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79. Nicolò Bressan

Mi sveglio col telefono che squilla e sto piangendo.

Stavo sognando Sara, uno strano incubo: ci trovavamo sulla cima di un grattacielo, lei scappava da me, io cercavo di inseguirla senza riuscirci, la chiamavo, Sara! Sara! Stai attenta! Ma lei non mi sentiva, e precipitava giù dal tetto. La vedevo cadere e non potevo far nulla per salvarla.

Mi sono svegliato prima dell'impatto, con il pianto già in gola.

Il telefono sta ancora squillando. Sono le otto e cinque. Guardo lo schermo con un misto di paura e rabbia, convinto che sia mio padre: ieri, stranamente, non ha provato a richiamarmi, dopo che gli ho chiuso il telefono in faccia. Avevo quasi sperato lo facesse, per provare il piacere di non rispondergli, di lasciare squillare il telefono all'infinito.

Ora mi rendo conto che mi disgusta persino l'idea di leggere "papà" sullo schermo. "Papà" è una parola che suona sbagliata.

Ma il nome che vedo lampeggiare è "Star Match". L'agenzia.

Noto che ci sono anche parecchie notifiche di chiamata persa. Sono arrivate quando il telefono era ancora in modalità silenziosa per la notte. 

Anna mugugna girandosi nel letto. «Che ore sono? Chi minchia è che chiama?» bofonchia con la bocca sul cuscino.

«P-puoi rispondere tu? È l'agenzia.» 

Il telefono smette di squillare. Anna sbadiglia, si stiracchia, si stropiccia gli occhi. «Primo giorno di lavoro» dice.

Poi mi guarda. «Ehi Michi, stavi piangendo?» Si avvicina e mi abbraccia. Io giro un po' la testa all'esterno perché non voglio sentire per sbaglio l'odore del suo alito mattutino. Però ricambio l'abbraccio. Ne ho bisogno, il sogno con Sara mi ha un po' scosso.

Se penso che ieri, a quest'ora, era ancora viva e io la stavo accarezzando  per salutarla... no meglio che non ci penso, mi fa stare troppo male.

«Coraggio, vedrai che insieme ce la facciamo» sussurra Anna.

L'abbraccio purtroppo dura poco, perché il telefono ricomincia a squillare. «Scusa, Michi, credo sia meglio se rispondo.»

La lascio fare. Intanto vado a darmi una rinfrescata in bagno.

«Pronto?... Sì, sono Anna Rossetti. Mi occuperò io degli affari del signor Bressan, da oggi in avanti.»

***

Le chiamate perse (ben dodici) erano tutte dell'agenzia che chiamava me perché mia zia aveva detto loro di essere stata licenziata. 

La povera Anna ha già avuto un bel da fare, perché ci sono dei problemi legali che hanno richiesto attenzione immediata. 

Il problema più spinoso riguarda il tizio a cui ieri ho rotto il cellulare, che vuole un risarcimento per il cellulare rotto e per i danni fisici che dice di aver subito alla mano e per i danni psicologici causati dallo shock. Anna è fuori di sé dalla rabbia. Lo ha chiamato: «approfittatore bastardo lurido pidocchio succhiasoldi». 

E poi c'è proprio mia zia, che sostiene di non poter essere licenziata nei termini che ho posto e vuole essere ancora stipendiata, anche se non lavora più per me. 

Anna, quindi, ha discusso tutta la mattina con avvocati e commercialisti, ed è riuscita a trovare anche il tempo per comprare i biglietti aerei per tornare a Capriva (purtroppo non possiamo volare direttamente negli U.S.A. ho lasciato troppe cose a casa). 

Le ho detto che è stata bravissima. «Ma se non ho ancora combinato niente!» è stata la sua risposta. Le ho fatto presente che ha comprato i biglietti aerei. «Quello ci riusciva anche mia nonna.» 

Sua nonna forse ci sarebbe riuscita davvero, ma io non avrei saputo da dove cominciare. Ad esempio, non sapevo nemmeno che l'aeroporto di Ronchi dei Legionari si chiamasse "Aeroporto di Trieste". Quando Anna mi ha detto: «Ho preso i biglietti per Trieste» sono andato per un attimo nel panico. «No! Dovevi p-p-prenderli per Ronchi dei Legionari!» Inizialmente si è allarmata anche lei, ma dopo una rapida indagine (ci ha messo dieci secondi, col cellulare) mi ha spiegato che: «Si chiama aeroporto di Trieste, ma si trova a Ronchi dei Legionari.» Io ho un po' insistito, non mi sembrava possibile, considerando che Ronchi è in provincia di Gorizia, non di Trieste, quindi semmai avrebbero dovuto chiamarlo: "Aeroporto di Gorizia". «Senti» ha concluso lei, un po' seccata, «non so perché si chiama Trieste e non Gorizia o Ronchi o Poggibonsi, ma ti assicuro che atterreremo a Ronchi. E adesso stai un po' zitto che devo chiamare il commercialista per definire il mio contratto di lavoro.»

Anna ha voluto un aumento, e io gliel'ho concesso senza problemi, considerando che dovrà fare molto più lavoro, rispetto a quando era semplicemente l'assistente di mia zia. Ha voluto anche inserire nel contratto una clausola che lei ha definito "anti capricci". «Hai presente il modo di dire "conta fino a dieci" prima di parlare? Ecco, se vuoi licenziarmi voglio dieci giorni di preavviso. Così, se mi licenzi perché ti prende un altro attacco di rabbia, hai dieci giorni per ripensarci.» Le ho detto che mi stava bene e mi sembrava un'ottima idea, e le ho anche promesso che avrei cercato di non farmi più guidare da emozioni passeggere nelle mie decisioni. 

«A proposito di emozioni passeggere, sei ancora convinto che non vuoi più tua zia e tuo padre nel tuo staff?» mi ha chiesto infine. «Sono ancora più convinto di ieri» le ho risposto. Non potrò mai perdonare ciò che hanno fatto a Sara. 

Oh, Sara... Ogni volta che penso a lei mi si chiude lo stomaco e mi viene voglia di piangere. 

***

Il volo per Ronchi/Trieste fila liscio senza ritardi. Atterriamo alle quindici e trenta, e un taxi ci porta a Capriva in meno di un quarto d'ora. 

«Che bel casale!» esclama Anna scendendo dall'auto. 

Io mi guardo intorno. È un riflesso: cerco Sara. Mi veniva sempre a fare le feste, quando scendevo dalla macchina. Ma Sara non c'è più. 

«Non ero mai stata in Friuli, sai?» 

E mentre Anna pronuncia queste parole, sulla porta di ingresso appare una persona che non avrei voluto vedere. 

Mio padre. 

Mi giro di scatto e gli do le spalle. Mi fa talmente schifo che non sopporto nemmeno la sua vista. 

«Michele» dice lui. Mi tappo le orecchie e mi allontano. Gli avevo detto di andarsene! Gli avevo detto di andare a Bovec! Perché è qui? 

«Michele!» sento la sua voce, ovattata dalle mani. Ha gridato, cosa davvero insolita. Mi afferra un braccio, costringendomi a fermarmi e a togliere una delle mani dalle orecchie. «Michele, ti prego, ascoltami!» 

Ho uno scatto rabbioso, mi libero dalla sua presa con un gesto violento. Per una volta, una, nella tua vita, rispetta una mia decisione! Apro la bocca per dire queste parole e annaspo. Non riesco nemmeno a iniziare la frase.

Papà non aspetta. Approfitta delle mie difficoltà comunicative e parla lui. «Tutto quello che faccio, lo faccio per il tuo bene!» grida. Sta gridando. Ha gli occhi sbarrati, arrossati, la bocca asciutta e screpolata. Non l'ho mai visto così, fatico a riconoscerlo. Non sopporta l'idea di non potermi più controllare. E forse nemmeno quella di non poter più prendersi meriti per i miei risultati sportivi. Ora dovrà limitarsi ad allenare quello scarso di Daniele, ci credo che è fuori di sé. 

Ma non mi fa pena. L'ha voluto lui, dimostrandomi di essere una persona orribile. Non lo perdonerò mai. Mai! Mai! Mai! Mostro! 

«Michele stai bene?» mormora Anna, avvicinandosi. 

«Parla, cazzo! Di' qualcosa! Dimmi cosa pensi!» sbraita mio padre. 

Sto respirando a fatica. Immetto aria nei polmoni a bocca aperta, e l'aria urta le mie corde vocali, producendo un rantolo rauco, aspirato. 

«Non puoi nasconderti sempre dietro al tuo mutismo!» Non ho mai sentito mio padre parlare a voce tanto alta. 

«Michele, vuoi il cellulare?» interviene Anna. «Vuoi scrivere?» 

«E smettila di assecondare i suoi problemi, cretina! Non guarirà mai se lo assecondi!» 

Sentirlo dare della stupida ad Anna mi sblocca. «Non t-t-ti permettere di insultarla!» 

«Ah, per difendere la tua ragazza ce la fai, a parlare...» 

«Non è la mia rrrrragazza, è la mia m-m-migliore amica!» Poi, dopo qualche istante aggiungo. «E la mia ma-m-manager.» 

Mio padre mi prende per le spalle e mi scuote. «Michele, ti prego, ragiona. Io non farei mai niente per...» 

«St-t-tai zitto!» 

«Non capisci che stava soffrendo?!» sbotta. «Non ce la facevo più a vederla così! E non ce la facevi neanche tu! E se non l'avessi fatto te ne saresti pentito per tutta la vita!»

Non deve permettersi di parlare di Sara! Lui non le ha mai voluto bene davvero! 

Lo spingo. Lo spingo con tanta violenza che cade col sedere a terra. Lui non dice niente, quando cade, non emette un suono, ma mi guarda, incredulo. Sembra sotto shock.

Non voglio più vederlo. Quindi mi giro, gli do le spalle. 

Non solo non voglio vederlo. Non voglio più avere nulla a che fare con lui.

Ora capisco perché "papà" mi sembrava una parola sbagliata. Perché lui non è più mio padre. Non voglio più che lo sia.

E per l'ultima volta in vita mia, gli parlo. 

E glielo dico.

«Tu non sei più mio padre. Non sei più niente per me. Per una volta nella tua vita rispetta una mia decisione e vattene.» 

«Michele...» mormora lui. Io sto già camminando, verso la porta di casa, che è rimasta aperta. 

«Anna, vieni» dico. 

«Michele, ragiona...» mi implora di nuovo l'uomo che un tempo era mio padre, ormai distante.

Anna arriva, trascinando  entrambi i nostri bagagli. Non ci stavo neanche pensando, mi spiace averla fatta faticare. Come farei senza di lei? 

«Michele...» L'ultimo richiamo svanisce dietro la porta chiusa. La sua voce sembrava rotta.

Non mi fa pena. 

«Tuo padre...» 

No, non è più mio padre. Non lo chiamerò mai più così. «Nicolò. Nicolò Bressan. Non chiamarlo "tuo padre". Non è p-p-più mio padre.» 

Anna sgrana gli occhi, apre la bocca come per dire qualcosa, poi la chiude. Annuisce. «D'accordo.» Abbassa gli occhi. «Devo... adesso devo uscire di nuovo e parlare con lui.»

«Non andare. Non c'è nient'altro da dire.» 

«Sono la tua manager e ci sono molte questioni contrattuali di cui devo discutere con lui.» 

La guardo negli occhi. Ha lo sguardo triste, le sopracciglia contratte.

Anna è buona. Le fa pena Nicolò, lo so, lo ha ammesso anche ieri notte. Ed è vero che ci sono delle questione contrattuali in sospeso. Perciò, a malincuore, la lascio andare.

Gli dica pure qualche parola gentile, la sostanza non cambia: lui non è più mio padre. Non c'entra né c'entrerà più niente con la mia vita. 

Sono orfano.

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Note note note

Un capitolo breve, ma davvero molto duro e amaro, in cui Michele ripudia definitivamente suo padre. Che ne pensate? Sarà una decisione definitiva?

Intanto, avrete notato che ho dato all'agenzia di Fernando un nome molto evocativo: star match! Ok,  non è molto fantasioso, lo ammetto, ma... STAR match, vi ricorda nulla? Tipo una cosina a cinque punte da accendere in cima al capitolo? Ecco. Grazie.

A lunedì!

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