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CASSETTA 5

22 gennaio 2024

Quando Manuel giunge davanti al liceo Da Vinci quella mattina, la prima cosa che nota è che c'è una Vespa bianca parcheggiata e legata con una catena ad un palo di metallo ricurvo.

Il mezzo è facilmente riconducibile ad una persona sola e vorrebbe provare un briciolo di rabbia nei suoi confronti, considerato che ha una chat di WhatsApp piena di messaggi che hanno risposte dopo ore ed ore, tutte striminzite, monosillabi che non sopporta - va in tilt quando capita, il che è un briciolo contraddittorio considerato che lui è il primo a dimenticarsi di rispondere in molteplici occasioni, ma tant'è.

Vorrebbe lasciarsi andare all'ira, però non ci riesce poiché l'apprensione prende sopravvento con eccessiva facilità.

Quindi, non sorprende il fatto che, prima di fare ingresso nell'edificio, si dirige al chiosco in legno che si trova davanti al portone; ordina e compra un cornetto alla crema.

Soltanto in seguito varca la soglia della scuola e sale di fretta le due rampe di scale che conducono al corridoio della 5^B. L'obiettivo è giungere in classe con anticipo rispetto al suono della campanella che segna l'inizio delle lezioni.

Entra in aula e vede subito Simone seduto al solito banco.

Sospira di sollievo e intanto pensa finalmente.

I loro compagni non hanno ancora fatto ingresso nella classe, sono soli.

Che fortuna.

Con lo zaino mezzo vuoto in spalla e il sacchetto di carta bianco in mano, Manuel si appropinqua all'altro ragazzo. Si ferma davanti a lui, lo fissa inclinando il capo su di un lato.

«Ti ho portato un cornetto alla crema,» esclama «non abbiamo litigato, credo» incespica sull'ultima parola, dal momento che non è sicuro, non sa cosa effettivamente sia successo tra di loro, se è successo qualcosa «però 'na volta qualcuno m'ha detto che il cibo è 'na scusa buona pe' parlare.»

Simone osserva il sacchetto contenente la brioche che è stato appoggiato sulla superficie piana. Sospira, sommesso, e sposta lo sguardo sul compagno. Contorce le labbra in una smorfia. «Non dovevi» sussurra.

«Portarte la colazione o chiedere di parlare?»

«Tutte e due.»

«Simò...» Manuel si piega sulle ginocchia, reggendosi al banco per mantenere l'equilibrio. In tal modo, è inevitabile far incrociare i loro occhi.

Quei giorni senza avere una reale conversazione sono pesati su di lui al pari di un macigno ed è un aspetto che lo logora alquanto. «Mi dici che c'hai?» domanda ancora, imperterrito.

«Niente.»

«Eh, è 'na cazzata.»

«No, è vero. Ho avuto la febbre, anzi, scusa se non ho risposto ai messaggi, ero...»

«Non m'importa dei messaggi, ma ce sta qualcosa che non va sì e so che ce sta, te lo leggo in faccia.»

«Non c'è niente» ribadisce Simone. La sua voce è un soffio. Inclina di qualche centimetro il busto in avanti e solo a tal punto allunga una mano per andare a sfiorare il viso dell'altro ragazzo con la punta delle dita.

«Te lo giuro, non c'è niente» pigola «ti puoi fidare di me, per favore?»

La fiducia è come una scommessa.

Manuel è da sempre convinto di questo, che essa coincide con una puntata ad una roulette che non si sa quando potrebbe smettere di girare – perché le persone sono strane, si pensa di conoscerle fino in fondo e all'improvviso si rivelano per l'esatto contrario.

Allora capita spesso che si doni la fiducia a qualcuno che si reputa degno e, alla fine, essa viene tradita e viceversa.

Su Simone non ha mai sentito l'esigenza di fare una scommessa poiché è stato certo sin dall'inizio che potesse riporre in lui tale sentimento – anche quando professava di odiarlo.

Non lo ha mai odiato, in realtà, semplicemente negava l'evidenza.

Tuttavia, in quel preciso istante, mentre ancora scorge nel suo sguardo quella stessa ombra dell'ultimo dell'anno, è indeciso se fare quella scommessa per la prima volta.

Rimane incerto per dei secondi che paiono eterni.

In seguito, si limita ad annuire senza proferire parola. A causa di tale gesto, scorge il compagno che accenna un sorriso, il medesimo che, però, non appare sul suo volto.

Si rimette in piedi con lentezza, udendo il chiacchiericcio dell'intera 5^B provenire dal corridoio, segno che l'inizio delle lezioni è imminente.

«Vengo da te 'sto fine settimana, mh?» propone «Ce ne stiamo tranquilli, ce vediamo qualche film.»

Simone si affretta a scuotere il capo. «Ho gli allenamenti sabato» ribatte «e la partita domenica.»

«Allora vengo a vederti.»

«L'altra volta ti sei annoiato.»

«Perchè non conoscevo le regole, ora me so' informato.»

«Manuel...»

«Amore, non t'ho chiesto il permesso.»

Lo chiama di proposito in quel modo, come a fargli capire che è ciò che è più corretto - o qualcosa del genere.

Manuel allunga una mano, la pone sotto il mento del compagno per bloccargli gentilmente il viso.

Si sporge nella sua direzione e schiocca un bacio sulle sue labbra.

È un gesto che sa d'abitudine, nonostante le ombre.

***

27 gennaio 2024

Simone gli ha detto che gli allenamenti cominciano alle cinque in punto, ma, quando giunge al campo di rugby un quarto d'ora prima dell'orario indicato - che per il suo cronico ritardo è già un miracolo - gli sembra che sia tutto sul punto di finire.

Si accomoda sugli spalti, pressoché vuoti, fatta eccezione di qualche genitore che incita il figlio a fare meglio, dare di più e okay, gli pare giusto un tantino eccessivo come incoraggiamento; presuppone che la passione sportiva vada oltre la sua comprensione.

Un po' è irritato perché pensa di aver capito male l'ora alla quale recarsi in tal luogo e si maledice per ciò - eppure ricorda benissimo di aver chiesto più volte a Simone durante la loro conversazione, proprio per non sbagliare.

Vabbè.

Aguzza la vista per cercare l'altro tra le casacche bordeaux e gialle. Risulta difficile poiché i ragazzi sul campo sono tutti altissimi, coi ricci e le spalle larghe e...

Ah, eccolo lì.

Lo vede nell'esatto momento in cui uno dei compagni, avversario nella partita di prova, lo atterra con un colpo inferto alla spalla destra e Simone capitombola a terra, nel fango.

Il volto di Manuel si contorce in una smorfia, di riflesso, e cerca di evitare di inveire contro l'artefice di quel gesto e scendere in campo - come ha fatto durante l'unica partita a cui ha assistito mesi fa; ha capito che è uno sport molto fisico, che quelli sono placcaggi e sono leciti.

Sarà che non ci capisce niente, però non lo riteneva necessario, non così aggressivo.

Ma ricorda che appunto perché non ci capisci niente non hai diritto a commentare o criticare.

Allora resta fermo e calmo, ad assistere agli ultimi dieci minuti scarsi di allenamento.

La prossima volta deve segnarsi meglio l'orario. Se lo appunta mentalmente.

A fine della partitella, quando vede i giocatori indirizzarsi verso un edificio bianco dalle mura traslucide, deducendo corrisponda al loco degli spogliatoi, scende di fretta dagli spalti con l'unica intenzione di fermare Simone, per dirgli vedi, sono qui.

Lo attende vicino alla porta di metallo che delimita l'ingresso del posto dove l'intera squadra si sta dirigendo, sudati e sporchi di terra. Intravede chi sta aspettando, un sorriso si delinea subito sulle sue labbra – è davvero contento di esser lì, sul serio.

«Oh, Simò!» esclama non appena ha l'occasione di essergli di fronte.

Simone si guarda intorno, risulta un briciolo furtivo e stringe i pugni lungo i fianchi. «Sei venuto» sibila.

Forse qualcun altro non è così contento.

«Eh, sì, cioè—ma non era alle cinque?»

«No, un po' prima.»

«Mi hai detto alle cinque.»

«Magari hai capito male.»

Magari.

Manuel ci prova a ripercorrere cosa è venuto fuori dal loro dialogo, ripete le frasi che hanno usato in testa e sì che a volte capita si scordi informazioni utili, arrivi in ritardo e via discorrendo; tuttavia, è pressoché certo che quel preciso orario lo ha capito bene, che quando si tratta di Simone è sempre attento e difficilmente si dimentica qualcosa – tipo, quando gli capita di sparire dal mondo, di non rispondere a nessun messaggio, lo fa con tutti eccetto lui.

A Simone risponde sempre e pure subito.

Si mette in discussione comunque poiché non vuole credere che l'altro lo stia raggirando o prendendo in giro – impossibile, non lo farebbe mai.

Non lo farebbe mai, vero?

«Vabbè,» taglia corto «la prossima volta vengo un po' prima, allora».

Decide di non intraprendere una discussione e, in qualche modo, di nuovo si mette in discussione sul fatto di aver frainteso, seppur consapevole non sia così.

Apre la bocca per aggiungere qualcosa, ma stavolta Simone lo precede: lo afferra per un polso e lo trascina via, lontano dagli spogliatoi.

Tornano nei pressi del campo dove le luci sono basse e il sole sta tramontando.

Manuel è perplesso e confuso quando si accorge che sono finiti sotto gli spalti, nascosti da qualunque sguardo, celati dall'ammucchio di ferro e legno.

Lo diventa ancor di più nel momento in cui soffoca «Ma che...» e la frase viene troncata da Simone che gli prende il viso tra le mani e preme con veemenza le labbra sulle sue.

È un bacio diverso da quelli che si scambiano di solito: c'è più foga, bramosia, quasi violenza e un tocco di disperazione.

Non comprende, tanto che tiene le mani a mezz'aria, dato che non sa dove metterle e in che modo farlo.

Dovrebbe infilarle tra i suoi capelli sudati? Tirargli la casacca bordeaux? Cingergli i fianchi?

Alla fine, sceglie l'ultima opzione.

Lo fa con delicatezza e gentilezza, utilizzata pure quando si scosta col capo e interrompe il contatto delle loro bocche. Ha il fiatone e nota la medesima mancanza di respiro nel compagno.

«Allora sei contento che sto qui» pigola e teme la risposta poiché ha una strana sensazione addosso, quasi non fosse desiderato, ma di troppo, ingombrante.

Simone pone le mani sulle sue spalle. Annuisce. «Sì che so' contento,» replica «perché dici no?»

«Beh, l'altro giorno m'hai chiuso la porta in faccia, m'hai detto un orario diverso pe' oggi e pare che l'hai fatto di proposito» Manuel si morde la lingua sull'ultima parte della frase; non vuole credere sia così, che Simone non farebbe mai una cosa del genere, si ripete in testa, una cantilena martellante per autoconvincimento.

«No, ripeto che hai capito male.»

«Non ho capito male.»

«Invece sì. Che motivo avrei avuto di mentirti sull'orario?»

Nessuno.

«Non lo so, dimmelo tu.»

Simone sospira e si tira leggermente indietro il busto. Forse vorrebbe interrompere ogni contatto, ma l'altro ragazzo lo tiene ancora stretto e risulta pressoché impossibile. «Non esiste nessun motivo» sussurra «davvero, non... mi piace che sei qui.»

Manuel non ci crede. Di solito, nella sua voce riesce a decifrare sincerità e calma, adesso ci scorge menzogna e agitazione - l'esatto contrario. La parte peggiore è che non comprende il perché.

Che sta succedendo, amore?

«Okay» taglia corto. Non espone i propri dubbi, le proprie incertezze. Rimane quieto, non intavola una discussione che potrebbe distruggere entrambi e che, probabilmente, non sarebbe in grado di affrontare.

Un rapporto si basa sulla fiducia, del resto, che è una scommessa nella quale ha già puntato.

«Okay» ripete Simone, che crede di esser riuscito a convincerlo, tanto che sorride di nuovo e gli deposita un bacio fugace sulle labbra.

In differenti occasioni, Manuel ha immaginato di imboscarsi da qualche parte con il proprio ragazzo che indossa la divisa da rugby, a baciarsi sotto gli spalti o in mezzo al campo, magari pure finire nel fango; ha pensato sarebbe stato magico, a tratti romantico, il brivido dell'essere scoperti, la leggerezza dei loro tocchi, le carezze, ulteriori baci.

Eppure, ora che sta accadendo, nessuna di queste sensazioni lo pervade, anzi, persistono angoscia, delusione e ansia.

Preoccupazione.

Lo fanno anche quindici minuti dopo quando tornano al punto di partenza, davanti gli spogliatoi - e Manuel prova il desiderio di percorrere quel breve tragitto con le dita intrecciate alle sue, solo che Simone serra i pugni lungo i fianchi e glielo impedisce.

Presuppone sia un gesto involontario, che sia capitato per sbaglio, per sequenza degli eventi e allora prova a non rimuginarci sopra.

Si fermano uno di fronte all'altro.

Prova ad abbozzare un sorriso che spera alleggerisca un briciolo la tensione che lo attanaglia.

Non ci riesce, quello.

Non ci riesce, lui.

«Vado a cambiarmi» annuncia Simone.

Manuel infila le mani nella tasca della giacca. In realtà, agirebbe in maniera diversa, però desiste; si limita a fare cenno di sì col capo e a brontolare: «T'aspetto qui.»

In quel frangente, in quel frammento di scena della loro vita quotidiana sopraggiungono delle comparse: a qualche metro di distanza, non troppo a fuoco, scorge le figure di quattro ragazzi che escono dallo spogliatoio con in spalla i loro borsoni neri.

Li vede poco, ma le loro risate le sente e non è quel tipo di ilarità tra amici, per una loro conversazione frivola; no, è ben diverso poiché lo sguardo di ciascuno di loro guizza verso di lui, soprattutto verso Simone.

C'è scherno, c'è cattiveria, c'è quel filo di crudeltà e villania che fa contorcere le budella.

A volte è difficile comprendere perché l'essere umano sia così poco umano.

Manuel assottiglia gli occhi. Si focalizza dapprima sugli sconosciuti che restano fermi a pochi metri di distanza, ancora a sghignazzare e poi è facile notare l'espressione di Simone che si rabbuia subito dopo averli sentiti e notati, il suo chiudersi nelle spalle, eclissarsi - si fa piccolo, minuscolo, il che è paradossale poiché è difficile che fisicamente lo sia.

«Che è, quelli te danno fastidio, Simó?» gli viene spontaneo esordire.

«No» borbotta l'altro, però di nuovo si gira furtivo a controllare che i compagni di squadra si siano allontanati - sono lì, immobili, a ridere di lui, di loro, di tutto.

«No? E non me sembra.»

«Ti ho detto di no, stanno per fatti loro.»

«Non me pare, dato che continuano a guardarce. Je devo dì qualcosa?»

Per Manuel è naturale percepire che c'è qualcosa che non va, come è successo negli ultimi giorni. Se mette insieme i vari pezzi, può essere abbastanza certo che quei quattro abbiano un ruolo di rilevanza nel malessere di Simone; non sa in che modo, sebbene potrebbe essere facile intuirlo, però lo sente e allora scatta il suo istinto primordiale, il suo lato più protettivo che presume sia sempre stato presente, da ancor prima di capire di amarlo.

Quindi, si precipiterebbe subito al loro cospetto, per affrontarli, pur essendo solo contro quattro e...

«Non devi dire e fare niente, piantala!» tuona Simone. Lo fa in modo brusco, con un tono graffiato, arrabbiato, uno che, di norma, non gli appartiene. «Perché ti devi mettere in mezzo, Dio!»

Manuel è spiazzato. Lo è anche dal suo sguardo glaciale - e docile al contempo, se mai possibile, impaurito e scontroso, due antipodi quasi.

Con lui non ci ha mai litigato, non dopo essersi messi insieme, s'intende, ed è brutto e terrificante trovarsi sull'orlo di una lotta, specialmente se non si è consci del motivo per cui si combatte.

Schiude le labbra per poter proferire parola, ma Simone lo precede ancora: «Vado a cambiarmi,» ribadisce «torno a casa da solo, non mi aspettare.»

Ammutolito e inerme, Manuel rimane fuori dagli spogliatoi, mentre Simone ne varca la soglia d'ingresso e si chiude con violenza la porta alle spalle.

I quattro ragazzi non ci sono più, eppure nell'aria rimbombano ancora le loro risate.

***

2 febbraio 2024

ma.
forse sto sbagliando qualcosa
si è stufato di me e vuole lasciarmi, solo che non sa come dirmelo

e.
Di sicuro qualcosa stai sbagliando
Tipo a dire queste cazzate

Emma è in grado di rimproverarlo con gentilezza.

Si è segnato di chiederle come fa, visto che lui scatta con un nonnulla e deve litigare con le proprie espressioni facciali che parlano anche se resta muto.

Manuel sospira, mentre digita la risposta:

ma.
grazie eh!!!
no ma sono serio... non capisco che gli prende

e.
Sarà turbato per qualcosa, prova a dargli tempo.
Da tutto ciò che so, Simone ti ama e non ti lascerebbe di punto in bianco e senza un motivo.

Magari ce l'ha un motivo, pensa.

Non lo scrive perché non vuole un'altra ramanzina.

Che poi si è scervellato anche per trovarlo quel motivo, lo ha cercato in ogni angolo più remoto del proprio cervello.

Col senno di poi, ha fatto malissimo poiché è quel tipo di persona capace di scovare colpe pur non avendole e allora se ne è fatto carico per un ritardo ad un appuntamento, per non aver messo lo zucchero nel caffè, per essersi addormentato mentre si scambiavano messaggi.

Ragioni futili per le quali un amore non cessa di esistere.

Di norma, almeno.

Ciò nonostante, si sente oppresso, sicuro di aver sbagliato e di non essersene accorto.

È sdraiato sul divano che è pure il suo letto, a pancia in su, il telefono tra le dita in procinto di continuare quella conversazione.

Un briciolo gli manca non avere più una sua stanza dove rintanarsi, però non avrebbe mai permesso che sua madre dormisse su quei cuscini molli che spezzano la schiena - preferisce spezzarsela lui.

Sta per battere coi pollici sullo schermo quando un lieve bussare lo precede.

Non ha molta voglia di alzarsi, anche perché non aspetta nessuno e non c'è più la vicina che porta loro i biscotti - un po' gli manca, erano buoni quei biscotti.

In principio, allora, lascia perdere; in seguito, tuttavia, quel gesto si fa più insistente.

Sbuffa e si mette in piedi, scalzo. Copre con due falcate la distanza che lo separa dalla porta e la apre, scocciato.

«Che ce fai qua?»

Cerca di mantenere un tono alterato al cospetto di chi c'è sulla soglia poiché è arrabbiato per come è stato trattato e quanto sarebbe da sottone dimenticare tutto e dirgli che mi è mancato da morire?

Troppo, smettila.

Simone è immobile. Indossa la sua giacca di jeans felpata e tiene la mano destra sul fianco sinistro. «Posso entrare?» pigola.

«Non so. Vuoi entrare?»

Annuisce e si morde piano il labbro inferiore.

Manuel non ne è molto propenso. Esita. Schiocca la lingua sul palato e si scansa, cercando di rendere ben evidente la sua irritazione - che va bene colpevolizzarsi in solitaria, ma poi subentra l'orgoglio ed è la sua parte più forte.

Simone percepisce la sua riluttanza, la sente in ogni fibra del corpo. Entra in casa lentamente, in punta di piedi, domandando: «Sei solo?»

L'altro chiude la porta alle loro spalle. La casa è piccola e la risposta è abbastanza ovvia. «Seh,» taglia corto, senza annettere spiegazioni «te che vuoi?»

Ouch.

Gli fa male essere così scontroso, soprattutto poiché osserva Simone muoversi con lentezza, tenersi il fianco e zoppicare; prova l'istinto primordiale di abbracciarlo, baciarlo, chiedere cosa gli è successo. È tremendo, invece, doversi trattenere - ah, l'orgoglio.

«Posso sedermi?»

«Che vuoi, Simó?»

Gli fa male il cuore.

Simone sospira, affaticato. Si accomoda sui cuscini del divano senza un permesso accordato e corruccia la bocca in una smorfia di dolore.

Manuel deve stringere i pugni lungo i fianchi per non correre da lui e dimenticare ogni cosa. Resta immobile, a poca distanza. «Allora?»

«Niente, mi mancavi.»

Tu pure. Tanto, troppo.

«Ah, mo' te lo sei ricordato che c'hai 'n ragazzo?» rimane acido e scorbutico.

Gli occhi di Simone sono, come al solito, grandi, lo fissano e colpiscono ogni suo punto debole - uno per uno, tutti quanti, lo fanno vacillare.

Lo fanno cedere.

Sono la sua debolezza.

L'amore, troppo spesso, rende fragili.

Quando si tratta di Simone, Manuel è come creta nelle sue mani e delle volte non è così positivo, altre è semplicemente meraviglioso.

Serra la mandibola. Fiaccamente, striscia la pianta dei piedi sulle mattonelle fredde e va a sedersi al suo fianco. «Me vuoi dì che te sta a succede?» ritenta, più calmo.

Fragile.

Simone scuote il capo. «Ma perché vuoi—sempre parlare?» sibila.

«Da che me ricordo, quello che vuole sempre stare a parlà e ragionà sei tu, quindi me pare strano quando non lo fai.»

«Perché non c'è niente di cui parlare.»

«Eh, a me non sembra» la voce di Manuel si abbassa di tono. «Che te credi che non noto le cose, mh?» riprende «Pari 'n morto che cammina. Te stai a regge il fianco, significa che te fa male e me puoi raccontà tutte le cazzate che vuoi, pure su quello che è successo fuori da quello spogliatoio, però io leggo la faccia tua e lo so che stai mentendo.»

La verità è che il viso di Simone è come una mappa e Manuel ha imparato a leggerla, a distinguere i suoi rilievi, i confini, le zone di pioggia e di sole, di luce e di ombra e in quel periodo ce n'è troppa di quest'ultima.

Abbassa lo sguardo e debole quant'è allunga una mano e afferra la sua. «Mi parli, per favore?»

C'è ancora esitazione dalla parte opposta, un muro di sgomento che è arduo scalfire.

Simone manda giù della saliva a fatica e sospira, rassegnato. «Se ti parlo,» mormora «mi prometti che poi non fai niente?»

«Se cominci così me metti già in difficoltà.»

«Me lo prometti?» è una supplica che viene fuori dalla sua bocca.

Seppur nolente, Manuel annuisce e già la sua mente sta viaggiando con la fantasia, ipotizzando scenari apocalittici nei quali non saprebbe destreggiarsi. Attende, finché Simone non si tira leggermente indietro con il busto per essere in grado di togliersi di dosso la giacca - anche questo gesto è portato a termine con difficoltà; posa l'indumento sul bracciolo del divano, dopo pinza con le dita il bordo inferiore della felpa grigia e lo tira su abbastanza per scoprire la porzione di pelle al di sotto.

Su di essa, solitamente nivea, candida e costellata da nei, sul lato sinistro spicca un grosso ematoma violaceo, dai bordi sfumati; deve essere lì da qualche giorno.

L'istinto di Manuel lo condurrebbe a sbottare, iracondo, come prima cosa, in seguito a chiedergli cosa è successo, chi è stato, con chi devo prendermela?

Trattiene il respiro per non avere una reazione spropositata e dunque «Ti fa male?» domanda, per quanto la risposta possa essere ovvia.

Simone fa cenno di no col capo, mentre copre il livido, tirando giù lo spesso tessuto. «Pizzica ogni tanto» mente, gli duole così tanto che non riesce a respirare molto spesso.

Manuel è ben consapevole sia una bugia, infatti. Ancora una volta limita le proprie intenzioni, come quella di accarezzarlo, imprimergli sicurezza, protezione.

«Chi è stato?» la sua è una calma apparente, intanto che la sua anima lotta e scalcia.

L'altro ragazzo si chiude nelle spalle, abbozza un sorriso amaro. «A settembre la società dove gioco a rugby si è unita ad un'altra,» spiega «così si è creata una nuova squadra, il che all'inizio era figo perché loro erano forti e a noi, quelli rimasti dopo che molti hanno abbandonato per l'università, sembrava—bello. Poi, però, dopo poco ha smesso di esserlo» fa una breve pausa, tirando su col naso.

«Hanno iniziato con le battute, no? Su di me, su quel che sono» la sua voce trema «e io pensavo fossero—tipo come Matteo, che fanno 'ste battute di merda che posso sopportare e mi son detto che tanto un giorno avrebbero smesso e...»

«Ma non lo hanno fatto.»

La conclusione che Manuel fornisce a quel discorso è tanto scontata quanto lacerante.

«No,» bofonchia Simone «sono andati avanti e hanno iniziato con i placcaggi sul campo e pure lì ho creduto fossero per il gioco finché non è successo solo durante gli allenamenti.»

A Manuel piace avere ragione, tuttavia in quel momento vorrebbe essersi sbagliato.

Una parte di lui prova rabbia verso quei tizi sconosciuti e cerca di non farsi sopraffare, altrimenti uscirebbe in tal preciso istante di casa per scovarli e dar loro una lezione.

«Lo hai detto all'allenatore?» dice e un po' soffoca.

«No.»

«Nemmeno a tuo padre?»

«Ha altro a cui pensare. Tu sei il primo a cui lo dico.»

Ecco, probabilmente in differenti circostanze gli avrebbe persino fatto piacere il fatto di essere la prima persona alla quale qualcosa viene confessata, però non è questo il caso.

Forse l'altra parte di lui detesta persino Simone per non avergliene parlato.

Col tempo ha capito che il silenzio non serve e consuma la vita.

Apre la bocca per poter replicare, ma viene anticipato: «Hai promesso di non fare niente, ricordatelo.»

Quella richiesta lo sconvolge e annienta. «Come posso non fa' niente sapendo che quelli te menano?»

«Puoi perché lo hai promesso.»

«M'hai obbligato» ammette con rassegnazione e vorrebbe sottolineare quanto sia stato scorretto.
Si passa un palmo sul viso. «Almeno lo devi dì all'allenatore tuo, se succede al campo, può...»

«Non lo dico a nessuno, Manuel.»

«Lo capisci che 'sta cosa non ha senso?»

Si sta alterando per quanto non voglia.

«Ha senso, invece.»

«No che non ce l'ha e lo sai.»

«No, non lo so. Io...» Simone sbuffa e scuote vigorosamente il capo. Si alzerebbe se ciò non gli causasse una fitta di dolore al fianco, pertanto rimane seduto. «Posso sbrigarmela da solo.»

«Non me pare che te stia andando molto bene» a Manuel viene fuori in modo poco gentile, poco dolce, ma non riesce a pentirsene.

Per reazione, Simone serra la mandibola; è stato toccato su un nervo scoperto. «Non sono la principessa debole che deve essere salvata» attesta «posso gestire quattro coglioni se mi danno fastidio.»

Adesso, nonostante la sofferenza che lo attanaglia, scatta in piedi, cercando di nascondere la smorfia che gli si dipinge sul volto.

Manuel lo segue con lo sguardo. Lo vede muovere dei passi con nervoso, fare su e giù nel piccolo spazio che è la cucina. «Appunto perché sono quattro e tu sei solo, Simó» gli fa presente «non se tratta d'esse deboli o meno.»

«Invece si tratta di questo ed è il motivo per cui non t'ho detto niente prima!»

È agitato e Manuel lo percepisce, ragion per cui lo imita e si alza in modo lento, per raggiungerlo e fermare il suo frenetico cammino senza meta piazzandosi davanti a lui.

«Non c'è nulla di male nel chiedere aiuto,» gli dice «specialmente se serve e in 'sto caso t'assicuro che serve. Non significa che sei debole, indifeso e che c'hai bisogno della guardia del corpo.»

Gli pare persino strano, surreale che certe parole escano dalla propria bocca, da lui che ha sempre fatto da solo ogni cosa, che si è caricato sulle spalle pesi che non avrebbero dovuto appartenergli.

Presume che sia un cambiamento della sua persona, che è diventato un altro e quella versione gli piace un po' di più - è più logica, più matura, razionale, meno impulsiva.

Simone abbassa lo sguardo. Lo fa per celare i suoi grandi occhi scuri che si son fatti lucidi.

Di riflesso, Manuel stringe il suo viso tra le mani per costringerlo a sollevare la testa e a guardarsi. Con i pollici tira via le due lacrime che gli hanno macchiato le guance.

«Ohi,» soffia «puoi chiedere aiuto, mh? Perché non sei solo. Ce sto io co' te.»

Aggiungerebbe mille cose, se potesse, un fiume di parole ininterrotte sul fatto che a questo servono anche le persone che amano, a proteggere e non per debolezza o fragilità, soltanto per supporto e affetto.

Chiedere aiuto quando si affronta una difficoltà è un gesto coraggioso.

Lui lo ha imparato.

Si alza sulla punta dei piedi per poter depositare dei casti baci dapprima sulla sua fronte e, dopo, sul suo naso.

«Se non—vuoi che m'immischio, io non faccio niente» sussurra - gli duole farlo poiché rimanere immobile di fronte ad un'ingiustizia che coinvolge una persona così importante non è nella sua natura - «però se 'sta cosa va avanti e quelli te fanno ancora del male, io non te posso promette de restarne fuori.»

«Manuel...»

«No, Manuel niente. 'O so che te vedi il buono in tutti, che tutti possono capì, ma qui si è superato il limite e loro non me paiono intenzionati a smettere.»

Simone si irrigidisce e si libera dalla sua presa in maniera un po' brusca. «Così faccio la figura del debole e del codardo» sbotta «vuoi questo?»

«Vorrei non vederti morto pe' gente che non sa stare al mondo.»

È sincera l'apprensione di Manuel, genuina. Immaginarsi il peggio in certi casi non aiuta, ma adesso sembra l'unica opzione.

Dalla parte opposta, però, non viene recepito così il suo intento. Al contrario, Simone lo legge nella maniera più errata possibile, come un mettersi in mezzo non consono, un intervengo io perché tu non sei capace.

Eppure Manuel glielo vorrebbe urlare che lo ritiene in grado di tanto, che gli ha insegnato parecchio, in ogni aspetto di vita, che non lo considera affatto rammollito, bisognoso di scudi esterni per non saperne reggere uno da solo.

Vorrebbe soltanto venire compreso, ma paiono parlare due lingue differenti e nessuno dei due riesce ad interpretare l'altro.

Così rimane disarmato, con le braccia che gli crollano lungo i fianchi e davanti il fantasma di Simone, un fantoccio che si muove e parla come lui, solo che non è lui.

Perché Simone non lo guarderebbe con indignazione, con furia e rabbia, non perderebbe le staffe e non occulterebbe il suo desiderio di protezione.

«Lascia stare» sbotta.

«Simó...»

«Lascia stare.»

È duro il suo tono, persino i suoi gesti intanto che raccatta la giacca in malo modo.

Manuel sospira, prova a frenarlo prendendolo per il polso, che in realtà gli sfugge come fumo tra le dita.

Mormora un «Simo...» che si perde nell'aria poiché l'altro ragazzo ha già abbandonato l'appartamento.

***

8 febbraio 2024

«Ma che è quella faccia? T'è morto il gatto?»

Anita ride mentre pone quel quesito, sebbene l'espressione dipinta sul volto del figlio sia funerea, ragion per cui la curva sulle sue labbra svanisce pian piano.

È ferma sulla soglia della porta dell'unica camera dell'alloggio, le braccia conserte e una spalla contro lo stipite. Osserva il ragazzo, seduto sul divano a gambe incrociate e una coperta di pile a nasconderle.

«Che succede?» chiede, allora, e compie mezzo passo nella sua direzione.

Manuel scuote il capo.

Da quando è successo tutto il casino con Nicola, nel loro rapporto qualcosa si è rotto e, per quanto stiano cercando di risanarlo, le crepe sono comunque evidenti e faticano a sbiadire; è il motivo per il quale ha difficoltà a confidarsi con la donna, a raccontarle ciò che succede nella propria vita, un po' come accadeva in precedenza - preferisce farlo con Emma e persino con Viola, nell'ultimo periodo.

Di ciò che è successo con Simone meno di una settimana prima, però, non ne ha parlato con nessuna delle due, troppo in lotta con sé stesso per essere in grado di esternare qualcosa.

«Nulla» taglia corto. Mente e ha scoperto, di recente, che non è molto bravo.

Difatti, Anita percepisce nell'immediato che c'è qualcosa fuori posto. Avanza ancora, strisciando i piedi ricoperti da un sottile calzino, sul pavimento, e finisce per sedergli accanto.

Il cuscino molle sobbalza a causa del suo peso. «Hai litigato cor fidanzato tuo?» tenta.

Gli dava fastidio, prima, usare tale appellativo - tipo con Chicca non ha mai voluto utilizzarlo; ora non ne fa polemica, nemmeno ne avrebbe la forza.

«No» altra menzogna.

«Mhm, te posso dì che non ce credo o t'arrabbi?»

«Mà, daje, non c'ho voglia de parlá.»

La donna corruccia le labbra in una smorfia. «Guarda che te fa bene parlá co' mamma tua» suggerisce. Ha un tono dolce, quello che l'ha sempre caratterizzata.

Manuel ricorda di averla sentita con quella voce piena di affetto durante i propri momenti più neri, come quando lo hanno bocciato a scuola oppure in quelli più lieti, ma all'apparenza spaventosi, ad esempio durante il proprio coming out.

Ricorda di averlo fatto in una sera piovosa, col petto che tremava, con una paura addosso che gli impediva di respirare, però dopo, quando ha tirato fuori ogni cosa è stato come riprendere fiato in seguito ad una lunga ed infinita apnea.

Sua madre è stata il suo ossigeno in quel momento.

È un particolare che è in grado di stringergli il cuore in qualche modo.

«Non abbiamo litigato,» bofonchia, giocherellando con un filo di cotone sfuggito dall'orlo della coperta «non per davvero, insomma. Se l'è presa pe' 'na roba.»

«Che roba?»

«Non so se posso dirtelo.»

«Guarda che li so mantenere i segreti.»

Fin troppo bene, vorrebbe farle notare, ma sarebbe cattiveria gratuita.

Le rivolge un'occhiata distratta, dopo torna a fissare un punto vuoto davanti a sé. «È...» biascica, a fatica «gli sta succedendo una cosa brutta e—potrebbe cercare di risolverla, ma non lo fa e mi ha tagliato fuori.»

«E qual è la cosa brutta?»

«A' ma'...»

«Scusami, se non me dai i dettagli, come faccio? Mica so' nella testa tua.»

Forse è meglio.

Esita per un attimo. Probabilmente tenersi dentro ogni cosa non gli giova.

Sospira, sommesso, e le rivolge di nuovo l'attenzione. «Sta avendo dei problemi co' dei coglioni nella sua squadra di rugby,» spiega «lo hanno preso di mira per—per il suo orientamento sessuale e...»

«Deve riferirlo subito all'allenatore, ma che scherziamo» Anita lo interrompe.

Il ragazzo annuisce. «Sarebbe la cosa più logica, però non vuole farlo.»

«Perché?»

«Perché pensa sia da deboli e vuole risolverla da solo.»

Gli pare stupido ripeterlo a voce alta, così come è successo qualche giorno prima.

Si rabbuia. «È una follia, no?» esclama e gli sfugge una risata sull'orlo dell'isterismo «Non vuole neppure che faccio io qualcosa e me sento–inutile.»

Per istinto, Anita gli cinge le spalle con un braccio, cerca di stringerlo a sé seppur riscontrando una leggera resistenza. «Non sei affatto inutile» gli sussurra.

Per quanto se lo sia ripetuto, lui non riesce a scacciare via una simile convinzione. Non se n'è accorto, ma una lacrima solitaria gli riga una guancia. Socchiude per mezzo secondo le palpebre.

«È che–vorrei fargli capire che non penso che lui sia debole o che c'ha bisogno di un angelo custode pe' forza» sussurra - anche se un briciolo vorrebbe esserlo il suo angelo custode «però se penso che c'è qualcuno gli fa del male, divento pazzo perché per me è la cosa più preziosa del mondo e non—non esiste che il dolore lo tocchi.»

Anita lo ascolta in religioso silenzio, intanto che un sorriso si delinea sulle sue labbra. «Parli da innamorato,» mormora.

Si scosta quel che basta per poterlo baciare sulla tempia. «Certo che non vorremmo mai che le persone che amiamo soffrano, anche in situazioni più grandi di noi.»

«E dovrei restare fermo? Sapere questa cosa e lasciare che succeda?»

«No, per nulla, perché è 'na cosa grave. Magari Simone crede di riuscire a cavarsela, non vede tutto con chiarezza. Magari, invece, ha soltanto paura di parlare. Ci sono tante ipotesi.»

La madre fa una breve pausa, gli dà un secondo bacio, stavolta tra i capelli. «Però nessuno ti impedisce di fare ciò che credi giusto, mh?» aggiunge «Se vuoi aiutarlo, in questo caso puoi farlo anche se lui non vuole. Può esse' che ti odierà in principio, ma dopo capirà.»

«C'ho paura de fa' peggio.»

«Non puoi fa' peggio, t'assicuro.»

«Potrei, invece, perché c'ho solo voglia de uscì, andare da quei pezzi de merda e corcarli, de brutto.»

«E che risolvi andando a menarli? A parte generare altra violenza, mh?»

Nulla.

Manuel lo sa bene, si sporcherebbe le mani senza una giusta motivazione e passerebbe persino dalla parte del torto.

L'ideale sarebbe parlarne con qualcuno che può, in effetti, essere l'ago della bilancia, discuterne con l'allenatore che è colui presente durante gli avvenimenti, ad esempio, un adulto responsabile che può gestire la situazione.

Manuel annuisce, lievemente, conscio che ciò che è appena uscito fuori dalla bocca di Anita sia la verità più razionale. Chiude gli occhi e si lascia cullare dalla donna. Si abbandona a lei, dimenticando per un attimo che sta camminando su dei cocci rotti.

«Troverai la soluzione,» soffia Anita «se vuoi la cerchiamo insieme.»

Il ragazzo ancora non solleva le palpebre, vuole godersi quel briciolo di quiete, di pace che riesce a trovare nel mezzo della sua tempesta - ed è lieto che essa coincida con le braccia della madre.

«Mi sei mancata, ma'» mormora.

Anita sorride più apertamente, lo stringe più forte. «Anche tu, amore mio» sussurra «tanto, tanto.»

Sono così vicini per la prima volta dopo la loro lite, dopo ogni tentativo di riallacciare il loro rapporto e quello pare il giusto passo per riprendere a camminare mano nella mano.

Il loro momento di serenità, fatto di abbracci e lacrime, viene interrotto dalla vibrazione del cellulare di Manuel, appoggiato sul bracciolo del divano. In principio, lui nemmeno vuole rispondere; tuttavia, scorgendo con la coda dell'occhio il nome che appare sullo schermo, decide che quella chiamata non può perderla.

«Scusa» biascica alla madre, la quale si scosta di qualche centimetro per permettergli di afferrare il telefono e rispondere: «Simó?»

«Manu...» il tono dalla parte opposta è flebile e graffiato, un particolare ben definito che è in grado di gettar subito Manuel nell'agitazione: «Che succede? Dove sei?»

Scatta in piedi, facendo cadere a terra la coperta sotto gli occhi preoccupati di Anita.

«Sono, uhm—in ospedale, al Gemelli, io...»

«Che è successo?» chiede, di nuovo. Si sta allarmando, sebbene una parte di sé gli suggerisca di restare calmo, che quantomeno Simone gli sta parlando e significa che, qualsiasi cosa sia capitata, non dovrebbe essere così grave - però è successa.

«Puoi venire qui? Puoi—mi dispiace per l'altro giorno, puoi...»

«Sto arrivando» non lo lascia finire «arrivo subito.»




Essendo così scosso, Anita non lo lascia andare da solo: lo accompagna in auto, quella vecchia e scassata che non può circolare a giorni alterni, ma che l'aiuta ad andare a lavoro quantomeno.

Accosta al marciapiede davanti all'edificio grande e bianco, le pareti anonime e asettiche che non invogliano ad entrare.

L'auto sta ancora frenando quando Manuel apre lo sportello e si precipita fuori. Non si preoccupa di congedarsi dalla madre in qualche modo poiché la sua mente è offuscata, nelle orecchie gli rimbomba la voce rauca e afflitta di Simone e gli scenari più apocalittici hanno già preso il sopravvento nel proprio cervello.

Rischia di inciampare mentre sale i pochi gradini che conducono all'ingresso del pronto soccorso. Le luci forti a neon e i muri chiari contribuiscono a fargli bruciare gli occhi già gonfi e lucidi.

Un velo di calma riesce ad avvolgerlo quando scorge la figura alta di un ragazzo dai ricci scuri, una camicia a scacchi marrone e gialla e un gilet imbottito addosso.

Sospira di sollievo e gli corre incontro. «Manuel...» ode la sua voce quando lo raggiunge e si getta su di lui, alzandosi sulla punta dei piedi per poterlo stringere in un abbraccio.

Non ha ancora idea del perché si trovi lì, però lo spavento è stato forte, è stato tanto che per un singolo istante passa in secondo piano.

«Stai bene?» sussurra ad un suo orecchio e non suona per davvero come una domanda.

Per un momento, Simone tiene le mani a mezz'aria. Dura poco e poi ricambia quel gesto, si aggrappa alle sue spalle, affonda il viso nell'incavo del suo collo frattanto che annuisce.

Rimangono sospesi in quel contatto ritrovato, nel calore reciproco che si donano che parevano aver perso per un attimo, per distrazione.

Manuel si stacca unicamente per potersi guardare in faccia. Entrambi hanno un'espressione stravolta in viso. Gli accarezza una guancia con i polpastrelli. «Stai bene» ripete, come ad accertarsene.

Simone annuisce. «Sì, io–-» bofonchia «è... è per mio padre, si è sentito male all'improvviso e non... non sapevo chi chiamare e pensavo che tu non...»

Nelle ipotesi vagliate, Manuel non ha messo in conto un evento simile, anche perché, da quel che sa, Dante gode di ottima salute, non ha problemi noti e lo sconvolge il fatto che, adesso, siano lì per lui.

Ha davanti Simone che è sconvolto, a pezzi e fragile e di nuovo torna il suo istinto di protezione onnipresente. «Non fa niente, non...» sussurra «mo' sto qua, mh? Ce sto io co' te.»

Non esiste qualcosa di differente, ci sarebbe sempre per lui.

C'è negli attimi successivi, accomodati su sedie di plastica rigida e scomode, in una lunga e infinita attesa, durante l'arrivo di Anita; c'è quando un medico col camice verde finalmente li raggiunge e li ragguaglia riguardo la salute di Dante.

Manuel non ci capisce molto, si limita ad osservare il volto smunto e i capelli bianchi dell'uomo che parla a Simone - dice qualcosa riguardo ad un intervento tempestivo che gli ha salvato la vita, riabilitazione e ottimismo.

Coglie un sorriso sulle sue labbra, presume sia positivo.

C'è in seguito quando Simone informa la nonna Virginia e la rassicura sulla condizione del padre, le dice di non agitarsi e che potrà recarsi in ospedale la mattina successiva.

C'è quando poi Simone sceglie di non tornare a casa e Manuel rimane al suo fianco, nonostante la madre sproni entrambi ad andare a riposarsi.


Rimangono soli, a poco più di mezz'ora dalla mezzanotte, in una sala d'attesa ora deserta e silenziosa.

Le luci bianche appaiono più basse, più tenui, o forse è il sonno che comincia a rendere tutto offuscato.

«Grazie per essere rimasto» sussurra Simone ad un tratto. Tiene gli occhi socchiusi, appoggiando la testa sulla spalla del compagno, abbandonati sulle sedie di plastica.

«Mica te lascio solo» mormora Manuel, che intanto passa lieve la punta delle dita sul dorso di una sua mano.

«Per come t'ho trattato, forse me lo meriterei.»

Sbuffa una risata priva d'entusiasmo. «Pensi sempre di meritarti cose brutte.»

«Quello sei tu.»

Touché.

Simone sospira, in seguito si scosta quel che è sufficiente a potersi guardare negli occhi. «L'ho detto all'allenatore» soffia e non c'è bisogno di specificare cosa «mi ha assicurato che prenderanno provvedimenti, per il momento li hanno esonerati e convocato i loro genitori.»

«Hai fatto la cosa più giusta» dice Manuel, a bassa voce. Con indice e medio gli porta un riccio di capelli dietro ad un orecchio.

«Una parte di me lo sa, ma c'è l'altra che pensa ancora di aver fatto come all'asilo quando ci sono quelli che ti danno fastidio e tu vai a fare la spia alla maestra.»

«Co' la differenza che i bambini all'asilo non te lasciano lividi addosso» puntualizza nell'immediato. Lo fissa per un istante: in quel preciso istante, Simone gli sembra allo sbaraglio, estremamente vulnerabile. «Quelle so' persone di merda» esclama «e il loro gioco der cazzo è ferirti e farti arriva' a pensare che è colpa tua, ma non è così. Non hai sbagliato niente.»

Fa una breve pausa, durante la quale deposita un bacio leggero sulla sua fronte. «E per la cronaca...» sibila «non sei debole. Sei la persona più forte che conosco e se voglio proteggerti è soltanto perché ti amo e perché so che tu faresti lo stesso co' me.»

Quella è una parte che vorrebbe fosse chiara a tutti, che sono soltanto due ragazzi che si amano che darebbero la vita l'uno per l'altro, nulla più.

Simone rimane in silenzio per un breve attimo. Curva le labbra in uno stanco sorriso. «Sai che c'è una cosa a cui penso spesso?» pigola.

«Quale?»

«Che in qualche modo, non so in quale, tu non sei capitato per caso, che sei–arrivato nella mia vita nel giusto momento, nel giusto posto perché qualcuno ha voluto così» allarga il sorriso «e mi piace credere che sia stato Jacopo che ti ha mandato da me quando ritenevo di non essere capace di amare, di essere fuori posto, come se fossi sotto il cielo di Londra pieno di nuvole, ma adesso si sono diradate.»

Manuel lo ascolta in silenzio. Gli è capitato, in qualche occasione, di formulare il medesimo pensiero, solo che non lo ha mai esternato - che agli universi paralleli rivolge spesso l'attenzione, anche quando non vuole, e si perde ad analizzare mille alternative dove le cose sono andate meglio, altre peggio.

Magari sbaglia perché rimuginare su realtà alternative spesso si rivela deleterio e che, al momento, il proprio universo gli va più che bene.

Non cambierebbe niente, non più.

«M'ha fatto un grande regalo, Jacopino» commenta.

Simone fa calare le palpebre. Si lascia stringere e cullare dall'altro ragazzo. Si sente protetto, al sicuro, e più forte che mai.

«Pure a me.»

***

23 settembre 2024

È la prima volta che lascia Roma mettendo in conto di passarci mesi lontano.

Di solito, i suoi spostamenti sono stati di qualche chilometro, un briciolo di più durante le ultime vacanze estive passate in Scozia dalla madre di Simone - ma è stata una settimana sola e sapeva la data precisa in cui sarebbe tornato a casa.

Adesso è diverso.

Fissa l'unica valigia che ha preparato, un trolley rosso con la cerniera davanti rotta. Ha scelto di proposito di non portarsi dietro troppa roba, come se lasciare dei pezzi di sé nell'appartamento di Roma fosse un segnale che sussurra tanto qui ci torno.

Sembra stupido.

Forse lo è davvero.

«Tra quanto passa tuo padre?»

La domanda gliela pone Simone.

Manuel percepisce la sua voce arrivare da dietro le proprie spalle, mentre lui ha gli occhi fissi sulla valigia abbandonata a terra. «Ha detto un quarto d'ora» borbotta e non si volta. Rimane immobile, con le braccia morbide lungo i fianchi.

Il compagno gli si avvicina con lentezza, gli cinge la vita con i palmi e fa aderire il proprio petto alla sua schiena.

«È solo un treno, mica un aereo» scherza, facendo riferimento al viaggio disastroso ed esilarante al contempo in volo per la Scozia, con il terrore negli occhi dell'altro ragazzo «non devi essere così agitato.»

In tutta onestà, a Manuel piacerebbe prendere un aereo in quel momento anche se ne ha una gigantesca paura, perché, in tal caso, saprebbe quando tornare, avrebbe una scadenza relativamente vicina.

È diverso.

Dovrà aspettare mesi prima di rivedere Roma e chi lì ci resta.

«Non me preoccupa il treno» sospira e va ad appoggiare le mani sulle sue «me preoccupa quello che sto a fa'.»

«Stai andando a costruire la tua vita.»

«Ma sto lasciando indietro 'sta città, gli amici miei, mi' madre... te

Simone scuote il capo e deposita un bacio sulla sua nuca, tra i ricci di capelli un briciolo sudati. «Non te ne vai mica per sempre,» gli fa presente «solo per un po'.»

«Minimo so' tre anni.»

«Tre anni durante i quali esistono treni, macchine, per tua sfortuna anche aerei.»

Non era previsto il fatto di andare all'università separati, in due posti lontani.

Hanno elaborato piani diversi, che comprendevano pure altre città, ma l'idea era di andarci insieme.

Invece così non è stato, per cause di forza maggiore.

Manuel è stato preso alla facoltà di psicologia, a Torino, mentre Simone ad architettura, rimanendo a Roma - con fortuna e facendo carte false così da poter essere d'aiuto al padre alle prese con la fisioterapia post aneurisma; il professore non ha riportato nessun danno permanente, ma il suo fisico ha bisogno di una lenta ripresa e il figlio vuole stargli vicino.

Tutto ciò, però, è in grado di gettare Manuel nello sconforto.

Che lasciare Roma, in effetti, non è un problema.

Il problema è farlo senza Simone al proprio fianco.

Sospira sommesso, intanto che con lentezza compie mezzo giro su sé stesso così da ritrovarsi faccia a faccia col compagno. «Me ricordo che 'na volta hai detto che non sei tipo da relazione a distanza» pigola.

Il fatto che abbia memorizzato un'informazione del genere un briciolo lo imbarazza - perché glielo ha detto mezza volta di un tizio di cui manco ricorda il nome, non dovrebbe essere rilevante; la realtà è che ogni cosa che l'altro gli dice si insinua nel proprio cervello e viene marchiata a fuoco nella memoria, dalla più inutile alla più importante.

«Dipende chi c'è dall'altra parte» lo rassicura Simone «se ci sei tu, i chilometri non mi spaventano.»

A Manuel sì e pure parecchio.

Gli pare quasi di fare un torto a sé stesso andando via, come se tutti i pezzi della sua vita fossero al loro posto, finalmente a colori e lui stesse distruggendo tutto di proposito.

Chicca gli ha detto che sta facendo solo il melodrammatico, medesima cosa che gli hanno ribadito Viola ed Emma e, in fondo, ne è persino consapevole; il punto è che non riesce proprio a vedere la cosa da una prospettiva diversa da quella più tragica.

Torna in lotta con la vita, tipo te l'ho fatta andare bene fino ad ora e quando meno te lo aspetti, ti tolgo tutto.

È folle perché non può vivere col costante terrore che sopraggiunga un evento catastrofico a sconvolgere la propria esistenza.

Non è sano, è soltanto distruttivo.

È che alle cose belle non ci è abituato e, negli ultimi mesi, gli è andato tutto fin troppo bene: ha preso un buon voto alla maturità, ha passato senza intoppi il test d'ammissione alla facoltà che voleva, ha persino trovato una stanza in affitto a Torino a poco prezzo - stavolta Nicola non ha accettato alcun rifiuto e ha deciso che finanzierà lui parte della sua esperienza fuori sede.

E pure con Simone, in seguito agli episodi con i compagni di rugby e i problemi di salute di Dante, non c'è stato altro.

Perché sembra la quiete prima della tempesta, accidenti?

Non trova pace e ha il terrore che sarà sempre così: che si disfa dalla polvere, ma poi rimane fermo come una statua, ad attendere che si formi di nuovo, lasciandosi soffocare.

Basta.

Sbatte piano le palpebre, cercando di non farsi consumare da infinite paranoie.

«Nella mia camera ce sta il letto ad una piazza e mezza» sussurra e poggia la fronte sulla sua «così quando vieni ce stai pure tu.»

«Vengo il prima possibile, lo prometto.»

«T'aspetto lì.»

***

[Note autore:
Ciao a tuttə!
Scusate per l'attesa, questa parte poteva uscirmi decisamente meglio, infatti boh... spero non abbia fatto troppo schifo.
Grazie per aver letto fino a qui.

Un bacio.
Lilith.]

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