80. I bei ricordi
Anna è ancora fuori con Nicolò, l'uomo che un tempo è stato mio padre. Non so quanto ci resterà.
Nel frattempo, io porto i bagagli al piano di sopra.
Mi spoglio per andare a farmi la doccia.
È il secondo giorno che non mi alleno. Vorrei scendere in campo, ma è Nicolò ad avere il numero di Stefano, il mio sparring friulano. Come faccio? Mi toccherà tirare contro il muro, giù in cortile, sul retro dell'ex stalla dei maiali, come facevo da bambino.
No, non va bene. Devo chiedere ad Anna se è in grado di recuperare il numero di Stefano o di qualche altro sparring disponibile in zona. Ma preferirei Stefano, mi trovo bene con lui, ha una bella palla pesante. Chissà se Anna riuscirà a capire come si prenotano i campi di allenamento. Io non l'ho mai fatto di persona. Quante cose a cui pensare! Mi viene già il mal di testa.
Menomale che c'è Anna.
Faccio una rapida doccia, mi cambio e scendo al piano di sotto.
Anna è sul divano del soggiorno, ma non è sola: sta parlando con mio nonno. Sembra una conversazione amichevole.
«Oh, Michele, vieni. Tuo nonno mi parlava dei suoi vigneti.» Anna sorride.
«Che bella ragazza che è la tua morosa!» esclama lui.
«Grazie» gli risponde lei.
Per un attimo ho l'istinto di correggerlo, ma mi rendo conto che non ha senso: mio nonno non capirebbe mai il rapporto di semplice amicizia che c'è tra me e Anna.
«Hai fatto q-q-quello che volevi fare?» le chiedo.
«Sì» risponde secca lei.
«D-dov'è lui adesso?»
«È andato via.» Stringe le labbra e sembra quasi sul punto di mettersi a piangere.
«Cosa succede, ninina?» le dice mio nonno posandole una mano sulla spalla.
Anna fa un sospiro e accenna un sorriso. «No. Professionalità.» Sbuffa. «Non posso mettermi a piangere per queste cose, è il mio lavoro, cazzo!» Poi sussulta portando una mano alla bocca. «Scusi la parolaccia» aggiunge, rivolta al nonno.
Lui ride. «Non mi scandalizzo per così poco.» Poi stringe la bocca. «Ma perché sei triste?»
È strano sentirlo parlare italiano. Si sente che non è la sua madrelingua, che non ci si trova a suo agio. Parla correttamente, ma è incerto su ogni parola che pronuncia. Ivan sembra molto più sciolto di lui, quando parla italiano, nonostante faccia molti più errori.
No, non pensare a Ivan, adesso.
«Le ho fatto licenziare mio padre, e Anna p-prova pena per lui perché è troppo buona» spiego al nonno, pentendomi dopo pochi istanti di averlo chiamato "mio padre" e non "Nicolò Bressan" come mi ero ripromesso. Ma le abitudini sono difficili da cambiare.
Mio nonno sta scuotendo la testa. «Par le cjsse?» mi chiede.
«Sì, per la cagna.» Cagna suona così male, in italiano.
Il nonno scuote la testa. «Quante vite che fai per quella bestia...»
Mio nonno, se possibile, avrebbe trattato Sara in modo ancor più orribile di Nicolò. L'avrebbe uccisa con un colpo di fucile, probabilmente.
«I cani vanno e vengono. Io ne avrò avuti una ventina. Sì, ti dispiace quando muoiono o stanno male, però non sono mica cristiani, Dio bon!»
Non capisce né capirà mai. Non ci provo neanche, a spiegarglielo. A spiegargli che l'amore che si può provare per una "bestia", come dice lui, può essere profondo come quello per un essere umano. L'unico motivo per cui non lo sto mandando via è che questa casa è sua.
«Mi ricordo ancora il giorno che l'hanno presa, la Sara» prosegue lui, e ciò che dice cattura la mia attenzione. È vero, eravamo qui, quando la mamma l'ha portata a casa, facendo una sorpresa a tutti. «Tu e Daniele eravate contenti come una pasqua! Pomeriggio dovevate andare a tennis, c'era Nico che insisteva, ma l'Elisa alla fine è riuscita a convincerlo di farti restare qui a giocare. Hai giocato tutto il pomeriggio con lei!» Fa una risatina rauca, mentre io cerco di ricordare, senza riuscirci, il primo giorno che ho trascorso con Sara.
«E Daniele non è rimasto?» chiede Anna.
«No Daniele era più grandino, aveva, cosa, quindici anni?»
«T-tredici» lo correggo.
«Sì, bon, era più grande e lui è andato a tennis con Nico, Michele è restato a casa con l'Elisa e la Sara. Che corse che ti sei fatto!»
Non ricordo nulla! Ricordo solo quando la mamma l'ha portata a casa, ma poi... vuoto. Mio nonno sta continuando a raccontare scenette di quel giorno, di io che gioco con Sara, scenette che non mi fanno venire in mente niente. Possibile? Come posso aver perduto un ricordo così importante?
«Avevo scattato anche un po' di foto» dice infine.
«Dove sono?» gli chiedo, con la voce che mi esce un po' rotta e a volume troppo alto.
«Cosa? Le foto? Nel baule dove tengo tutte le foto. Ven!» Il nonno si alza, io e Anna lo seguiamo. Attraversiamo la casa, per passare all'ala in cui vive lui, e andiamo al piano di sopra, nell'area notte.
Il nonno cammina lento, e la sua lentezza mi innervosisce. Sono così impaziente di vedere quelle foto!
Arriviamo finalmente in camera sua, e da un armadio estrae un baule. Ci sono dentro album fotografici. Tantissimi e in mille formati diversi: grandi, piccoli, di cartone, di plastica morbida. Non sono catalogati, anche se il contenuto di alcuni è evidente. Ad esempio ce n'è uno bianco con sopra delle campane e il disegno di due sposi che suppongo contenga le foto del suo matrimonio.
Mi passa un po' di pacchi di album di plastica. «È in uno di questi» dice. Ne passa un po' anche ad Anna e ne prende qualcuno lui stesso.
Ci sediamo sul letto.
Anna fa un sacco di commenti. Sta sfogliando vecchie foto di mio nonno e mia nonna e comincia a fargli delle domande su di lei, che io non ascolto: non ho mai conosciuto la mia nonna paterna, è morta prima che nascessi. Coi nonni materni non ho mai avuto molti rapporti, sia la mamma che zia Elena non erano molto legate a loro. La nonna è ancora viva, ma non la sento mai.
A me sono capitate foto di vendemmie, foto molto vecchie, in alcune si vede Nicolò che a occhio avrà avuto quattordici o quindici anni massimo. Ne prendo un secondo pacchetto e noto con disappunto che Anna e il nonno non stanno cercando più. Stanno ancora parlando di mia nonna. «C-continuate a cercare» li esorto. Neanche mi sentono.
«Continua, continua...» mi dice distrattamente Anna. Cosa ci sarà mai di tanto interessante da dire? Mah.
Continuo. Mi capitano in mano, nell'ordine, un album con foto di mia zia Gra(zia) adolescente, uno di mio nonno e mia nonna in vacanza in qualche posto tropicale, una parata di trattori con delle bandiere... non è la bandiera dell'Unione Sovietica quella? È stato in Russia, mio nonno? Ma no, aspetta questa non è la Russia, è Gradisca d'Isonzo, riconosco la piazza. Era una parata di russi a Gradisca?
Per un attimo mi viene voglia di mandare un messaggio a Ivan e mostrargli questa foto. Una parata di russi a Gradisca! È una di quelle scemenze che lo farebbero ridere. Poi mi rendo conto di due cose. Uno: non è detto che fossero russi, l'Unione Sovietica era fatta anche di altri stati. Due: io e Ivan non siamo più amici. Ed è assurdo, ma all'improvviso tutte le mie questioni di principio su come mi avesse mancato di rispetto svaniscono. Fatico a ricordarmi le mie stesse emozioni di quel giorno.
Succederà lo stesso anche con mio padre? No. Le due cose non sono paragonabili: non potrò mai perdonare ciò che mio padre ha fatto a Sara. Ciò che Nicolò ha fatto a Sara. Ivan ha soltanto mancato di rispetto a me.
«No, lì ci sono le feste dell'unità» dice mio nonno, prendendomi gli album di mano. «Le foto di te e Daniele da piccoli sono qui.» Scava un po' nel baule, scarta qualche album sfogliandoli rapidamente e borbottando parole in friulano. «Ah, velu!»
Mi porge un album. «Qui c'è Daniele da piccolo, a quattro anni!»
Non mi interessa, sto per dire, ma una foto della mamma attira la mia attenzione e mi blocca le parole in bocca. Ci sono lei e Daniele insieme nella foto, lei lo sta guardando, mentre lui tiene in mano una racchetta; sembra stia provando un dritto.
E dopo questa foto ne guardo altre cento. Mi succede sempre, quando mi metto a guardare foto o video della mamma: che ci sto male, ma non sono mai sazio, e una volta che comincio andrei avanti all' infinito.
«Eccola!» esclama Anna. «Oddio, che foto stupenda!» Il suo tono di voce è più acuto del normale.
Le prendo l'album di mano e per qualche secondo mi si mozza il fiato in gola. Penso sia una delle foto della mamma più belle che abbia mai visto, ed è la prima volta che la vedo!
Stava sorridendo.
Ci siamo io a otto anni e Sara, cucciola, tre o quattro mesi, io la tengo stretta, lei è un po' sperduta, spunta a malapena col musetto dal mio braccio. Io ero cosi felice, come ridevo! La povera Sara, invece, forse era infastidita: ai cani non piace essere abbracciati. Ma io ero solo un bambino e non lo sapevo.
Comunque, la cosa più bella di questa foto è la mamma. Stava sorridendo, mentre guardava me e Sara.
Il sorriso della mamma è una delle cose che più mi mancano di lei. Non sorrideva quasi mai quando interagiva con papà, e di rado con Daniele. Ma con me lo faceva sempre. E aveva un sorriso così bello!
Nelle foto e nei video, però, mi è difficile ritrovare il suo sorriso, perché non le piaceva farlo, quando veniva immortalata. Sosteneva che le venissero delle brutte rughe di espressione. Buttava tutte le foto che riusciva a trovare in cui sorrideva.
Ma questa foto probabilmente non l'ha mai vista. E si è salvata.
Non posso descrivere la gioia che sto provando. Il suo sorriso è esistito solo nei miei ricordi per molto tempo, e ora è qui, davanti ai miei occhi! È come se un pezzetto di lei fosse tornato per un attimo in vita. Un pezzetto che stavo perdendo, nella nebbia della memoria. Lo stesso luogo dove ho perduto per sempre il suo odore. Il suo odore che non sono mai riuscito a definire. Perderò anche quello di Sara? Il suo profumo magico di biscotto e terra bagnata?
«Michele, tutto bene?» Anna mi mette una mano sull'avambraccio.
«Questa foto è b-b-bellissima» la voce mi esce a stento.
«Ustu vêle?» mi chiede mio nonno, vuoi averla?
«Posso?»
«Tegnile!» mi esorta, accompagnando la parola con un gesto sventolante della mano.
«G-grazie!» La tiro fuori dalla plastica e la stringo al cuore. Mi sembra un gesto sciocco, senza senso, eppure mi viene da farlo.
Non voglio perdere altro tempo qui. Ho visto abbastanza foto, per oggi, e sto portando via con me la più bella di tutte.
Inoltre avrei voluto (e dovuto) allenarmi, e tra una cosa e l'altra si è fatto un po' tardi: sono le cinque.
Ringrazio il nonno, lo saluto, io e Anna ci ritiriamo nella nostra ala della casa. Lei vorrebbe parlare di Sara, ma la fermo. Sto traboccando di emozioni e sento il bisogno di staccare, di muovermi, sfogarmi. Le dico che vorrei fare un paio d'ore di sparring con Stefano, e se può organizzarmi rapidamente una sessione serale. Le dico anche di non avere il numero di Stefano.
«Non preoccuparti,» dice lei, «tuo padre, prima, mi ha dato tutti i numeri che mi servono.»
«Nicolò» la correggo.
Stringe le labbra e annuisce. «Nicolò» ripete. «Mi ha dato i numeri, mi ha informato su tutti i prossimi tornei a cui sei iscritto» Comincia a contare con le dita. «Washington, Montréal, Cincinnati, US Open, San Pietroburgo, Vienn...»
«C-c-cooosa?» la interrompo.
Anna aggrotta le sopracciglia.
Le spiego: «No, d-devi aver capito male, io non gioco San Pietroburgo. È un duecinquanta in un momento morto del c-calendario.»
«Non sapevi che l'avresti giocato?»
Scuoto la testa. «Non lo gioco. D-devi aver capito male.»
«No, sono sicura di aver capito bene. E mi ha anche spiegato la circostanza, ha avuto dei contatti col direttore del torneo l'anno scorso, quando è stato lì per assistere alla riabilitazione di Raffaele.»
Prendo un gran respiro. Giocherò San Pietroburgo? Davvero? Andrò di nuovo nella città di Ivan, e questa volta con una nuova consapevolezza. «E allora p-perché n-non me l'aveva detto?»
Anna fa una piccola smorfia. «Posso immaginarlo... Secondo me non voleva metterti agitazione in anticipo.»
«E p-perché avrei dovuto agitarmi?»
Anna punta le mani ai fianchi. «E secondo te?» Mi indica con la mano aperta. «Guarda come sei andato in crisi, adesso, a sentirlo! Se sapevo non te lo dicevo...»
Scrollo la testa. «O... ok, non c-ci voglio pensare adesso. Sarà tra tre mesi. Vedi se r-riesci a p-prenotarmi una sessione con Stefano.»
Anna ci riesce, nel giro di dieci minuti.
Un miracolo, considerando quanto poco tempo ha avuto per farlo. Organizza una sessione di due ore a partire dalle diciotto, tra meno di un'ora. Tempo di preparare il borsone, fare un breve riscaldamento e già usciamo: il tennis club è a Gorizia a dieci-quindici minuti di macchina. Anna vorrebbe chiamare un taxi, ma il nonno dice che se vogliamo ci presta la sua BMW: Anna ha la patente ed è ben contenta di guidarla. «Mi piacciono le belle macchine» commenta.
L'allenamento non va bene come avrei voluto: ho cercato di non distrarmi con pensieri su Sara e la mamma, ma ho fatto l'errore di portarmi dietro quella foto e ci sto pensando di continuo. Non aiuta la mia concentrazione il fatto che Stefano mi stia tartassando di domande su Nicolò («Dov'è? Come mai non è venuto? Ah, non ti allena più? E perché non ti allena più? Ma fino all'altro giorno ti allenava...») e che Anna stia parlando al telefono da mezz'ora con gli avvocati dell'agenzia per i problemi con mia zia e con quel tizio che minaccia di denunciarmi. Si è allontanata un po' dal campo per telefonare, ma parla a voce alta e sento tutto.
E non aiuta neanche l'idea che tra tre mesi dovrò andare a San Pietroburgo. Una prospettiva che non mi alletta affatto, che mi inquieta.
Alla fine della sessione, alle otto, mentre mi detergo il sudore e mi reintegro, prendo la foto dal borsone per guardarla ancora.
Stefano è nell'altra metà campo, di spalle. Se sto ancora un po' qui, con la foto in mano, prima o poi si girerà verso di me e si accorgerà che sto guardando una foto. E allora, forse, mi chiederà che foto è. Lui è un tipo talmente curioso, me lo chiederà di sicuro.
L'idea che possa chiedermelo mi elettrizza e terrorizza allo stesso tempo. Mi elettrizza l'idea di fargli vedere quanto era bella la mamma. Mi terrorizza parlare di lei. Odio parlare della mamma, sto sempre male, quando lo faccio.
Sta ancora armeggiando col suo borsone. Cosa aspetta a girarsi? Adesso beve, lo vedo di profilo, con quella sua bocca piccola e sempre screpolata.
E finalmente si gira. Si accorge che lo sto guardando e mi fa un cenno di saluto. Ma non nota o non sembra notare la foto.
«Michele, andiamo?» mi fa Anna, da dietro la recinzione. Accanto a lei ci sono un po' di persone: avventori del club di tennis che hanno assistito al mio allenamento.
Raccolgo le mie cose, firmo qualche autografo e andiamo via, la doccia la farò a casa.
Mentre torniamo a Capriva, in macchina, noto che Anna è inquieta. Mi sono seduto accanto a lei sul sedile del passeggero, e lei porta continuamente la mano dal volante alla bocca, per mangiucchiarsi le unghie.
«Mangiarsi le unghie è una c-c-cosa molto anti-igienica» le dico.
Lei fa un verso di lamento. «Ok, devo chiederti una cosa.»
Ecco, lo sapevo che qualcosa non andava.
«So che mi hai detto di non romperti le scatole con questioni che riguardano il mio lavoro, ma... questa cosa devo chiedertela per forza.»
«Rig-g-guarda Nicolò, vero?»
«No, in realtà riguarda Sara.»
La sua risposta mi stupisce.
«Mi sento... così schifosamente fredda e meschina a chiedertelo, ma devo chiedertelo. Devo dirtelo. Hai... intenzione di fare un annuncio pubblico sulla morte di Sara?»
Le parole di Anna mi fanno male. Non per colpa sua, semplicemente perché mi fa male pensare alla morte di Sara, e sentirla menzionare così esplicitamente. «N-n-n-non ci ho pensato...»
«Da tua manager...» Sospira. «Dio, mi faccio schifo da sola. Da tua manager ti consiglio di farlo, per la tua immagine. Il tizio, hai presente il pidocchioso succhiasangue? Sta già montando casini sui giornali. Se tu dicessi che avevi appena ricevuto notizia che ti era morta la cagnolina, l'opinione pubblica non avrebbe una cattiva opinione di te, ti giustificherebbe.»
Mi mordo un labbro, facendomi un po' male.
«Lo so che è una cosa schifosa, sfruttare un lutto per questioni di immagine, ma...»
«E come dovrei dirlo?» la interrompo.
Anna si stringe nelle spalle. «Instagram?»
Appena lo dice mi viene in mente la foto. Allungo il braccio verso il sedile dietro, apro il borsone e la prendo. «P-p-potrei... pub-b-b-blicare q-q-q-questa...»
E provo la sensazione che avevo provato poco fa, all'idea che Stefano la vedesse: terrore e... una specie di strano senso di orgoglio, quasi di vanità.
Anna lancia una rapida occhiata alla foto. Alza le sopracciglia, mentre guarda di nuovo la strada. Il navigatore dà delle indicazioni, passa circa un minuto di silenzio.
«Te la sentiresti davvero di condividere una foto di tua mamma con un milione e mezzo di persone? Sei sicuro?»
Un milione e mezzo di persone! Un milione e mezzo di persone vedrebbero quanto era bella la mamma... Ho un tuffo al cuore, al pensiero, e non capisco, di nuovo, se sia terrore o gioia. «Sì. Mi piacerebbe.»
Sarebbe la prima volta. La prima volta che parlo di lei in pubblico.
Anna sorride. «E cosa vorresti scrivere?»
«Ci devo pensare...»
Ci penso. Ci penso durante il viaggio, durante la doccia, durante la cena. Mi vengono in mente tante frasi, tante parole, ma nessuna che mi convinca: "vi ho voluto bene e ve ne siete andate" oppure "due persone a cui ho voluto bene che non ci sono più." Ma Sara non è una persona. E non voglio scrivere una cosa troppo esplicita, non voglio dire esplicitamente che sono morte. Anche se il punto, secondo Anna, era proprio dare la notizia.
Ma il punto si è spostato nel momento in cui ho scelto questa foto. Ora il punto è diventato semplicemente condividere un bel ricordo.
Ne parlo con Anna.
«Un bel ricordo?» dice lei. «Perché non scrivi semplicemente... Good memories live on? I bei ricordi continuano a vivere?»
Eccole. Le parole giuste.
Anna si batte il mento con un dito. «È una frase un po' sdolcinata, forse, ma...»
«È b-b-bellissima» la interrompo.
«Ti piace davvero?»
«È p-p-perfetta!» Mi piace perché fa capire senza dire esplicitamente. Proprio ciò che cercavo.
Quindi appoggio la foto al tavolo, la inquadro col telefono, più dritta possibile, faccio un paio di scatti, finché non ne trovo uno che mi soddisfa. Quindi lo carico su Instagram e inserisco la didascalia.
Good memories live on.
E poco più sotto, aggiungo:
Goodbye Sara.
Indugio per parecchi secondi col dito sulla scritta "Pubblica". Guardo Anna. Lei mi sorride. Annuisce per incoraggiarmi.
Pubblica.
Ho appena condiviso con un milione e mezzo di persone una cosa bellissima.
E in quel milione e mezzo di persone, ce n'è una che se ne accorge subito, e capisce, e dopo un minuto mi chiama.
È Ivan.
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Note note note ♫
Si rifà vivo il nostro caro Vanja, finalmente. Secondo voi Michele avrà il coraggio di rispondere? E se sì, cosa si diranno?
Comunicazione di servizio: segnalo a chiunque non l'abbia vista, che ho pubblicato la prima fanart dedicata a Play sugli extra (trovate la storia sul mio profilo): ringrazio ancora smntxx per aver realizzato il primo ritratto immaginario di Michele :) Andate a darci un'occhiata!
E a proposito di fanart, ho deciso di realizzarne una anch'io, ma non dedicata ai protagonisti di Play, bensì alla protagonista immancabile delle note: la simpatica e cliccabile stellina arancione!
(Sì, lo so cosa state pensando: ammazza se te sei sprecata!)
Ci rileggiamo giovedì!
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