Regola 2: Un Grey non mostra mai le proprie preoccupazioni
Nella foto: Geoffrey Cross
"Non posso farlo."
"Neanche io."
"Stanno arrivando."
"Theo, rilassati. Così mi trasmetti ansia."
"Oddio, sto per morire."
"Cazzo. Eccoli!" Reggevo l'I-Phon vicino all'orecchio, sentendo i respiri ansiogeni di Jeff unirsi ai miei, mentre entrambi, ai lati opposti d'America, stavamo per andare incontro ai nostri genitori. La macchina scura si fermò proprio di fronte all'uscita dell'aeroporto di Seattle, e mi si gelò il sangue nelle vene quando Taylor uscì, sorridendomi cordiale e andando ad aprire la porta posteriore. Mia madre e Phoebe uscirono con talmente tanta impetuosità da ricordarmi un fiume in piena.
"Ti richiamo."
"Sappi che è stato un piacere conoscerti." Chiusi la chiamata, per poi indossare il mio miglior sorriso rilassato. Non mi fu difficile: ero felice di rivederle, e soprattutto che non ci fosse papà. Non sarei riuscito a guardarlo in faccia.
"Ciao, mamma." Anastasia Rose Steele, quarantadue anni, bellezza americana, amministratrice della casa editrice SIP e delle corporazioni affiliate, nonché mia madre e moglie dell'uomo più scorbutico del Paese. Era una donna completa, non c'era che dire, e fui felice di risentire il suo profumo all'Iris inondarmi di nuovo le narici, quando mandò a quel paese tutti i canoni del bonton e mi strinse in un abbraccio soffocante.
"Passerotto mio, mi sei mancato così tanto." disse, per poi staccarsi. "Come stai? Mangi? Mi sembri dimagrito. Avevo detto a tuo padre che la mensa di quella scuola era disgustosa."
"Mamma, calmati." la bloccai, mettendo le mani avanti. Lei fece tre profondi respiri, come le aveva consigliato il terapista, e quando riaprii gli occhi, quell'azzurro così intenso mi fece rivedere per un secondo l'espressione di Jeff, quando ci eravamo separati nell'aeroporto di Pasadina.
"Bentornato, signorino Grey."
"Grazie, Taylor." Gli consegnai la valigia e lo zaino, mentre Phoebe mi scoccava un'occhiata divertita.
"Ehi, passerotto. Come va?"
"Non chiamarmi passerotto, principessa di papà." Mia sorella sorrise, portandomi un braccio sulla spalla e tirandomi verso di lei. Da quando faceva ginnastica ritmica aveva più forza di me.
"Papà è rimasto a casa. A quanto pare doveva preparare qualcosa." Sbiancai, senza sapere cosa aspettarmi. Sperai soltanto che non fosse una sorpresa meravigliosa, altrimenti non sarei riuscito a spezzare tutti i suoi sogni di padre tradizionalista con un macete da centoventi chili. Nonostante le mie proteste, mamma volle che mi sedetti tra lei e Phoebe, e per tutto il viaggio di ritorno fui obbligato a sorbirmi i dettagli sui preparativi della cena di Natale annuale, organizzata dai nonni e da zia Kate. Fare qualcosa di raccolto e familiare non era nelle loro corde, quindi il Natale si riduceva ad un mero pretesto per organizzare altri ricevimenti di beneficenza, provocando la mia insofferenza e quella di mio padre. Ascoltai saltuariamente, concentrandomi sul maglione turchese di Phoebe. Le faceva risaltare gli occhi azzurri. Avrei dovuto iniziare ad usare di più quel colore, visto il nostro sguardo identico. Chissà, magari a Jeff piaceva...
I secondi che ci mise la macchina a fermarsi sul vialetto furono i più lunghi della mia vita. Mi sentivo come un soldato mandato al fronte, nel momento in cui intravedeva le coste della Normandia. Pronto al sacrificio, ma con quell'ultimo scatto codardo che lo spinge a buttarsi in mare e attraversare l'Atlantico a suon di bracciate. Il telefono nella tasca vibrò, ma non lo presi. Sapevo che era un messaggio di Geoffrey ma, se lo avessi letto, Phoebe o mamma avrebbero sbirciato. Dovevo tenere duro. Resistere alla curiosità. Stoico, come un soldato. Ed ecco il nemico. Impeccabile nel suo completo da lavoro, in attesa sulle scale, in una posizione quasi divina. Christian Grey. Non appena Phoebe lo scorse, uscì dalla macchina ancora in movimento e corse a prendersi il suo abbraccio mattutino. Sbuffai, chiedendomi se non avrei dovuto iniziare anch'io ad essere così espansivo ed affettuoso. Magari lo avrei addolcito, o insospettito.
"Theodore." Scossi la testa, voltandomi verso Anastasia, che mi sorrise dolcemente. "Non scendi? Tuo padre era impaziente di vederti tornare." Papà impaziente? No. Lui non mostrava mai emozioni che andavano oltre il sorriso ostentato o il fastidio. A volte mi chiedevo come avesse fatto mamma a sposarlo. Insomma, non mi era mai sembrato un tipo molto passionale. Nonostante i miei pensieri feci come mi veniva detto, andando dietro Taylor, che stava portando dentro i miei bagagli.
"Papà!" esclamai, forse con troppa enfasi. Infatti Christian alzò un sopracciglio, squadrandomi dalla testa ai piedi mentre Phoebe seguiva il nostro autista.
"Hai fumato, per caso?" chiese, spegnendo tutto il mio entusiasmo. Incurvai le spalle, scuotendo la testa.
"Niente fumo e niente alcool. Sono sinceramente felice di vederti." spiegai, e lui non mi contraddisse. Sapevo che era lo stesso anche per lui, ma aveva smesso di dimostrare affetto nei miei confronti quando avevo smesso di usare il pannolino. O almeno, un affetto da normale genitore. Lui esternava in modo diverso il suo amore per me, con più calma. Magari lo avrebbe fatto anche con la rabbia. Mi scompigliò i capelli con una mano, per poi dare un lieve bacio a mia madre.
"Il college ti fa bene. Sembri più intelligente."
"E tu sei tremendamente invecchiato." Ci guardammo in cagnesco per un attimo, poi Anastasia ci separò con le mani, facendo un lieve sbuffo rassegnato.
"Dai, Christian. Lascialo in pace. Sarà stanco per uno dei vostri soliti battibecchi."
"Ma ha cominciato lui." si difese, mentre mia madre gli lanciava uno sguardo di fuoco. Entrai soddisfatto in casa, felice di immergermi in quell'ambiente familiare e festivo. Mi sarei goduto il giorno, decisi. Avrei dato la notizia a cena. Sorrisi alla vista dell'enorme albero di Natale posto all'ingresso. Mamma e zia Kate si riunivano ogni anno per addobbarlo. Questa era stata la prima volta che non avevo assistito allo sguardo sfinito di mio padre e di zio Elliot mentre quelle due litigavano per il colore che sarebbe andato meglio con il verde pino. Quest'anno avevano optato per il rosso e l'oro. Era vistoso, per niente simile al minuscolo alberello che Jeff aveva piazzato nel suo alloggio.
"Io adoro il Natale, Theo. E senza albero non è Natale, quindi non iniziare con le tue solite battutine da checca in crisi di astinenza. Non lo tolgo."
"Oh, il piccolo Theodore è tornato!" Sobbalzai quando due robuste braccia mi avvolsero i fianchi, stringendomi talmente tanto che temetti che gli occhi mi sarebbero balzati fuori dalle orbite.
"Ciao, Gail." mormorai, in un rantolo soffocato. Quella donna era più bassa di me di circa venti centimetri, ma aveva l'impeto di un rinoceronte quando si trattava di esternare il suo affetto. Taylor si lamentava della stessa cosa quando lei lo abbracciava con troppa insistenza.
"Gail, non ucciderlo." La voce divertita di mio padre annullò la presa, e la signora con un esagerato grembiole rosa gli scoccò un'occhiataccia.
"Anche io sono felice di rivederti." le dissi, in modo che non iniziasse ad aggredire mio padre con la solita storia del "ho cresciuto suo figlio tanto quanto lei". Gail era stata la mia balia e quella di Phoebe fino a quando non avevamo compiuto sedici anni. Se fosse stato per Christian ci starebbe ancora alle costole, ma fortunatamente mia madre ci aveva ritenuto abbastanza grandi per avere una macchina e prepararci del cibo da soli.
"Hai due ore per disfare le valigie e farti una doccia. Puzzi di sudore e patatine fritte." Mi voltai verso Christian, rivolgendogli una smorfia sarcastica.
"Tanto lo so che ti sono mancato, paparino." dissi, in tono mieloso.
"Crepa, figlio." Scoppiai a ridere, salendo le scale verso la mia vecchia camera. Visto da fuori, il rapporto con mio padre poteva risultare più che strano, ma per me era fantastico. Forse era questione di abitudine. Forse eravamo noi ad essere particolari. Non lo sapevo, e francamente non mi importava. Avevo solo paura che, una volta rivelato il mio segreto, il nostro rapporto si sarebbe disgregato. Che non mi avrebbe più guardato in faccia. Quando mi chiusi la porta alle spalle, tirai fuori il telefono. C'era ancora il messaggio di prima, ed era di Jeff.
SKYPE. ORA.
Beh, era sempre stato un ragazzo conciso. Afferrai il laptop dalla valigia che avevano poggiato sul pavimento e mi buttai sul letto a due piazze, immergendomi nell'odore di ammorbidente di quel piumino blu fresco di bucato. Casa. Mi era mancata. Attivai Skype, e notai il punto verde accanto al nome di Geoffrey, segno che era online. Mi stesi a pancia in giù e poggiai il computer sul cuscino, aspettando che la connessione si muovesse. In pochi minuti, il viso sconvolto del mio ragazzo apparve sullo schermo, leggermente sgranato.
"Bene. Sei ancora vivo." constatai, mettendomi le cuffie.
"Spiritoso, Grey. Potrei dire lo stesso di te." Doveva essere su una scrivania, perché riuscivo a vedere il letto dietro di lui. Al contrario della mia, la sua stanza era atona, monocorde. Riuscivo a notare le lenzuola nere, e una foto di lui e sua sorella maggiore, Sarah.
"Non l'ho ancora detto." ammisi, abbassando lo sguardo. Jeff sospirò, passandomi una mano sul viso.
"Neanche io."
"Per te è più facile. I tuoi sanno già che sei gay. Per mio padre sarà un doppio infarto." Lui ridacchiò, e la connessione lenta rese scostanti i suoi movimenti. L'immagine si bloccò per un attimo, e quando riprese a muoversi Jeff si era stravaccato sulla sua sedia.
"Mi dispiace non poter essere lì con te." mormorò, seriamente contrito. "Non voglio che tu affronti questa cosa da solo."
"Ehi, tu lo hai fatto. Perché io no?" lo rassicurai, facendo spallucce. Geoffrey mi aveva raccontato che, quando aveva ammesso ai suoi di essere omosessuale, era stato come entrare in un universo parallelo. Suo padre era rimasto fermo qualche minuto, con la forchetta a mezz'aria, visto l'ora di cena. Jeff aveva giurato che il suo sguardo sembrava quello di un animale impagliato. Sua madre, invece, sembrava sull'orlo di un collasso. Jeff aveva avuto seriamente paura che scoppiassero, ma poi fortunatamente sua sorella aveva rotto il ghiaccio con un clamoroso: "E' lui che morde il cuscino, eh fratellino?"
"Theo?"
"Che c'è?" Ci fu un attimo di silenzio, nei quali pensai che lo schermo si fosse bloccato di nuovo. Jeff mi osservava con una fissità che mi fece impallidire, tanto che mi voltai con la paura di vedere la figura sconvolta di mio padre dietro di me. Fortunatamente c'era solo la mia scrivania, ed una mensola con qualche libro che avevo lasciato lì prima di andare al college.
"Niente. E' solo che... sei davvero fantastico." Sbarrai gli occhi, per poi abbassare lo sguardo, imbarazzato. Non ero abituato ai suoi complimenti. Non me ne faceva quasi mai, e neanche io a lui. Probabilmente dipendeva dal fatto che a nessuno dei due piacesse farne.
"Stai cercando di convincermi a non lasciarti?" dissi quindi, cercando di superare l'imbarazzo iniziale con una risata.
"No. Per quello bastano le mie innate doti di seduttore." Un colpo alla porta ci fece sobbalzare entrambi, e lo vidi voltarsi verso l'ingresso della sua stanza. "Chi è?" gridò.
"Jeff. E' arrivata la zia. Sbrigati a scendere." La voce cavernosa di Gideon Cross mi fece rabbrividire, e coprii il viso con le mani, in preda al terrore.
"Arrivo, papà." Jeff si girò un'ultima volta verso di me, sorridendomi. "Devo andare. Ci sentiamo questa sera."
"Se ci arrivo, a questa sera." Sospirai, poi mi misi seduto. "Resta vivo."
"Anche tu. Ciao."
"Ciao." Chiusi la chiamata e misi il computer al suo posto, sentendo una stretta al petto in mezzo a tutto quel silenzio. Probabilmente i miei non l'avrebbero presa bene. Probabilmente ci sarebbero state lacrime, scenate, prese di posizione, o forse sarebbero rimasti calmi e avrebbero capito. Era un salto nel buio, ma lo avrei fatto per Jeff. Stavamo insieme da quattro mesi. Era ora che i miei sapessero la verità. Dovevo solo sperare che non avrebbe fatto loro troppo male.
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