94. San Pietroburgo
Ivan e Andrej sono venuti a prenderci all'aeroporto con una Peugeot guidata proprio da Ivan. «Scusate per macchina orrenda, ma è il mio sponsor. Non dite a Mister Peugeot che ho detto orrenda.»
Non sapevo che Ivan avesse la patente. Ha insistito per farmi sedere al posto del passeggero, accanto a lui, mentre Andrej e Anna si sono messi dietro.
Ivan ha un colore di capelli nuovo di zecca (fatto ieri, ci ha tenuto a precisarlo), un rosa chiaro ma molto intenso, tendente al violetto. Dice di essersi stufato dei capelli bicolore.
Non credo di averlo mai visto tanto su di giri. Sembra vibrare dall'emozione. Ci ha sommerso di parole dal primo istante in cui ci ha visto, non ha lasciato me o Anna aprir bocca. E oggi ti porto qui, domani là (nomi di luoghi che ho già dimenticato), poi ci alleniamo, poi ti faccio vedere il club, devi vedere questo, questo e quest'altro (altri nomi di luoghi che ho dimenticato), non avremo tempo di vedere tutto, ma ti devo portare in tutti i miei posti preferiti di Piter!
«Non capisco una parola di quello che sta dicendo» ha commentato Andrej a un certo punto, rivolto a me, «ma scommetto che ti sta annoiando a morte.» È sempre il solito Andrej, scherzoso in modo burbero. Appena arrivati in aereoporto Anna lo ha salutato accennando la canzone: «Whoooooo lives in a pineapple under the sea?» E lui le ha risposto, serissimo, parlando: «Spongebob Squarepants.» Anna ha riso molto per questa risposta. Poi, dopo un po', in macchina, ho sentito Andrej mormorare: «Sono contento che hai imparato la sigla di Spongebob, così la prossima volta che mi ubriaco la canti anche tu.»
Mentre attraversiamo la città, Ivan già comincia a farci da guida turistica. «Questo è il famoso Nevskij Prospekt!»
«Famoso?» chiedo.
«Non hai mai sentito parlare? Una delle strade più famose del mondo! Guarda che bello!»
«È larghissima» è tutto ciò che mi viene da dire. Ma in realtà è anche bella, a giudicare da quel poco che riesco a vedere dal finestrino. È circondata da splendidi edifici, che a tratti mi ricordano un po' Trieste. Solo che mi sembra idiota paragonare San Pietroburgo a Trieste, quindi mi tengo il commento per me. Non sono un esperto di architettura, meglio non fare figuracce.
«C'è una piccola sorpresa per te» dice a un certo punto Andrej. Mi giro, e noto che stava parlando con Anna.
«Piccola... mh!» commenta Ivan.
«Tipo un regalo?» chiede Anna.
«No» risponde secco Andrej. Poi guarda fuori dal finestrino. «Ecco. Guarda là.»
Anna si gira e spalanca la bocca.
Guardo anch'io. E sul lato di un alto palazzo vedo un poster gigantesco con una foto di Anna in reggiseno, e una scritta in cirillico sotto. L'avete messa voi quella foto, lì? chiedo a Ivan.
«Ma no, scemo! È un poster pubblicitario di Intimissimi!» esclama Anna. «O mio Dio.» Si sventola con la mano. «È dell'ultimo servizio fotografico che ho fatto. Ti ricordi? Milano?» Deglutisce. «Mi avevano detto che le mie foto le avrebbero usate solo per il catalogo. Mi devono pagare dei soldi in più! Che storia è questa?»
«Sei proprio una donna d'affari» commenta Andrej.
Anna è ipnotizzata dal cartellone. Lo guarda finché non ci passiamo sotto, e si gira per continuare a guardarlo dal lunotto. «Wow...» commenta. «È la prima volta che mi usano come poster girl! Ma credo l'abbiano fatto solo qui in Russia, mi risulta che abbiano usato foto di altre ragazze, in Italia e negli altri paesi.»
«Forse pensano che la tua faccia e il tuo corpo possano piacere alle donne russe che comprano questa roba» dice Andrej.
Anna annuisce, pensosa. «Se mi ci portate di nuovo, faccio una foto e la metto su Instagram» dice. Ma non riesco a capire se sia contenta o seccata. Non riesco a leggere le sue emozioni.
«Ah, a proposito di Instagram...» dice Andrej. «Grazie tante per quella foto... I miei amici mi stanno prendendo in giro da due settimane!»
Si riferisce alla foto che ci ha scattato Ivan, quella in cui io, Anna e Andrej dormiamo uno addosso all'altro, io con le protesi di Andrej in grembo. Anna l'ha pubblicata sul suo Instagram scrivendo la seguente didascalia (ovviamente in inglese): Indovinate chi: a- ha festeggiato troppo; b- si è allenato troppo; c- è stanco perché ha fatto da babysitter agli altri due. Quando ho fatto notare ad Anna che non aveva fatto da babysitter a me, ma solo ad Andrej, mi ha risposto che l'ha scritto così perché faceva più ridere. A ogni modo, la foto è piaciuta davvero moltissimo, è stata la sua immagine che ha ricevuto più cuoricini, le ha fatto guadagnare parecchi nuovi follower, ed è stata condivisa sui siti sportivi di mezzo mondo.
Arriviamo finalmente a casa Reshetnikov.
Il tennis club/abitazione di Ivan non dista molto dal centro, ma si trova in un quartiere residenziale fuori dalla zona più turistica. È davvero grande! Noto già dall'ingresso che ci sono diversi campi indoor e outdoor, in terra e duro. L'abitazione è una villa moderna che affaccia su alcuni dei campi outdoor. Ha quel tipico stile architettonico da abitazione moderna lussuosa che a me non piace molto, simile a quello della casa di Daniele a Miami: molto minimale e squadrato, a blocchi irregolari. Ma mentre la villetta di Miami sfoggia grandi vetrate a tutta parete, la casa di Ivan ha finestre piccole e strette. E Ivan attira la mia attenzione proprio su una delle finestre. «Lì c'è la mia camera!» dice, indicando il lato della casa che dà sui campi. Ma di finestre ce ne sono parecchie, e non so a quale si stia riferendo.
Ci accolgono in cortile i genitori di Ivan, la madre abbraccia calorosamente sia me che Anna, il padre ci stringe la mano, io consegno loro un regalo per ringraziarli dell'ospitalità (è una cassa del vino di mio nonno, è stata Anna a suggerirmelo) e appena entrati nell'abitazione, i Reshetnikov ci porgono delle ciabatte.
«Togli scarpe» mi ordina Ivan. Anche nell'appartamento a Londra mi aveva fatto mettere in ciabatte. Be', non mi dà fastidio, la trovo una pratica igienica.
E mentre infilo le ciabatte, una sorpresa. Una sorpresa bellissima! Un cane! Un cane gigantesco, un Husky!
«Oddio, non avevo pensato che avrei conosciuto il tuo c-c-c-cane!» esclamo. Lascio cadere le scarpe a terra e mi avvicino.
Ma il cane è diffidente.
«Si chiama Muchtar. Non è tanto sociabile con gli estranei» mi spiega Ivan.
Allungo la mano verso Muchtar, mostrandogli il dorso, lui annusa, e si ritrae, scappa all'interno della casa.
Be', mi guadagnerò la sua fiducia con calma.
Chi invece sembra darmi subito confidenza è un gatto. Un gatto tigrato grigio e nero.
A me non piacciono i gatti. Cosa vuole da me? Miagola e si strofina contro la mia gamba.
«Piaci a Mursik!» dice Ivan allegro. «È il gatto più simpatico che abbiamo.»
«Ah già, è vero, n-ne hai più di uno...»
«Abbiamo tre! Lui è Mursik, poi c'è Elvis che ho chiamato così perché ha capelli con...» fa un gesto mulinante davanti alla fronte. Frangia? Cosa sta cercando di dire? «E Zlata che è una ragazza con pelo rosso. Senti! Senti come... mmm... come si dice in italiano purr?»
«Fa le fusa» dico.
«Fa le fuse?»
«No. Le fusa. È un p-p-plurale in a. Le fusa.»
«Vieni che ti mostro casa!» esclama Ivan. Lasciamo Andrej e Anna all'ingresso, a chiacchierare con la madre.
La casa di Ivan è molto spaziosa, è persino più grande del casale di mio nonno a Capriva, ed è arredata in stile moderno, a linee squadrate ed essenziali. C'è molto bianco, con qualche tocco di rosso e nero nei mobili, ci sono quadri di arte astratta alle pareti. Ivan mi mostra un salone, una sala da pranzo un po' più rustica del resto della casa, con mobili scuri e tanto legno, dove qualcuno ha già iniziato a imbandire il tavolo, e una saletta più piccola con televisione e divani arredata nello stesso stile della sala da pranzo: sembra una piccola taverna e mi trasmette una bella sensazione confortevole.
Finiamo il giro in una bellissima libreria, di nuovo in stile moderno: le mensole di legno chiaro arrivano fino al soffitto, e sono protette da ante vetrate a giorno. Ci sono sia libri, caterve di libri con costolette in cirillico che sembrano provenire da tante epoche diverse, sia tantissimi dischi in vinile. «È collezione LP di mio papa» dice Ivan. «Non toccare, lui è molto geloso!» Mi indica un giradischi, su un mobiletto stereo accanto a due poltrone in velluto bordeaux. «Quando ero piccolo passavo ore a sentire dischi lì sul record player... come si dice in italiano?»
«G-g-giradischi.»
«Giradischi» ripete lui. «Parola facile! Disco gira, gira disco, ahah! Molto pratico.» Sorride guardando l'oggetto. «È stereo Hi-Fi molto costoso» mi spiega. «Ma io da piccolo mi piaceva mettere il disco senza il volume e ascoltare rumore.»
«Quale rumore?»
«Rumore di disco di... vedi questo piccolo needle? Come si dice needle?»
«Ago.»
«Ago. Ok. Questo ago corre su disco, su righe del disco, e nelle righe del disco c'è waveform, forma di onda, di suono. Da? Capisci? E se tu senti vicino con orecchio,» Ivan si accuccia sul giradischi e mette la mano all'orecchio, come se stesse ascoltando, «si sente piccolo suono che poi quando metti in stereo diventa il suono grande. È magico!» Lo dice come se stesse davvero descrivendo un incantesimo, e ad ascoltarlo sembra magico anche a me. Una microscopica onda incisa su un disco! Come è possibile che riesca a riprodurre tutti quei suoni?
Mi mostra la camera in cui dormirò e il bagno che potrò usare. Abbiamo una stanza ciascuno, io e Anna. Non ho insistito sul dormire nella stessa stanza con lei, in fondo sono ospite di questa casa, meglio non lamentarmi di ciò che mi offrono. Lascio le mie borse accanto al letto, e il giro finisce in camera di Ivan.
Resto a bocca aperta per quanto è bella. È così... così Ivan! Non saprei trovare un altro aggettivo. È diversa da tutto il resto della casa.
C'è molto disordine, ovviamente, con vestiti e oggetti vari sparsi in giro. Le pareti sono tappezzate di poster e foto, e per tappezzate intendo dire che sono completamente ricoperte, non c'è un angolino libero, dal pavimento al soffitto, che è dipinto di azzurro.
C'è una libreria di legno grezzo che straborda di libri, giocattoli, soprammobili di vario genere, trofei, palline da tennis, ci sono talmente tanti oggetti che non posso nemmeno cominciare a esaminarli. Sull'ampio letto e sulla scrivania ci sono dei pupazzi di peluche. Ivan me li presenta uno a uno, chiamandoli per nome e dicendomi da quanto tempo stanno con lui.
Mi metto a guardare le foto. Ci sono foto di Ivan a varie età insieme a persone che non conosco, coetanee e non, un paio di foto con Raffaele e alcune con Andrej. Ce n'è una in cui erano entrambi bambini, Ivan avrà avuto sei anni. Sono al mare, hanno appena costruito un gigantesco castello di sabbia e non posso evitare di notare che Andrej aveva ancora le gambe intere.
Ci sono poi poster di gruppi e cantanti vari, e anche di tennisti. Della vecchia guardia russa vedo Kafelnikov, Safin e Davidenko. C'è una bella foto di Molina da giovane che fa un rovescio, e qualche giocatore dallo stile bizzarro, che non mi stupisce Ivan apprezzi: George Bonnefille, Ernst Gulbis, Derren Black.
E quindi la noto. C'è una mia foto.
Un posterino preso da un giornale, con una scritta in cirillico che a naso credo sia il mio nome. Riconosco il luogo: l'indoor di San Pietroburgo. L'anno in cui l'ho vinto. Sedici anni e otto mesi. A rivedermi mi sembro così piccolo. I miei lineamenti erano più infantili, quasi non avevo barba, ed ero magrissimo, almeno quindici chili di muscoli in meno.
«Ah, questa è tipo ultima che ho messo. C'era foto di Andrej Makarevich prima!»
«Chi è Andrej Makarevich?»
«Cantante russo famoso... è stata difficile scelta tra lui e quella foto là di David Bowie, perché ci sono già cinque foto di David Bowie. Però non si può togliere foto di David Bowie. Mai!»
«Bowie non era il c-c-cantante della tua ex canzone preferita?»
«Ti ricordi! Bravo!»
Lo guardo, questo David Bowie. Che tipo strano. Tutto truccato e con un viso dai lineamenti non comuni che mi ricordano un po' quelli di Ivan. Cioè, non gli somiglia, ma anche Ivan, come lui, è un po' spigoloso. E anche Ivan, come lui, si concia in maniera bizzarra.
È stiloso. Non uso mai questo aggettivo, ma mi sembra appropriato in questo caso.
Anche Ivan è stiloso. Ha uno stile. Uno stile inconfondibile. Uno stile che applica a qualsiasi cosa. Ivan prende una stanza, una comune stanza di una comune casa e la ivanizza, la fa diventare sua. Ivan prende i suoi capelli, i capelli con cui è nato e li ivanizza colorandoli come la fantasia gli suggerisce. Ivan gioca a tennis, e ivanizza il gioco del tennis, lo fa diventare suo: brutto, unico, inconfondibile.
«Cosa pensi?» mi chiede.
«Che p-p-prima o poi ivanizzerai anche me.»
«Prima o poi... cooosa?»
Scrollo la testa. «Niente. St-t-tupidaggini. La tua camera è davvero mmmmolto bella.»
«Non hai visto la cosa più bella!» esclama. Si dirige alla finestra, la apre e mi fa cenno di avvicinarmi. Vuole farmi vedere i campi!
Visto dall'alto, il tennis club fa proprio una bella impressione e sembra ancora più grande. Noto che in fondo a tutto c'è persino una piscina, che sta venendo usata proprio in questo momento. «È riscaldata» mi spiega, quando me ne stupisco: oggi c'è il sole, sono le quattro e siamo entrambi in maglietta, ma non fa abbastanza caldo da poter fare un bagno all'aperto.
Anche il campo sotto la finestra di Ivan in questo momento è occupato.
«Senti che bello suono... Tch... tch...» Fa schioccare la lingua a ritmo con i colpi dei tennisti, due signori sui sessanta che stanno giocando quasi tutto in slice (tipico dei vecchi). «Sai, prima che cominciavo a giocare a tennis, avevo camera più grande che stava su altra parte di casa, con finestra a nord, poi però mi sono innamorato di suono di pallina e ho preso questa camera. Così tutte le estate mi sveglio con tch... tch... tch... è bellissimo, vero?»
Sorrido. Io lo troverei irritante, ma è bellissimo che lui lo trovi bellissimo.
«Vanjaaaa! Andriushaaa!» È la madre di Ivan che ci chiama. Aggiunge qualcosa in russo.
«Andiamo!» mi fa Ivan. «È pronto il pranzo!»
«Il p...» No, è chiaramente un errore di traduzione. Sono le cinque! «La merenda?» azzardo.
Ivan è già uscito dalla stanza. «Ma no! Pranzo! Lunch! Come on!»
Gwen non ci ha seguiti in Russia, si è presa due settimane di vacanza, mangerò sempre con Ivan. Spero che gli orari dei pasti non siano sempre così assurdi!
Usciamo dalla stanza, ma Ivan si ferma di botto in corridoio, e si gira verso di me. «Ah... una cosa importante. Oggi devi fare un brindisi.»
«P-posso farlo con l'acqua» rispondo prontamente.
«No» risponde lui, altrettanto prontamente. Poi sospira. «Papa ci tiene tanto e tu sei un ospite importante. Ho già detto a mama e papa che tu non bevi mai, quindi uno solo, e se poi insiste ancora gli dico io che ti lasciano in pace ok? Dai. Non è niente. Sicuro ti fa schifo, ma bevi tutto intero come se è una medicina, ok?» Mi fa l'occhiolino. «E se riesci prendi sul ridere!»
Lo seguo un po' titubante al piano inferiore, e nella sala da pranzo ciò che si presenta davanti ai miei occhi è effettivamente un pasto principale, un pranzo o una cena. Rivivo per un attimo la sensazione di straniamento che ho vissuto alla festa per lo Slam di Andrej, e spero che non si ripeta un pasto pomeridiano lunghissimo come quello.
C'è Anna, in piedi davanti alla tavola imbandita, e anche lei ha un'espressione perplessa in volto. «Non è un po' presto per la cena?» mi sussurra.
«Ivan l'ha chiamato pranzo.»
«Ah.»
Non mi sembra educato lamentarmi, ci sediamo, quindi, i commensali cominciano a prendere dai vassoi degli antipasti e Ivan mi invita a fare lo stesso. Ma prima di cominciare a mangiare, Sergej, il padre di Ivan, versa della vodka per tutti in dei bicchierini.
È il momento del terribile brindisi! Sta davvero per succedere!
Il padre si alza in piedi, alza il suo bicchierino e guarda tutti i commensali con un sorriso. «Benvenuti in questa casa!» dice rivolto a me e Anna. Con la coda dell'occhio vedo che gli altri hanno già preso in mano i propri bicchieri, quindi lo faccio anch'io. Non voglio bere questa roba! Chissà che sapore orribile! Gli unici alcolici che abbia mai assaggiato sono il vino e lo champagne, e li ho trovati entrambi disgustosi.
Il padre riprende a parlare. «A questo incontro, sperando che sia il primo di tanti!» Poi mi guarda e allunga il bicchiere verso di me. Oddio! E adesso? Ricordo che Ivan mi aveva ammonito a guardare negli occhi la persona con cui si sta brindando, ma mi sento così impacciato! Ho paura di far cadere la vodka sul tavolo, ma i nostri bicchieri tintinnano e per fortuna non succede niente. C'è un momento di confusione assoluta in cui tutti brindano, e tutti bevono, mentre io me ne sto qualche secondo di troppo con il bicchierino in mano. Ivan mi esorta a bere con un cenno della testa.
Ok.
Vado.
Tutto d'un fiato!
Dio mio che cosa orribile!
Appoggio il bicchiere al tavolo, i russi stanno ridendo. Trattengo un colpo di tosse. È assolutamente la cosa più orribilmente disgustosa abbia mai assaggiato in vita mia, persino peggio del vino. Ivan mi aveva detto di berlo come fosse una medicina, ed è proprio quello che sembra. Anzi no, non una medicina, un disinfettante, uno di quei disinfettanti potentissimi in grado di uccidere qualsiasi forma di microrganismo.
«Mangia qualcosa!» Ivan, ridendo, mi porge un cracker salato e noto che tutti stanno mangiando, chi il cracker, chi l'antipasto nel piatto. Anna sembra perfettamente a proprio agio. Come fa?
Dopo neanche un minuto, il padre di Ivan prende di nuovo la bottiglia in mano. «E adesso...»
«Papà, uccidi il povero Misha, se ne fai un altro!» lo ammonisce Ivan.
Il padre borbotta seccato, la madre di Ivan gli dà una spintarella scherzosa e gli dice qualcosa in russo che lo rabbonisce. Fa un sorriso poco convinto. Mi spiace un po' avergli rovinato il brindisi, ma non sarei riuscito a sopportarne un secondo. Ancora mi brucia un po' la gola.
Le portate sono abbondanti e numerose, ma cerco di non ripetere l'errore che ho fatto alla festa di Andrej, e seguo l'esempio di Ivan, che prende poco di tutto. Solo di antipasto ci sono tre cose diverse, una specie di strano caviale dall'aspetto stomachevole, dell'insalata russa («Il pomodoro in frigo non dormiva, stanotte, ahaha!» ha scherzato Ivan indicandomela) e una torta salata che mi sembra contenga cavolo. Poi arrivano altre portate di carne e verdure. Ci sono due diversi tipi di alcolici con delle scritte in cirillico sulle bottiglie (quindi non ho idea di cosa si tratti), e c'è anche una bottiglia del vino che ho portato io, ma ovviamente io bevo solo acqua. Anna prende un po' di vino, anche Ivan lo assaggia, complimentandosi con me perché è a suo dire buonissimo: io che c'entro? È l'azienda di mio nonno che lo produce, mica io.
Chiacchieriamo. La madre mi fa un sacco di domande sulla mia carriera e sui miei programmi, il padre mi chiede cosa ne penso di San Pietroburgo. Non ho avuto modo di vedere molto, è la mia risposta, al che Ivan annuncia che stasera mi porterà un po' in giro. L'attenzione si sposta, per fortuna, su Anna, e da questo momento in avanti è lei a parlare.
Alla fine del pranzo/cena, Ivan vorrebbe uscire subito, ma io devo lavarmi i denti. Sbuffa parecchio, ma va saggiamente a lavarseli anche lui. Quando abbiamo finito, mi consiglia di portarmi dietro lo spazzolino, perché vuole farmi mangiare qualcosa in un locale. Ma non bastava il pranzo/cena?
Finalmente usciamo. Prendiamo la macchina per andare in centro.
«Stasera ti porto in posti per turisti. Ma secondo me è stupido dire così.»
«C-c-cosa intendi dire?»
«Dico, è come se a Roma tu mi porti a vedere Colosseo, da? Forse uno che vive a Roma ti dice, noi romani non siamo sempre a stare in giro sotto Colosseo, da? Colosseo è roba per turisti! Però se io sono romano, la prima cosa che ti porto a vedere è Colosseo, perché è bellissimo. Anche se è un posto per turisti. Capisci?»
«Forse...»
«Ti faccio vedere bene il Nevskij Prospekt, che prima abbiamo fatto solo un pezzetto piccolo. È la strada più importante di Piter e anche la più bella. Ed è prima cosa che turisti vedono a Piter. Poi vanno a Winter Palace... Palazzo dell'Inverno.»
«Cos'è il palazzo dell'Inverno?»
«Una cosa alla volta.»
Rieccoci su quella strada gigantesca. Ne percorriamo un tratto, poi Ivan parcheggia la macchina in una laterale, e scendiamo. È sera, il sole sta tramontando, e sopra di noi c'è un cielo viola e arancione che si riflette nei capelli di Ivan, intensificandone il colore. Il viale è lunghissimo, talmente lungo da sembrare infinito, e la strada è attraversata longitudinalmente dai cavi del tram, che dividono il cielo in tanti spicchi color viola. I palazzi antichi stanno accendendo le luci, e gli elementi architettonici illuminati dal basso formano una scenografia davvero mozzafiato. «È bellissimo» dico, anche se è un'osservazione banale. È tutto un tripudio di rosa e arancio, nel cielo e sui muri dei palazzi chiari, e mi chiedo se Ivan abbia scelto di farsi i capelli rosa-violetti per intonarsi a questo quadro stupendo.
«Mi piace camminare in questo posto. Mi piace camminare nella mia città» dice. È serio, pensoso. È strano vederlo così. «Davvero non conoscevi questa strada?»
«No» gli dico.
«Nevskij Prospekt, è famosissimo! C'è anche canzone italiana, Prospettiva Nevskij, mi ha fatto sentire Raf.» Si schiarisce la voce. «Un vento a trenta gradi sotto zerooo» canta. «E poi non mi ricordo come va avanti, ho sentito quella canzone solo una volta, non mi piace. Parla di Piter e dice tante stupidaggini.»
«Cioè? Cosa dice?»
«Vento trenta gradi sotto zero!» Si inalbera.
«È un'esagerazione?» gli chiedo.
«Ma no, succede. Però c'è anche bella giornata, tipo oggi, vedi come stiamo bene con felpa leggera? In Russia c'è anche estate, eh, non è sempre inverno!» Sembra davvero infastidito. «Ma quando è inverno fa tanto freddo, sì, vero, c'è la neve che non si riesce a camminare e se non ti copri bene ti fai le bruciature sulla pelle per colpa di freddo.»
Quindi quella canzone raccontava la verità, non ho capito bene cos'è che gli dava fastidio.
«Sai che io avevo s-se-seeette anni l'ultima volta che ho visto la neve?» gli dico.
«Eh, in Italia non fa neve, è caldo» commenta.
«Ma no, nevica anche in Italia. Soprattutto al nord d-d-dove vivo io, ogni inverno viene giù un po' di neve.»
«Un po' di neve» ride. Mi sta prendendo in giro?
«Solo che io non sono mai a casa, quando nevica. Di solito nevica a fine dicembre o gennaio, e io sono sempre in Australia.»
«Solo in gennaio?» ride di nuovo. Sta continuando a prendermi in giro.
«Mi piaceva molto la neve, da bambino.»
«E dov'eri ultima volta che hai visto la neve?»
«Me lo ricordo b-b-bene» dico. «Ero a Capriva, nel paese dove vivevo da piccolo. Era il cinque gennaio.»
«Ti ricordi giorno addirittura!» esclama. «Ti piace proprio tanto la neve!»
«Me lo ricordo p-p-perché la notte tra il cinque e sei gennaio è una festa, in Italia, l'Epifania. E dalle mie p-p-parti fanno un falò, un grande fuoco, lo chiamiamo pignarûl o fugaron.»
Ivan ride. «Non sembrano parole italiane.»
«No, sono parole della lingua che parlano dalle mie parti, il friulano» dico. «Fanno questo grande falò con rami secchi, e in cima al falò ci mettono una Befana, che è... mmm... t-t-tipo una vecchia strega che porta regali ai bambini il sei gennaio.»
«Cioè... ok, c'è questa simpatica vecchia che porta regali a bambini e voi la bruciate? Stronzi!»
«Mh... ora che mi ci fai p-p-pensare non è una bella cosa... però, sai, c-c-credo che il senso sia, tipo, che bruci l'anno vecchio. Sì, forse è così, forse non è la Befana, quella, è l'anno vecchio. Non mi ricordo b-b-bene, ero piccolo l'ultima volta che sono stato a un pignarûl.»
Ivan ride. «Ho capito» dice. «Sai anche qui in Russia c'è una cosa simile... C'è una festa che si fa a fine di inverno, si chiama Masleniza. Si preparano i blini, che sono tipo frittelle» mima qualcosa di tondo con le mani. «E anche qui in qualche posto in campagna fanno questa cosa che fanno lì nel tuo posto, bruciano una vecchia che è tipo bruciare l'inverno.»
«Forse ha un'origine simile» commento, incuriosito. E continuo a raccontare, sull'onda dei ricordi. «Da me non fanno le frittelle, ma fanno comunque una b-bella festa, intorno al pignarûl, ci va tutta la gente del p-p-paese, e c'è da mangiare, dolci, carne grigliata, gli adulti bevono il vin brûlè, che è tipo un vino cotto con delle spezie che fa un profumo buonissimo di cannella.» Cannella e fragole... no, non pensarci, ora. «E quella sera, mi ricordo, c'era la neve, tanta neve intorno al fuoco, aveva nevicato tutto il giorno e io avevo fatto un pupazzo di neve nel cortile di casa mia, insieme alla mamma... E poi la sera siamo stati t-t-tutti insieme al pignarûl, e ho mangiato la polenta, i cevapcici e lo strudel di mele, e ho giocato con le fusette con gli altri bambini del paese... non giocavo spesso con i miei coetanei, ma quella sera hanno cominciato a giocare a prendersi, sai, correre e acchiapparsi, e per correre non servono p-p-parole, quindi mi sono unito a loro. Mi ricordo che la mamma era preoccupata che gli altri bambini mi spingessero e mi facessero cadere, ma Nicolò le ha detto: Michele è il più veloce di tutti, nessuno lo fa cadere, e allora la mamma ha ceduto, perché anche lei lo sapeva che ero il più veloce di tutti.» Lo sapeva bene. Ero il suo piccolo campione.
«E alla fine della serata abbiamo acceso tutti insieme le fusette. Ah, le fusette sono... non so come si chiamano in inglese, sono quei b-bastoncini di ferro che quando li accendi in cima fanno le scintille.»
«Che bello...» dice lui, sorridendo. «Che bel ricordo che mi hai raccontato.»
Sono felice che l'abbia detto, anche se, a posteriori, mi sembra di essere stato noioso.
«E quindi non hai mai più stato a un pignarûl da quando avevi sette anni.»
«Purtroppo no. L'anno d-dopo ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, a Miami, e non ho mai più passato un gennaio a Capriva. Non ho p-più visto un pignarûl e non ho più visto la neve.»
«Ti mancano queste cose?»
Mi stringo nelle spalle. «Sono contento della vita che faccio.»
Camminiamo per un po' in silenzio, io mi godo lo spettacolo intorno a me. A tratti ho ancora quella prima impressione, che questa città somigli un po' in qualche modo a Trieste, una versione di Trieste più spaziosa e imponente, ma le insegne in cirillico, qualche strano tetto a cupola, qualche finestra dal disegno insolito mi fanno capire che mi trovo in un luogo straniero, misterioso e affascinante, un luogo che vorrei scoprire. Vorrei che Ivan mi parlasse di questo viale bellissimo, mi raccontasse cosa ci vede lui, i suoi pensieri, i suoi ricordi, ma non lo fa. Cammina in silenzio, sempre con quell'aria seria e pensosa.
Il cielo è ormai diventato un color indaco scuro. Osservo anche le persone che camminano in direzione opposta a noi: hanno tutti un'espressione dura, seria, e camminano tenendo gli occhi bassi. Mi ci sento affine: anch'io sono sempre serio, anche a me non piace incontrare lo sguardo delle altre persone.
A un certo punto, all'improvviso, veniamo disturbati da un tizio che dice qualcosa a Ivan. Non ha un tono molto amichevole. Ivan gli risponde, un po' aggressivo. Hanno un piccolo battibecco, il tizio ha un'aria strafottente, ride in maniera sprezzante. Ivan alla fine gli mostra il dito medio e se ne va spedito. Lo seguo accelerando il passo. Lo sento borbottare qualcosa in russo a mezza voce, mentre l'altro, ormai lontano, gli dice un'ultima parola dal suono aspro.
«Cosa vi siete detti?» gli chiedo.
«Mi ha preso in giro per capelli rosa» risponde Ivan seccamente. Non mi pare abbia voglia di parlarne, quindi non gli chiedo altro, ma a giudicare dal tono animato della loro discussione doveva essere una presa in giro pesante.
«Ecco, ti volevo portare qua» annuncia dopo qualche minuto di passeggiata silenziosa. «Locale storico molto famoso, fanno dolci molto buoni. È posto un po' turisti, ma dolci sono davvero davvero buoni!» Sembra più di buonumore.
Entriamo. È un locale molto elegante, strano, arredato in stile orientale. C'è una vetrina con esposti un numero infinito di dolci, dolcetti e pasticcini, talmente tanti che non so quale scegliere.
«Devo raccogliere saliva con cucchiaio?» mi chiede Ivan ridacchiando. Sì, è decisamente più di buonumore. «Sapevo che ti piaceva!»
«Li voglio t-t-tutti» dico.
«Prendi tutti!»
«No, non posso. Dimmi tu quale è il p-p-più buono.»
«Dolci russi sono tutti buonissimi. A me piace Vatrushka, quello lì» mi indica delle specie di pagnottine. «Dentro c'è... un po' di roba.» Un po' di roba? Cosa significa? Forse non lo sa tradurre. «Oppure anche torta Medovik» indica una millefoglie, «che c'è tanti piani, e dentro piani c'è... un po' di roba.» Ma non me li può spiegare un po' meglio questi dolci? «Sennò anche quello è buono, si chiama Ptichye moloko, e vuol dire latte di uccello.»
«Eww...» mi scappa.
Ivan ride. «Ovviamente non è veramente latte di uccello, gli uccelli non fanno latte, ahaha. È buono!»
Il nome però mi ha fatto passare la voglia, perché mi fa venire in mente la cacca degli uccelli, che è bianca, proprio come il latte. Quindi ho deciso che proverò quelle pagnottine di cui ho già dimenticato il nome.
Ci sediamo, Ivan ordina per me, quando arriva il cameriere vedo che ci porta anche del tè. Io non volevo il tè, non mi piace il tè, e la teina è una sostanza eccitante come la caffeina che preferisco non introdurre nel mio corpo, soprattutto di sera, rischia di rovinarmi il sonno.
I dolcetti sono buonissimi. La "roba" che c'è all'interno sembra ricotta, e forse della frutta secca, non riesco a capire. È davvero molto molto dolce, proprio come piace a me. Ivan invece ha preso la torta millefoglie, e me ne fa assaggiare un pezzo, è buonissima anche quella.
Il tè invece è terribile. «Scusa, ma non riesco a b-b-berlo questo.»
«Oh, già!» Si batte la mano sulla fronte. «Scusa, tu non piace cose amare, io bevo sempre tè amaro, è più buono. Ma se vuoi puoi mettere zucchero o miele.»
Siccome insiste, cedo. Aggiungo dello zucchero, ma non ne bevo molto. Avrò dei picchi glicemici pazzeschi, so già che mi verrà fame nel cuore della notte. Non avrei dovuto mangiare questi dolci! Perché ho accettato? E come fa Ivan ad assumere tutto questo zucchero e bere tè di sera e non avere problemi al fisico? È un atleta anche lui, accidenti!
Discutiamo di ciò che faremo l'indomani. Di mattina ci alleneremo, al suo circolo, nel pomeriggio ci sarà l'incontro con i fan, alla sede del torneo.
«No, io non vengo in fan meeting» dice lui, seccamente.
«Perché? Da contratto dovresti...»
«Direttore di torneo mi ha detto di non andare.»
Resto di sasso. «Perché?»
Ivan fa spallucce. «Dai, andiamo. Vado a pagare, poi torniamo a casa. È tardi, devi dormire, no?»
Non ne vuole parlare. Perché mai il direttore avrebbe dovuto dirgli una cosa simile? Secondo me è Ivan che ha capito male. O forse mi sta raccontando una scusa per non andarci.
***
L'indomani, dopo una bella mattinata di allenamento in compagnia di Raffaele, da una parte, e il mio staff atletico al completo dall'altra, io Anna e Vincent (che per fortuna alloggia in hotel e per fortuna sembra non aver più voglia di interagire con Ivan) ci rechiamo alla sede del torneo. Ivan, come annunciato, non viene.
C'è un noiosissimo meet and greet con i fan, dove firmo un sacco di autografi, faccio foto e palleggio con ragazzini dai sei ai dieci anni. Che noia, Ivan non si è perso niente. Ci sono tutti i giocatori più importanti: Koptsev, Moriakov, Willan, Farini, Serrano Martin, Glushakov e Dzumhur. Manca solo Ivan, ed è così strano, considerando che è la testa di serie numero due. Tutto sommato è un torneo dalla partecipazione molto prestigiosa, nonostante sia un Duecentocinquanta giocato in un periodo morto della stagione. Ma pagano molto bene, e attirano giocatori di alto livello: credo puntino a togliere il Cinquecento a Mosca, un torneo che si gioca tra un mese.
Alla fine del meet and greet il direttore del torneo mi chiede di partecipare a un'intervista per una televisione russa. Non era in programma, ma dopo una breve discussione con Anna decidiamo di accettare.
«Prima di rispondere alle domande...» mi fa il direttore, con sussiego. «Ho saputo che lei alloggia a casa del signor Reshetnikov.»
Come fa a saperlo? Gli rispondo che è vero, io e la mia manager siamo suoi ospiti.
«Oh, c'è anche la signorina Rossetti» esclama, e sembra felice della cosa. «A ogni modo, per favore, non dica questa cosa nell'intervista.»
Gli chiedo quale cosa.
«Non dica di essere ospite di Mister Reshetnikov, d'accordo?»
Mi sembra una richiesta strana, innanzitutto perché non credo mi sia mai capitato di raccontare ai giornalisti dove alloggio. In secondo luogo perché non capisco il motivo di tutta questa segretezza. A ogni modo lo rassicuro e gli dico che non rivelerò il luogo del mio alloggio.
«Well well well» dice lui, dandomi delle pacchette sulle spalle. «È un onore averla qui al torneo, le auguro di vincerlo di nuovo!»
Quale onore? Mi avete pagato parecchi soldi per venire, vorrei rispondere, ma non lo faccio.
L'intervista mi fa perdere circa mezz'ora, dopo la quale posso finalmente tornare da Anna (Vincent è già in hotel), e insieme torniamo a casa di Ivan, in taxi. Racconto ad Anna la cosa strana che mi ha detto il direttore del torneo e lei scuote la testa. «In Russia sono così omofobi...» commenta.
Era quello il problema? Il fatto che Ivan sia bisessuale?
È per quello che non è venuto al meet and greet?
D'improvviso mi tornano in mente alcune cose che mi aveva detto Daria, tanto tempo fa, su come le persone omosessuali vengano viste in Russia, e su come il fatto che lui stesse con lei fosse positivo per l'immagine di Ivan agli occhi della federazione tennistica russa. All'epoca avevo pensato che mi stesse dicendo delle sciocchezze, esagerazioni dettate dalla sua gelosia nei miei confronti. Ma alla luce di ciò che è appena successo, forse c'era un fondo di verità.
A casa di Ivan, troviamo Ivan e Raffaele nel bel mezzo di una discussione. Stanno parlando in russo, e non cambiano lingua nemmeno quando arrivo. Non capisco se il motivo è che sono troppo presi dal litigio, o che non vogliono farmi capire quello che si stanno dicendo. Anna sembra imbarazzata, e sono un po' a disagio anch'io.
Sto per andarmene, quando all'improvviso identifico il nome di mio padre all'interno di una frase. E capisco che stanno cercando di nascondermi qualcosa.
«State p-p-parlando di Nicolò?» mi intrometto.
«No!» grida Ivan
«Sì» gli grida Raffaele sopra.
Guardo entrambi. Voglio spiegazioni.
Ivan punta un dito contro Raffaele e gli dice qualcosa in russo, Raffaele tira uno schiaffo alla sua mano. «E invece glielo dico» gli risponde. «Michele, tuo padre è qui.»
«Q-q-q-qui a c-c-c-c-c-caaa-cc...»
«No, non è a casa di Ivan» mi interrompe. «È a casa mia. Ma è qui a San Pietroburgo, e vuole vederti.»
—
Note note note ♫
E finalmente, dopo una settimana di attesa (scusate ancora), siamo a San Pietroburgo! Quella ambientata in Russia è una sequenza di capitoli a cui tengo davvero tanto, e per cui devo ringraziare per l'ennesima volta Juiceissweet che con i suoi consigli e le sue lezioni di usi e costumi russi mi ha aiutato a rendere più vere e più russe queste scene. Cosa ne pensate della camera di Ivan? E delle cose losche che accadono al torneo? Non è un paese facile. Ma bellissimo da togliere il fiato.
In questo capitolo viene citata una famosa canzone di Battiato, Prospettiva Nevski. La conoscete? Anni fa lessi una divertente critica del compianto Tommaso Labranca (non ricordo più se fosse un articolo o un libro, perdonatemi) in cui la perculava senza pietà dicendo che era una sequenza dei peggio luoghi comuni sulla Russia. Scrivendo questo capitolo ho pensato che fosse impossibile che Vanja non la conoscesse, considerata la sua amicizia con Raffaele, e mi piace immaginare che anche lui, da persona che odia i luoghi comuni, odi questa canzone come la odiava Labranca! A me in realtà piace, anche se non è la mia preferita di Battiato (e mi piace di più la versione cantata da Alice).
https://youtu.be/zWViOtrFcrs
Buon Halloween a tutti! Voi avete fatto la zucca? Io ogni anno ne intaglio una e ci metto dentro la candelina, guardate che bella! (Ok, ok, lo ammetto, non l'ho fatta io quella qui sotto, è un'immagine pescata da google)(la mia in realtà è ancora più bella)(credetemi sulla fiducia).
E sapete cos'è arancione e luminosa come la zucca di Halloween? Esatto! La stellina che tutti voi accendete in cima al capitolo :)
A giovedì!
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