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99. Il più bell'incontro

Il nuovo tassista non parla una parola d'inglese. 

Gli ho chiesto: «Do you speak English?»

«Little» mi ha risposto. Ma non è vero. Non lo parla.

«Do you know where this b-b-billboard is?» gli ho chiesto, mostrandogli la foto dall'Instagram di Anna. Sai dove si trova questo cartellone pubblicitario?

«Beauuuuutiful» mi ha risposto.

«Where is it?» ho insistito.

Mi ha guardato socchiudendo gli occhi.

«Where?» È un tassista, accidenti, lo saprà cosa significa la parola "dove"! 

Mi ha detto qualcosa in russo.

Allora gli ho chiesto di aspettare, mostrandogli il palmo della mia mano e sperando che capisca il gesto. 

Digito sul cellulare: "dizionario italiano russo", e si apre una casella dove inserire il testo direttamente su Google. Digito: "Dove si trova?" Mi appare una scritta in cirillico e sotto la traslitterazione: "Gde eto nakhoditsya?" Sarà corretto? Mi rifiuto di provare a pronunciarlo. Mostro lo schermo al tassista indicando la frase.

Lui annuisce.

Poi allarga le braccia e resta fermo.

Oltre che incapace di parlare inglese, mi sembra anche stupido. Gli rimostro la foto di Anna, poi passo alla schermata con la frase in russo.

Mi fa una domanda in russo.

«I don't speak russian!» sbotto esasperato.

In tutta risposta lui mi ripete la stessa frase, mi sembra sia la stessa frase, ma sillabandola molto, molto lentamente. 

Allora gli rispondo sillabando molto, molto lentamente: «Ai. Dont. Spik. Rascian.»

Il tassista borbotta. Prende il proprio cellulare. Digita qualcosa. Poi si rivolge a me e mi chiede: «Look for girl?» Cerchi ragazza?

«No!» Cioè, yes, ma non ha senso che glielo spieghi. «Looking for billboard!»

Digito "billboard" sul traduttore, e appare la scritta: "reklamnyy shchit". Gliela indico. Poi gli mostro la foto di Anna. «Where?» gli chiedo ancora.

«Ooooh!» esclama lui. Poi dice qualcosa in russo in cui mi sembra di udire le parole reklamnyy shchit. Scuote la testa. «No» dice. Cerca qualcosa sul suo cellulare e dopo qualche secondo mi dice: «I don't know where.»

Perfetto. Ho perlomeno capito che non sa dove si trova.

«In Saint Petersburg?» mi chiede. «Reklamnyy shchit beautiful girl in Saint Petersburg?»

«Yes! It's in Saint Petersburg!» gli dico. Si trova a San Pietroburgo. «It's...» Rifletto. Non era molto distante dalla strada famosa. «Nevskji Prospekt!» esclamo.

«Oh, da!» esclama lui. Fa per partire.

«No, stop!» gli dico. Stop lo capisce. Si ferma. È una parola abbastanza internazionale. 

Cerco di farmi capire a gesti. Allargo le mani e le muovo avanti indietro, mimando una grande strada. «Nevskji Prospekt. Da?»

Annuisce. «Da.»

«Ok. Nevskji Prospekt. Vroom vroom vroom...» Muovo le mani verso avanti per fargli capire che bisogna fare un pezzo di strada. «Then turn right.»

«Uh?»

Non ha capito. Digito "turn right", gira a destra, sul traduttore. «P-poverni napravo?» cerco di leggere.

«Pravo» ripete lui. Mi chiede qualcosa in russo. Ma quando lo capirà che il russo non lo parlo? Stavolta però è più rapido a reagire. Digita sul cellulare e mi chiede. «What direction Nevskji Prospekt? Vastòk? Zàpat?»

«I don't know where is Vastòk or Zapat! Ma che roba è?!»

Lui cerca ancora sul dizionario. «East? West?»

Oh. Già. È a doppio senso. E non lo so se stavamo andando verso est o verso ovest. Gli chiedo per l'ennesima volta di aspettare e cerco su Google Maps dove si trova la strada rispetto all'aeroporto, poi rispondo con sicurezza. «East!»

«Vastòk!» Esclama lui allegro. Sembra aver capito.

Si parte. Speriamo bene...

Dopo un po' di traffico entriamo finalmente sul corso Nevskji. Il tassista me lo annuncia a voce. Siamo nella direzione giusta? Non saprei... 

A un certo punto riconosco un edificio. «Yes!»

«Pravo?» mi chiede indicando una strada a destra.

«Niet» gli rispondo. Non ancora. Era più avanti. Forse la prossima? O quella dopo ancora?

«Try here» gli dico. «Right! P-p-pravo! Here!» Indico. Sì, mi sembra che era proprio questa strada. 

Forse.

Ma poi? Poi Ivan aveva preso altre svolte...

Ivan!

«Stop!» ordino al tassista. Lui si ferma. Gli faccio cenno di aspettare ancora, mentre faccio partire una chiamata a Ivan.

Ti prego, rispondi, ti prego...

«Cosa c'è?» Ivan risponde.

«Oh, g-g-g-gr...»

«Cosa c'è!» È seccato.

«Mi spieghi dove si t-t-trova il cartellone pubblicitario di Anna?»

Resta qualche secondo in silenzio. «Eh?» dice infine.

Gli spiego la situazione. So che lei è da quelle parti perché ha pubblicato una foto su Instagram, quindi ho preso un taxi, ma il tassista non parla inglese, e sto usando un traduttore online e il tassista mi dice cose che non capisco tipo pravo, vastòk, e mi parla in russo molto lentamente pensando che io capisca, e non so neanche dove sto andando, e...

Ivan ride. «Misha, dimmi verità. Hai fatto apposta di farmi ridere così non sono più arrabbiato?»

«Non è che ho t-tanta voglia di ridere, adesso.»

«Passami tassista.»

Glielo passo. Il tassista ascolta molto attentamente e annuisce mormorando: «Da... da... da...» Poi mi ripassa il cellulare sorridendo e dicendomi altre cose in russo.

«Ti ha detto che ha capito tutto e ora ti porta là» mi traduce Ivan, appena avvicino il ricevitore all'orecchio.

«Grazie p-per la traduzione.»

Il tassista intanto parte.

«Fammi sapere che riesci a trovarla» mi dice Ivan.

«Sì. Grazie. Grazie per l'aiuto, non avrei s-s-saputo...»

«Non importa. Adesso devo andare, sto allenando in palestra.»

«Ok, scusa p-per il disturbo.»

Mi saluta e chiude la chiamata.

Il viaggio non è molto lungo, in cinque minuti siamo lì, e la vedo subito: Anna è seduta a terra, sul marciapiede, la schiena appoggiata al palazzo dove campeggia il cartellone pubblicitario. Sembra mezza addormentata. Scendo dal taxi, chiedendogli come sempre di aspettare con un gesto della mano, lui rimane lì, parcheggiato. «Anna...»

«Sono io, quella...» dice indicando stancamente sopra di sé. «Ehi...» apostrofa un passante. «I'm that girl!»

Il passante dice qualcosa ridendo.

Anna è ubriaca. Ubriaca fradicia. Non so come abbia fatto a scappare di casa, venire qui proprio sotto il suo cartellone e ubriacarsi (non so in quale ordine). Io non ci sarei mai riuscito in così poco tempo.

«Anna, vieni con me...»

Lei si mette a piangere. «Perché? Perché non posso avere una storia d'amore?»

La tiro su in piedi. «Ehi, I'm that girl!» dice a un'altra persona, una donna. Quella sembra infastidita, si allontana da noi a passetti rapidi. Accompagno Anna al taxi, la faccio salire.

«Dove mi porti?» biascica.

«A casa di Andrej e Ivan.» Apro la bocca per dirlo al tassista e mi rendo conto di non sapere l'indirizzo. «Oh... Ehm...»

Lui mi dice qualcosa in russo e parte. Eh? Cosa? Aspetta un attimo! Dove sta andando?

«Anna, non so dove ci sta portando quest'uomo...» sussurro. Poi però rifletto: è evidente che gliel'ha detto Ivan, quindi o ci sta portando all'hotel, o a casa di Ivan. In entrambi casi mi va bene (anche se preferirei casa di Ivan, perché vorrei parlare sia con Andrej che con Ivan).

Lei ridacchia. «Non voglio che Andrej mi vede così... Mmm... mi viene da vomitare.»

«Stop!» grido al tassista. «Puke! Puke alarm!» grido. Lo saprà che puke significa vomito? Dubito. Però si ferma lo stesso, e io apro la portiera appena in tempo per far vomitare Anna sulla strada.

Anna tira su il busto. «Andiamo» dice. Ha la bocca sporca di vomito. Dio, che schifo!

«S-sicura che non devi vomitare di nuovo?»

«S-sto meglio. Partenza!» Ridacchia e poi piange, nello spazio di pochi secondi.

Dovrei pulirla. Ma mi disgusta al punto da far quasi vomitare anche me. Non potrei mai toccare il suo vomito, nemmeno attraverso della stoffa.

Chiudo gli occhi. È Anna. La mia migliore amica Anna. Ha la bocca sporca di vomito e non se ne sta rendendo conto. Se il vomito resta lì si secca e diventa ancora più disgustoso, e poi magari Andrej la vede in questo stato e fa schifo anche a lui. Devo aiutarla.

«Hai dei fazzoletti in borsa?» le chiedo.

Me la porge. Cerco all'interno e tra mille cianfrusaglie li trovo. Ne prendo uno. Dio, che schifo. Mi allontano da lei col busto, allungo la mano e le pulisco la bocca.

«Grazie, Misha...» mi dice.

E adesso dove lo butto questo fazzoletto? Non posso gettarlo fuori dal finestrino, non posso lasciarlo al povero tassista, che nonostante le incomprensioni linguistiche è stato tanto gentile con me, e non posso metterlo in tasca, altrimenti il vomito si spiaccica. Devo tenerlo in mano. Che schifo, Dio che schifo! Fatti forza, Michele, fatti forza. Non pensare al fatto che è roba uscita dal suo stomaco, non ci pensare.

La destinazione è casa di Ivan. C'è lui che ci aspetta, nel parcheggio davanti al tennis club, insieme a sua madre. È ancora in tenuta ginnica e molto sudato.

Pago il tassista, che si prende praticamente tutti i soldi che erano rimasti. La madre ci viene incontro e accudisce Anna, la porta dentro casa. Ivan dice qualcosa al tassista, chiacchierano sorridendo, si salutano in modo amichevole.

«Hai un cestino dove posso b-buttare questo fazzoletto?» È la prima cosa che dico a Ivan, appena ha finito di parlare col tassista. E poi: «G-grazie di avermi aiutato col t-t-taxi.»

Lui mi porge la mano, serio. «Dammi fazzoletto» mi dice.

«C'è del vomito di Anna, dentro.»

«Ew...» Fa una smorfia. «Sto attento. Dammi.» Si avvia verso l'ingresso della casa. Ma lo fermo.

«Ivan... d-d-devo assolutamente p-parlare con Andrej» gli dico. «È in casa?»

Si gira di nuovo verso di me. Un movimento lento. «È in campo che allena. Non so se vuole parlare con te. E poi... non devi allenare anche tu?»

Annuisco. «Sì. Ma se non metto subito in chiaro questa cosa imp-p-pazzisco.»

Sospira di nuovo. «Ok, aspetta che butto questo e andiamo» mi dice. Entra in casa, esce dopo una manciata di secondi, mi fa cenno di seguirlo e si avvia verso i campi.

«Tu non d-d-dovresti fare la doccia?» gli dico, seguendolo.

«Faccio dopo.»

Mi conduce in un campo in fondo al club, un sintetico, dove Andrej sta facendo sparring con il suo allenatore, che gli rimanda le palle giocando in piedi.

«Cosa vuoi?» mi dice Andrej, appena ci vede.

«Andrej...» Come posso dirglielo? «She is in love with you.» È innamorata di te. Semplice. Chiaro. Vero.

Andrej mi fissa in silenzio per qualche secondo, serio come non mai. «Non ci credo. Vattene, devo allenarmi.»

«Si è ubriacata perché era disperata!»

«È vero» conferma Ivan. «L'ha portata a casa e quasi non si reggeva in piedi.»

Andrej fa spallucce. «Non so perché si è ubriacata. Forse voleva fare festa.»

«Andrej, ti prego» lo imploro. «Lei ci tiene tanto a te, le piaci tanto. Non è successo niente, ieri sera, le ho chiesto di dormire con me perché...»

«E allora perché eravate tutti e due in mutande!? E tu avevi persino le mutande al contrario! Non sei neanche riuscito a rivestirti bene! Cazzo!»

«Ok, non voglio ascoltare. Torno tra dieci minuti» dice l'allenatore di Andrej, alzando le mani e dirigendosi verso l'uscita del campo.

Aspetto che l'allenatore si allontani, prima di parlare. «Eravamo in mutande perché a casa vostra fa caldo. E io dormo sempre in mutande. E le indosso sempre al contrario perché mi da fastidio la cucitura.»

Andrej storce un sopracciglio. «Huh?»

«È vero» commenta Ivan. «Misha ha sempre le mutande al contrario.»

Andrej mi guarda per qualche secondo a bocca semiaperta e con le sopracciglia aggrottate. «Ok... ma non è una buona scusa.»

«Lei è innamorata di te! Le piaci tantissimo!»

Andrej non risponde più.

E allora decido di rivelargli una piccola frase che mi ha detto Anna. È una cosa privata, lo so, ma forse se gliela dico lo convinco. «Anna mi ha detto che sei la cosa più preziosa del mondo, per lei.»

Andrej guarda a terra. Stringe la bocca, scuote la testa. «Non inventarti cazzate, per favore.»

«Me lo ha detto davvero! Mi ha detto che aveva paura di baciarti, era terrorizzata, perché c'era in gioco la cosa più preziosa che avesse mai avuto.»

Andrej scuote la testa. Ma sembra toccato, in qualche modo, dalle mie parole.

Io mi rivolgo a Ivan. «Tu lo sai che non sono un tipo romantico. Non mi sarei mai potuto inventare una cosa simile!»

«Da, pravda» dice Ivan. Poi guarda il fratello e aggiunge altre parole che non capisco.

Andrej rimane in silenzio, con la schiena un po' sprofondata nella sedia a rotelle, la testa incassata nelle spalle, rivolta alle sue gambe, i capelli biondi a coprirgli il viso. «Perché è venuta in camera tua?» dice infine, senza alzare lo sguardo.

«Perché voleva raccontarmi che ti ha baciato. Voleva raccontarlo a me, perché sono il suo migliore amico. E poi è rimasta perché io ero triste, e l'ho implorata di dormire con me perché non volevo stare solo. Noi dormiamo spesso insieme e non facciamo niente.»

Andrej prende un grosso respiro.

«Mi devi credere, non abbiamo fatto niente. Tu le piaci, è innamorata, mi ha detto tante cose... Non voglio dirti tutto quello che mi ha detto, ma non l'ho mai vista così felice come era felice ieri sera quando mi ha detto di averti baciato.»

Andrej alza finalmente lo sguardo. Mi scruta in silenzio, coi suoi occhi blu scuro e la sua classica espressione dura e indecifrabile.

«Andriusha, non fare lo stupido» interviene Ivan. «Tu sei innamorato, lei è innamorata... che cazzo ci fai ancora qui?»

L'espressione sul viso di Andrej cambia. È come se la roccia in cui è scolpita si sgretolasse, e vedo in lui un attimo di debolezza, di sofferenza mista a gioia. Abbassa la testa. «È in casa? Anna è in casa?»

«La mamma le sta facendo un tè forte, credo.»

Andrej fa uno scatto. Con la sua sedia a rotelle, schizza fuori dal campo e fila come un razzo sulla stradina in lieve discesa che va dai campi alla casa di Ivan. Io e Ivan lo seguiamo correndo, va davvero veloce! Quando arriva sulla porta di casa, si ferma facendo un testacoda, mi guarda ed esclama: «Cazzo, ho dimenticato le gambe!» Si gira verso Ivan e gli dice qualcosa in russo, Ivan sbuffa e corre di nuovo verso il campo, immagino a recuperare le protesi di Andrej.

Andrej entra in casa con la sedia, io lo seguo fermandomi all'ingresso. «Mama!» grida lui. Lei appare dall'interno della casa. 

«Andrej Reshetnikov!» esclama arrabbiata appena lo vede. «Mi righi il parquet con quelle ruote sporche!»

Andrej guarda me, poi la madre. «Dov'è Annushka?»

«In cucina che piange.»

Andrej spinge la sua sedia e sparisce all'interno della casa. La madre lo guarda scuotendo la testa. «Devo immaginare che vi siete chiariti?» mi chiede.

«Penso di sì» le rispondo. «Grazie per i soldi di prima» aggiungo. «Li ho finiti quasi tutti perché ho fatto un po' di giri, ma giuro che domani...»

Mi interrompe con un gesto della mano. Entra Ivan, proprio in quel momento, e ha con sé le protesi di Andrej. Chiede alla madre qualcosa e sento che pronuncia il nome di "Andriusha". Lei gli risponde indicando la zona della casa dove è sparito.

«Vabbè, non gli servono adesso» commenta Ivan in italiano. Appoggia le protesi all'ingresso, poi mi porge delle ciabatte e mi fa cenno di entrare in casa.

«Ho lasciato le valigie in camera» gli dico. «Scusa se non sono ancora andato via... D-devo...?» Non riesco a dirlo.

«Cosa vuoi dire? Finisci domanda» sbuffa.

Ho paura a chiederglielo. E sento che forse è fuori luogo. Ma glielo chiedo lo stesso. «D-d-devo a... ahhh... ancora andare via?» 

C'è un lungo momento di silenzio. Ivan si mordicchia un labbro. «Sì. Io sono ancora arrabbiato. Non ho cambiato idea.»

«Ma prima al t-telefono mi hai detto... Hai detto t-tipo... Mi hai f-fatto ridere e non sono più arrabbiato con te.»

Ivan sospira. «Non puoi pensare che mi passa così, solo perché mi fai ridere un minuto.» Chiude gli occhi e scuote la testa. «Tu... tu... Forse arrabbiato è parola sbagliata. Non sono arrabbiato. Cioè, sì, sono arrabbiato, ma con me, non con te. Sono arrabbiato con me che faccio sempre, sempre errore. E... ok, forse sono arrabbiato anche con te, anche se so che tu non fai apposta. Ma non capisci? Non capisci quanto mi ha fatto male come hai comportato ieri sera? Quanto mi ha fatto male come mi guardavi? Sembrava che stavi per vomitare! Io ho capito che tu hai avuto shock perché  non sapevi, e mi dispiace che hai avuto shock, ma mi hai fatto male. Tanto male!» Esclama qualcosa in russo, qualcosa che dal tono sembra un'imprecazione.

«Mi d-dispiace...»

«Lo so che ti dispiace. Ma tu mi fai male. Lo so che non fai apposta, ma mi fai male. Scusa che ripeto sempre la stessa cosa. Non voglio stare vicino a una persona che mi fa male. Quindi adesso vai su, prendi valigia e vai via. Per favore, vai via.» Mi dà le spalle.

«Cosa significa?» gli chiedo. «N-non... non vuoi p-più essere nemmeno mio amico?» Sento un nodo in gola. «Mai più?»

Sbuffa. «Non essere bambino, Misha...»

«Secondo me il p-problema è questo» aggiungo. «E l'avevamo già d-detto, no? Io sono contento di essere t-tuo amico, ma ogni volta che... c-che succede qualcosa di diverso finisce sempre male p-per colpa mia. Se restiamo solo amici siamo c-contenti entrambi, no? Perché non possiamo essere solo amici?»

Ivan mi sta ancora dando le spalle. È immobile. Cosa sta pensando?

Faccio un passo verso di lui, un passo deciso, e gli prendo la mano. Ivan sussulta, e sussulto anch'io. 

È la sua mano. È calda e callosa. Quella mano, il dito che ieri ho assaggiato, e che poi lui ha...

Chiudo gli occhi. Il pensiero mi disturba ancora, ed è una sensazione che mi ferisce. Perché devo sempre avere pensieri sgradevoli nei momenti più sbagliati? Vorrei essere una persona normale, tirare Ivan a me e baciarlo sulla bocca. Ma solo pensare di farlo mi causa altro disgusto. «Vorrei c-chiederti d-di perdonarmi, ma non so se ha senso chiedertelo.»

Ivan resta ancora in silenzio.

«Perché forse hai ragione...» gli lascio la mano. «Io non voglio c-che tu sia t-triste a causa mia. Io vorrei che tu fossi felice a c-causa mia. Io vorrei v-vederti sempre come quando ti ho detto che sarei venuto qui. O quando ti ho regalato l'orologio Lego.»

Ivan resta in silenzio qualche secondo, vedo le sue spalle alzarsi e abbassarsi lentamente, come se stesse sospirando. Ma non fa rumore. E infine parla. «O quando hai pagato la clinica di Raf. O quando hai detto che volevi fare un castello solo per farmelo rompere...» Si gira verso di me. «O quando mi hai salvato da infortunio e mi hai fatto smettere di giocare la partita a Montréal, o quando mi guardi mentre suono la chitarra e tuoi occhi neri brilla che sembra che hai appena scoperto un nuovo universo, o quando...» Il suo sguardo si perde per un attimo nel vuoto. Ma è solo un attimo. Si fissa su di me, serio, un po' corrucciato. «O quando mi dici che mi vuoi fare felice.» Accenna un sorriso. «Mi fai felice se mi dici che mi vuoi fare felice.»

Mi scopro a sorridere anch'io. «Basta c-così poco?»

Mi punta un dito sullo sterno. È quel dito. «Non prendere le cose troppo facile...» Ridacchia. Si fa di nuovo serio. «Però basta» dice. «Solo amici, Misha, solo...» Si morde il labbro. «Quante volte ho detto questa cosa?»

«Io ho sempre pensato che le relazioni sentimentali fossero una c-complicazione.»

«No» risponde lui. «Questa relazione è una complicazione. Questa! Tu sei una complicazione, tu!» Mi dice in tono astioso. Poi sospira, e mi sorprende. «Non posso mandarti via. Non voglio. Se penso che vai via... Sono triste se penso che vai via. E tu non vuoi che io sono triste, da?» Annuisce, mentre il mio cuore trabocca di speranza.

«Resti qua» prosegue. «Mangiamo insieme. Se vuoi ti porto a vedere Piter di nuovo. Ma di sera io in camera mia, tu in camera tua. Ci alleniamo, se vuoi, e poi giochiamo il torneo.» Si avvicina a me e mi guarda negli occhi. «Tu vinci il tuo tabellone, io vinco il mio, ci incontriamo in finale, e io vinco.»

«No, vinco io» ribatto, felice.

Lui scuote la testa. «No, non posso farti vincere. È il mio torneo. Questo è il mio torneo che nessuno mi vuole dare. Il direttore si inventa scuse di burocrazia per non farmi andare, non mi pagano niente, non mi fanno pubblicità, è come se non esisto, ma questo è il mio torneo della mia città, e io vinco e li mando tutti fanculo, al direttore, alla federazione, alla stampa russa, a tutti! Alzo il trofeo davanti a tutti, e gli dico, ho vinto il mio torneo, nella mia città, anche se voi non volevate che lo vincevo!» È così fiero, mentre pronuncia queste parole, e così determinato, che mi sento arrendevole, e quasi non mi dispiace la prospettiva di perdere contro di lui.

Ma è solo un attimo. Perché non voglio dargli un incontro facile. E glielo dico. «Dovrai aspettare ancora, p-perché vincerò io.»

«Non voglio che mi fai vincere facile. Voglio che giochi la più bella partita della tua vita.»

«Si dice incontro.»

«Sì. Il più bello incontro.»

«Lo sarà.» Gli porgo la mano, lui me la stringe.

Mi sorride. Gli sorrido anch'io.

Note note note

Pace fatta! Evviva! Visto? Stavolta non ho fatto durare troppo a lungo le tensioni. Certo, la situazione non è delle più ottimali tra Misha e Vania, lo so che voi volete la lovve stori (cit. Claudio), ma ci accontentiamo, via. 

E poi tra Anna e Andrej la ship è finalmente andata in porto! Yeee! Twoot! Twoot! Siete contenti? Non sono bellini quanto sono innamorati? Per festeggiare, vi regalo un'immagine molto sdolcinosa, un cuoricino glitterato e sbrilluccicante, tutto cosparso di tante piccole stelline, proprio come dovrebbe essere questo capitolo.

(Mi sono proprio impegnata a trovare l'immagine più brutta, low-fi e web 1.0 dell'intera internet, apprezzate lo sforzo kitsch)(cioè vi dico solo che l'ho salvata sul pc con il nome: cuore-brutto.gif).

E ricordate che il prossimo capitolo arriva venerdì (giovedì sera)!

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