A cena con Dasha [spoiler capitoli 60 e 61]
Salve a tutti! In attesa del capitolo che arriverà lunedì, ho pensato di farvi vedere com'erano originariamente i due capitoli della cena a casa di Daniele a Miami ("The king of pirates" e "La stupidità non si cura"). Come potete vedere c'era anche Daria (in qualità di fidanzata di Ivan) e succedevano un po' di casini. Ho tagliato inizio e fine e anche un pezzetto in mezzo per rendere la lettura più snella.
Le scene clou erano davvero troppo eccessive e drammatiche, sopra le righe, e finivano per ripetere dei "momenti emotivi" togliendo intensità e importanza all'abbraccio che Ivan e Michele si scambiano nello spogliatoio di Roma.
Mi fa piacere comunque condividere con voi un pezzo scartato del mio processo creativo. Ditemi pure cosa ne pensate! Buona lettura!
***
«Eccoli, alla buon'ora» esclama mio padre, seccato, andando alla porta. L'ingresso della casa di Daniele è un open space, con la cucina in vista, dove stanno lavorando lo chef con due assistenti. Stiamo aspettando tutti qui, ma poi ci sposteremo all'aperto, per cenare, sul grande portico che dà sulla spiaggia.
Il primo a entrare è Raffaele. Devo ricordarmi di non guardarlo mangiare, non sopporterei la vista dei suoi orrendi denti scuri che affondano nel cibo.
«Scusate il ritardo» dice entrando.
«Scommetto che è stata colpa tua» lo rimprovera papà.
«No, colpa mia» dice Ivan. Tiene Daria per mano. «Conferenza stampa andata lunga. Ho annunziato nuovo sponsor! Sventola il polso, su cui fa bella mostra il mio/suo orologio Lego. «Tutti giornalisti a ridere! Non mi credeva, io detto che era sponsor a contrario: no Lego sponsora me, io sponsoro loro! Si volta verso Daria, uh, sorry, I said...»
«Ho capito tutto, stavi parlando della conferenza stampa, no?» gli dice in inglese. Sembra seccata. Ma dopo pochi secondi mi sorride. Mi tende la mano e mi ringrazia per l'invito.
[Pezzo omesso: la spinta ad Andrej, praticamente identica]
Ci sediamo, mentre Ivan e Andrej parlano ancora della barba di Andrej. «Lui sta benissimo con la barba» dice Ivan, «non so perché se l'è tagliata.»
«Capitano Barbabionda» dice Andrej accarezzandosi il mento.
«Hai qualche foto?» chiede Daria. Dev'essere bizzarro per loro parlare l'un l'altro in inglese.
«Certo!»
Abbiamo preso tutti posto. Siamo in fila su un lato Maria, Anna, io, Ivan e Daria, di fronte in direzione opposta Raffaele, Andrej, David e Janet. Capotavola: Daniele sul lato Maria/Janet, papà sul lato Daria/Raffaele. Sara si è accucciata accanto alla mia sedia. Purtroppo non le potrò dare nulla: sta seguendo una dieta speciale e molto restrittiva, dopo l'operazione.
Ivan tira fuori il cellulare e mostra a Daria una foto e le dice qualcosa in russo.
«Wow» commenta lei.
«Guarda che bello» dice porgendo il cellulare a me.
C'è una foto di Ivan e Andrej. Si vede che Ivan era più piccolo, ma aveva già i capelli colorati (rossi). Andrej portava una barba compatta.
Non mi piace la barba, gli dico in inglese, è poco igienica.
Anna sbircia il telefono. «A lui sta bene» commenta. Sembra ancora molto imbarazzata.
«Sì, Andrej è così fortunato...» dice Ivan, sbuffando. «È bello, è biondo, ha una bella barba... la mia barba fa schifo, ho quattro peli sul mento e tre sui baffi!»
«E non dimenticare che sono un pirata! E tu no!»
Il discorso diverte tutta la tavolata, tranne Anna che è visibilmente in difficoltà.
Passano le portate e passa la serata. Mi disturba un po' che nessuno si sia lavato le mani prima di mettersi a tavola, ma cerco di non pensarci. Lo chef è davvero bravo, non ricordo quand'è stata l'ultima volta che ho mangiato così bene. Vorrei mangiare sempre così.
Io resto quasi tutto il tempo in silenzio, tranne le rare volte in cui Ivan mi interpella e sono costretto a balbettare qualcosa. Ma non mi annoio affatto: mi piace ascoltare. Si parla di tennis, soprattutto. E un po' della bambina. Quando Maria la porta "a nanna" (lo dice in italiano), Ivan le chiede se può prenderla in braccio. Maria gliela porta e Ivan si diverte molto. La chiama per nome. Odio sentir pronunciare il nome di mia madre, ma cerco di non darlo a vedere.
«Adoro i bambini» dice lui, facendole il solletico sul nasino (la bimba ride).
«Non ci pensare neanche» commenta Daria.
«A cosa?»
«Non voglio perdere un anno e mezzo di carriera adesso» prosegue Daria. «Magari ne riparliamo quando ho trentacinque, trentasei anni.»
Ivan spalanca gli occhi con aria spaventata. «Nessun problema per me, non voglio fare il Taylor Fritz!»
Tutti ridono (Taylor Fritz ha messo incinta la fidanzata quando entrambi avevano diciotto anni). Tutti tranne me: l'idea che Daria e Ivan già parlino di famiglia mi disturba. Non so perché, forse perché Ivan mi sembra così infantile, a volte. Con quell'orologio Lego. Vorrei che restasse sempre così: un po' bambino, senza preoccupazioni e responsabilità da adulto, che lo costringano a crescere.
Mentre Maria porta via la bambina, Ivan continua a parlare di lei. La nomina di nuovo. La nomina una seconda e una terza volta, e io non ne posso più. «Scusa, p-p-potresti smettere di dire quel nome?» Lo sussurro sottovoce e in italiano.
«Quale nome?» sussurra in risposta.
«Il nome della bambina.»
«Elisa?»
«Smettila di dirlo!»
L'ultima frase l'ho detta a voce un po' troppo alta, tutto il tavolo mi guarda.
Mi alzo. «Scusate, devo lavarmi i denti» dico a tutti in inglese, sommessamente.
«C'è ancora il dessert» mi fa Daniele.
«Non lo mangio, troppi carboidrati.»
Sento che mi prendono in giro, mentre mi allontano, che tipo preciso, dice David. Ma che ne sa lui? È solo uno stupido doppista.
È stata una cena lunga, ho passato molto più tempo del solito con la bocca sporca, chissà quanti batteri si sono formati. Ci metterò più impegno del solito a lavarli. Sara mi tiene compagnia, ogni tanto le do una grattatina con la punta del piede.
Dopo mezz'ora sto ancora passando il filo interdentale e sento bussare alla porta.
Spunta la testa azzurra di Ivan. «Non hai ancora finito?» Mi chiede. Sara lo saluta poggiandogli le zampette addosso e Ivan ricambia con una carezza.
Gli faccio di no con la testa e proseguo il mio lavoro. Lui si appoggia allo stipite della porta e mi guarda. «Perché ti lavi i denti dopo aver passato il floss» mi chiede quando mi vede riprendere in mano lo spazzolino. «Pensavo che si faceva incontrario, prima brush, poi floss.»
«Io lo faccio sia p-p-prima che dopo, perché col filo escono p-p-pezzetti che sporcano di nuovo i denti.»
Ride. «È vero, non avevo mai pensato!»
Mi dà qualche informazione non richiesta sulla cena. David e Janet sono andati via poco fa. Daria e Andrej stanno insegnando ad Anna a fare il dritto.
«Il dritto nel senso di forehand?»
«Sì, lezione di tennis! Quando hanno saputo che non ha mai giocato a tennis in vita sua hanno detto: adesso ti impariamo!»
«T-ti insegnamo» lo correggo.
«Allora io ho approfittato perché volevo vedere castello Lego. Mi mostri?»
«Appena ho finito.»
Dopo circa cinque minuti ho fatto l'ultimo sciacquo di collutorio e lo conduco verso la stanza con la costruzione.
«È ancora a metà» lo avviso. «E non so quando la finirò. Forse torno q-qui quest'estate, prima di Washington.»
Entriamo.
«Wow, è grandissimo!» esclama Ivan. Sara fa dei giretti intorno alla costruzione.
«B-bello, vero?»
«E tu me lo vuoi far distruggere?»
«Sì, se vuoi!»
Ivan sorride senza dire niente. Mi mostra quel suo dente storto, impertinente come lui. «Ti va se lo distruggiamo insieme? E poi costruzioniamo qualcos'altro? Insieme?»
«Qualcos'altro... tipo?»
«Non so, ci inventiamo!»
Scuoto la testa. «Non ho fantasia, dico.»
«Ti imparo io!»
«Insegno» lo correggo di nuovo.
«Ti insegno. Vuoi? Insieme!»
«La fantasia non è una c-c-cosa che si insegna.»
«Sì invece! Devi solo aprire la tua testa e tirare fuori le idee. Tu hai testa troppo chiusa. Sempre troppo controllato.»
Lo diceva anche Raffaele: trovare l'equilibrio tra controllo e libertà.
«Ok» dico. «Proviamoci.»
«Non vedo l'ora.»
Il suo sorriso è la perfetta rappresentazione di ciò che è lui: bello ma imperfetto. Storto ma affascinante.
Affascinante? Lo penso davvero?
«Senti...» abbassa la testa. «Scusa per prima...»
Capisco subito a cosa si riferisce. «Scusa tu, so che non l'hai f-f-fatto apposta.»
«Ti fa male sentire il suo nome? Ancora dopo tanti anni?»
Come sempre Ivan è diretto. Troppo diretto. Spietatamente diretto.
«Mi fa male che le abbiano dato quel nome» gli rispondo. «Alla bambina. Non è... non è giusto. Elisa era la m-m-m-mamma, non...» Mi sento pieno di rabbia. Non so come esprimerla.
«Misha...» Sento la sua mano sul mio viso. Il suo pollice mi scorre sotto l'occhio e scivola, e il motivo per cui scivola è che ho la guancia umida. Non mi ero accorto che stavo piangendo. Mi esce un singhiozzo. «Non è giusto!» Sbotto. «Non le d-d-dovevano dare quel nome!»
«Quel nome è di nessuno» dice lui. «T-t-tutti può prenderlo. Tu non puoi fare niente.»
«No! Non dovevano p-p-permettersi!»
«Non è tuo. E non è neanche della tua mamma. Daniele ha piaciuto il nome perché vuole bene alla sua mamma e l'ha dato alla sua bambina.»
«Come fa a non soffrire ogni volta c-c-che lo sente? Non la amava davvero! Se l'avesse amata non v-v-vorrebbe sentirlo c-c-cento volte al giorno! Non la amava davvero!»
«Misha.» È davanti a me adesso. Ha entrambe le mani sul mio viso, e mi piace, mi trasmettono un calore che penetra sotto la mia pelle e mi scalda il cuore.
«Tu non capisci che esiste tanti modi di amore e amore è anche in ricordi. Secondo te perché tuo padre ha chiamato Michele e Daniele...»
Veniamo interrotti da una voce. Una voce femminile che pronuncia una frase rabbiosa in russo. Una frase che suona come «Svoloc'!» e che fa scattare Ivan. Mi lascia il viso, guarda allarmato alle mie spalle. «Dasha!» esclama.
Mi volto, la guardo, ma lei sta fissando Ivan, con odio.
Lei ripete quella parola. «Svoloc'!» La sputa.
«Niet» dice Ivan, e aggiunge qualcos'altro. «He was crying» dice in inglese.
«I don't fucking care!» grida lei. «I hate you both! I'm done with you!»
Daria scappa via, Ivan la rincorre gridando il suo nome: «Dasha! Dasha!»
Daria non mi piace. Ma non voglio che la loro storia finisca per uno stupido fraintendimento. Allora li rincorro anch'io, sperando di poter spiegare ciò che Ivan non è riuscito a dire.
[qui finiva il capitolo]
Si sente la bambina piangere. Maria esce dalla sua cameretta sbraitando: «Ma vi sembra il modo di gridare?»
Nessuno la considera. Daria è già all'ingresso, Ivan sta caracollando giù per le scale dicendo qualcosa in russo, io sono poco dietro. Spunta mio padre dallo studio e ci dà dei cretini.
Fuori, finalmente. Daria corre giù lungo il viale, Ivan dietro, io a ruota. Quando Daria raggiunge la strada la vedo digitare qualcosa sul suo cellulare, che aveva già in mano. Ivan la raggiunge e cominciano a discutere in russo. Quando arrivo da loro Daria assesta uno schiaffo a Ivan.
Sapevo che il dritto è il suo colpo migliore e ora ne ho la prova: è una manata davvero violenta, che sposta la testa di Ivan e lo fa barcollare di diversi passi a destra. «Nenavizhu tibia!» gli grida addosso. Ripete la frase diverse volte e ogni volta che la ripete è sempre più in lacrime.
Poi guarda me: «E tu?» mi dice in inglese? «Cosa vuoi? Non sai stare neanche in minuto lontano dal mio ragazzo?»
Volevo spiegarti. Ivan mi stava solo consolando. Ti giuro.
Daria scuote la testa, con aria incredula. «Non capisco se sei sincero... se ci credi davvero...»
Ero molto scosso per cose... Fatico a dirlo ad alta voce, balbetto molto. Cose che riguardavano mia madre.
Lei aggrotta le sopracciglia.
Mia madre, sai... è... morta, no, non riesco a pronunciare la parola dead, mi fermo sulla d per parecchi secondi, prima che Ivan abbia pietà di me e finisca la frase: «Sua mamma è morta quando Michele aveva tredici anni.» Dice Michele, non Misha.
«E quindi?» dice lei facendo spallucce e tirando su col naso. «Sono passati sette anni!»
Non so dire come mi sento. Una pugnalata al cuore forse farebbe meno male.
Lei forse capisce di avermi ferito con la sua indifferenza. «Scusa» dice. Sospira. «Dio, scusa. Sono una stronza.» Piange ancora.
Ivan si avvicina a lei, le tocca una spalla, lei gli spinge via la mano stizzita. Alla luce del lampione vedo che la guancia sinistra di Ivan è rosso fuoco per lo schiaffo.
«Non so perché ho deciso di rimettermi con lui» dice lei, in inglese. «Sono stupida a pensare che posso rivaleggiare con Misha.» Singhiozza. «Misha, Misha, Misha, Misha qui, Misha là, Misha ha fatto questo, ha detto quello, mi ha fatto il regalo più bello di tutti i tempi... Ti odio, Misha! Nenavizhu tibia!»
Quindi è questo che significa quella frase? Ti odio?
«Andate via. Tutti e due. Ho già chiamato un Uber.»
«Dasha...» Ivan le dice qualcosa in russo, lei gli risponde nella stessa lingua, sempre singhiozzante, e io capisco che li devo lasciare soli.
Torno verso casa, cercando di affrettare il passo sul vialetto d'ingresso, le loro parole incomprensibili che si perdono distanti.
[...]
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