nemmeno si accorge del compagno che si sposta, gli si avvicina e si piega sulle ginocchia davanti a lui.
Sbatte le palpebre per riprendere un minimo di contatto con la realtà. «Uhm—no, no, io... faccio da solo» borbotta.
Non ce la fa, lo ha già messo in conto, ma in qualche modo ammetterlo lo intimorisce.
«Sicuro?»
«Sicuro. Però devi uscì.»
«Manuel...»
«Niente Manuel. Ce la faccio da solo, ma non ce deve esse' nessuno.»
Un briciolo alza il tono della voce, perlomeno ci prova. In realtà, le sue parole si spezzano verso la fine della frase.
Simone lo fissa per mezzo secondo, lo supplica con gli occhi di poter restare. Tuttavia, capisce presto che ciò non accadrà e allora «Okay,» sussurra «ti aspetto fuori.»
Abbandona la stanza nel silenzio e stavolta la porta cigola quando viene chiusa.
A Manuel tremano le mani: lo fanno per la sua sola intenzione, per il pensiero del gesto che è in procinto di compiere, qualcosa che dovrebbe essere scontato, banale, normale; si deve solo alzare al letto.
Segue le direzioni che gli hanno dato, ogni singolo piccolo movimento. Pensa pure che dovrà allenarsi tanto con le braccia, sulla loro forza perché è tutto ciò che gli è rimasto.
Le indicazioni sono semplici, qualcosa di più facile a farsi che a dirsi, eppure Manuel ci prova, una volta, due, tre, e il suo corpo non pare voler agire come la testa comanda.
Fatica, comincia a sudare, finché le ruote della sedia non scivolano sul pavimento, lui perde l'equilibrio e cade rovinosamente a terra, sbattendo con un fianco e un braccio sulle mattonelle.
L'urto gli provoca dolore e dalla sua bocca fuoriesce un lamento forte, quasi un grido che vorrebbe trattenere, ma non riesce. Stringe i denti, sibila «Cazzo», mentre prova a tirarsi su, solo che da una simile posizione è ancora più difficile, se non impossibile.
In maniera inevitabile, il rumore che ne deriva richiama l'attenzione di Simone, che dai pressi della stanza non si è allontanato e ci rientra, accorre il compagno, chinandosi accanto a lui. «Dai, ti aiuto» prova a dire, con tono fermo.
«Ce la faccio da solo» Manuel biascica. Non è nemmeno in grado di guardarlo in faccia tanto è concentrato a cercare un modo per riuscire.
Pensa che potrebbe aggrapparsi alla sbarra del letto, fare leva con una mano lì e tenere la sedia con l'altra; risulterebbe complicato, certo, ma tutto sommato fattibile. Oppure, potrebbe provare a tornare direttamente sul letto e ritentare i gesti suggeriti da infermieri e fisioterapisti, potrebbe...
Potrebbe, anche se gli fanno male i palmi delle mani, gli avambracci, il fianco per il colpo preso e persino la testa per dover pensare troppo.
«Non mi costa niente» insiste Simone.
«Nemmeno a me, ce riesco.»
«Manuel...»
«Simò.»
È in quel momento che Manuel solleva il capo e i loro sguardi riescono a incrociarsi.
È in quel momento che capisce che continuare ad essere forte, a lungo andare, lo porterà a consumarsi.
Dalla parte opposta, Simone comprende il suo stato d'animo, lo fa benissimo. Lo conosce così bene, sono le due facce di una stessa medaglia ormai.
Lo sono adesso che sono una coppia da anni.
Lo erano anche prima quando si consideravano sconosciuti sebbene tali non siano mai stati.
Così porta una mano vicino al suo volto, gli accarezza la guancia con un pollice. Indossa il suo miglior sorriso, quello più rassicurante, premuroso e gentile che possiede.
«Ti ho detto che ci sono io e ci sono sempre, mh?»
Probabilmente non c'è neanche bisogno di dirlo o sottolinearlo, ma lo fa comunque.
Manuel tira su col naso. Le lacrime gli pizzicano gli occhi e strizza le palpebre per non farle uscire. Si limita ad annuire, che lo sa che Simone c'è sempre, che non lo lascerebbe mai andare.
Di molte cose ha dubitato durante la sua vita, però che Simone se ne andasse...
Mai.
E se dovesse mai succedere, è sicuro tornerebbe.
Tornano sempre l'uno dall'altro, cascasse il mondo, implodesse l'universo.
Simone e Manuel continuerebbero ad esistere in qualche modo, insieme.
«Ti appoggi a me?»
È un flebile sussurro che proviene dalla bocca di Simone, quasi avesse il timore di pronunciare quella frase.
Manuel si limita ad annuire, arrendevole. Fingere con lui non ha senso, non ora.
Si lascia aiutare, sollevare addirittura. Si mantiene e appoggia a lui in ogni senso. L'altro ragazzo, invece, cerca di essere il più delicato e prudente possibile, accompagnando ogni gesto con «Così? Sei comodo? Riesci?»
Sono piccole attenzioni che mette in atto per non fargli pesare nulla.
E questo Manuel lo apprezza per quanto eviti di far incrociare i loro sguardi per tutto il tempo.
Ciò accade soltanto dopo quando lui prende posto sulla sedia a rotelle e Simone gli sorride, rimettendosi in piedi. «Andiamo?»
Anche in tale occasione, l'unica risposta che sopraggiunge da Manuel è un cenno con la testa. Dunque Simone muove un singolo passo per poter andare ad aprire la porta e lasciare al compagno lo spazio necessario per uscire dalla camera.
Però viene fermato proprio da quest'ultimo che lo afferra dal polso e lo frena, lo trattiene.
«Vieni qui?» gracchia Manuel e con la mano libera indica le proprie cosce.
Simone capisce che intende: vuole che gli sieda sulle gambe, come spesso fanno. Ricorda di aver trascorso intere serate in braccio a lui, a volte perché non c'erano abbastanza sedie, altre solo per il piacere di farlo. «Ti faccio male» esita in tale occasione.
Manuel spezza una risata amara e sconsolata. «Non sento niente» biascica «t'assicuro che non me fai male.»
Batte piano con le dita sulle gambe per invitarlo ancora a prender posto.
Simone esita, si pizzica il labbro inferiore con gli incisivi. Lo accorda soltanto alla fine, sospirando sommessamente. Ha il terrore di ferirlo, provocargli dolore, per cui si muove con cautela, cerca di evitare gli urti - sì, anche se l'altro non può sentire niente.
Avvolge le sue spalle con un braccio, mentre Manuel gli cinge il busto e affonda il viso nell'incavo del suo collo; aspira a fondo, si inebria del suo profumo. Attende qualche secondo con le palpebre abbassate e si gode le lievi carezze che l'altro ragazzo gli riserva sulla nuca e sul collo.
«Scusa» sussurra in seguito.
«Per cosa?»
«Se so' scontroso.»
«Non lo sei.»
Abbozza una risata un briciolo nervosa e scosta il capo, così da potersi guardare negli occhi. «Sei un bugiardo» commenta.
Simone contorce le labbra in una smorfia di disappunto. «Forse solo un po', ogni tanto, ma non importa» sussurra.
«Non vorrei esserlo, non—mi dispiace.»
«Non è colpa tua» si affretta a rassicurarlo e lo bacia piano su una tempia, premendo forte a lungo la bocca sulla sua pelle.
Manuel si bea anche di quel contatto, che sa di una normalità che gli sembra stia perdendo. «Non sarà diverso, vero?» pigola. Non specifica cosa e subito incontra lo sguardo questionario del compagno.
Dunque deve spiegare: «Io e te, la nostra vita. Perché a me pare tutto diverso, me pare diverso pure come le persone me guardano. Mi' madre piagne sempre, mio padre me fissa come 'n condannato a morte, tu... ti prego, non me guardà mai in quel modo.»
Simone lo percepisce tremare e sfrega la punta del naso sulla sua guancia. «Ti guardo come faccio sempre» sussurra ad un suo orecchio.
«Come Londra?»
«Come Londra, Tokyo, Bruxelles...»
Manuel si lascia sfuggire una risata. Si lascia rincuorare da quelle parole, per quanto poco ci creda — perché sarà diverso, in un modo o nell'altro, è inevitabile.
Però immagina che, se c'è Simone con lui, anche il diverso sarà bello.
«Andiamo a casa?» mormora quest'ultimo. Si alza dalle gambe del compagno con lentezza, cercando di fare il più piano possibile.
«Ho appena realizzato che abitiamo al terzo piano e non ce sta l'ascensore...»
«Non ti preoccupare per quello.»
«E come salgo?»
«Fidati di me e basta.»
Gli tende una mano.
Manuel vorrebbe puntualizzare che non può afferrarla perché le sue gli servono entrambe per spingere la carrozzina. Però sorvola: si aggrappa a lui e ne usa una sola per smuovere le ruote.
Ma poi Simone si scosta con rapidità, va dietro di lui e comincia a spingere la sedia. L'altro ragazzo, per quanto voglia lamentarsene, lo lascia fare.
Sospira mentre varca la soglia della stanza, percorre il corridoio verso l'uscita e verso quella che, volente o nolente, sarà una nuova vita.
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