78. Il figlio preferito
Il viaggio in taxi è stato un incubo.
Ho dovuto fare la fila, in mezzo a persone che non hanno fatto altro che parlarmi e rompermi le scatole e chiedermi informazioni sulla mia carriera senza essere veri conoscitori del tennis: uno di loro non sapeva la differenza tra uno Slam e un Mille, e credeva che Roma fosse un torneo del Grande Slam. Un altro mi ha chiesto: perché non vieni mai a giocare a Milano? Perché a Milano non ci sono tornei, è la ovvia e semplicissima risposta. Ma non ho potuto rispondergli (a lui, come a nessun altro), perché ero ancora in preda al mutismo, e all'angoscia, e il mio unico desiderio era vaporizzarmi all'istante.
Quando è arrivato il mio turno, ho mostrato al tassista il telefono con l'indirizzo, e lui ci ha impiegato cinque minuti a capire cosa gli stavo chiedendo: non sembrava un uomo molto sveglio. Gli indicavo l'indirizzo su Whatsapp e lui mi chiedeva: «Vuoi che ti porti qui? In questo posto? Ma è a Milano? English? Italiano? Perché non parli, sei muto? Hai bisogno di assistenza disabili?»
Alla fine per fortuna sono riuscito a farmi capire a gesti ed è partito. E mi ha portato a destinazione.
Peccato che, una volta arrivato, mi sono reso conto che avrei dovuto pagarlo e di non poterlo pagare perché non avevo contanti con me. Il tassista si è arrabbiato tantissimo, si è fatto violento, ho avuto paura che volesse picchiarmi. Sono riuscito a chiamare Anna e le ho chiesto di uscire di casa. È scesa e ha pagato lei per me, ma in quei cinque minuti in cui l'ho aspettata, solo insieme al tassista, ho avuto davvero paura che quell'uomo mi avrebbe fatto del male.
Ora sono a casa di Anna, se casa si può chiamare.
Non credevo potessero esistere delle abitazioni così piccole. Non mi è mai neanche capitato di stare in stanze d'albergo, così piccole. «Non sei mai stato in un monolocale?» mi ha chiesto Anna. È proprio ciò che è: una mono-stanza, nemmeno troppo grande, con un cucinino in un angolo, un tavolino per due persone, un armadio, un letto matrimoniale rialzato su un soppalchetto e una porta che dà su un minuscolo bagno cieco che mi viene un attacco di claustrofobia solo a vederlo da fuori.
Mi sta preparando la cena. «Una pasta al tonno, che è facile e veloce. Scusa se ti rovino la dieta, oggi, ma non ho altro in casa.»
Non sono ancora riuscito a spiegarle cos'è successo, perché ancora parlo a fatica. L'unica cosa che sono riuscito a farle capire è che Sara è morta. Le è dispiaciuto molto, aveva gli occhi lucidi, mentre mi consolava con un abbraccio. Mi ha chiesto se volevo scriverglielo, ma le ho detto di no: vorrei parlarne. Preferirei parlarne, avere un'interazione diretta con lei. Appena ci riuscirò. Ha capito e non ha insistito.
Gli spaghetti sono pronti. Hanno un ottimo profumo, sono conditi con un sugo rosso che contiene tonno, pomodori in scatola, olive e capperi. Non ho mai mangiato dei capperi.
Infilo il primo boccone tra le labbra, e... wow!
«È... è...»
«È?» mi incalza Anna.
Inghiotto. «È la p-p-p-pasta più b-b-buona che abbia mai mangiato in vita mia!»
Anna mi fissa seria per qualche secondo. «Mi prendi per il culo?»
Scuoto la testa.
Lei sorride. «Mangi proprio di merda, tu, se questa ti sembra la pasta più buona del mondo.» Arrotola una forchettata e la mette in bocca. Mastica mugolando. Inghiotte. «Cioè... non è male, eh, la pasta al tonno è un classico per quello, basta poco a farla decente... però... ecco... è una pasta al tonno. Non ci ho neanche messo l'aglio. Con l'aglio viene meglio. Ma l'aglio è un po' pesante, non lo uso quasi mai.»
«Buonissima» proseguo, incredulo. Non capisco se stia facendo la falsa modesta, o se abbia ragione sul fatto che mangio sempre roba poco saporita.
Finiamo il pasto rimanendo in silenzio, io mangio molto in fretta, come sempre quando sono nervoso, ma questa pasta è talmente buona che c'è anche dell'ingordigia nel mio volermi strafogare. Chiedo persino se ce n'è ancora, ma è finita. È rimasto un po' di sugo in pentola, e me lo mangio con un prodotto confezionato che si chiama Pan Bauletto (non l'avevo mai provato, ha un sapore un po' finto, ma non è male). Anna mi spiega che quello che ho appena fatto con il pane si chiama "scarpetta", io ho sempre sentito mio nonno chiamarlo "toč". Le piace la parola, dice che è onomatopeica.
Ci laviamo entrambi i denti (lei ci impiega solo tre minuti, però poi ha la buona grazia di passarsi il filo interdentale), e io le chiedo se posso farmi anche una doccia. Le dimensioni del bagnetto sono asfissianti, ma la doccia mi fa stare decisamente meglio.
Fa un po' caldo, Anna tiene l'aria condizionata molto bassa, quindi non uso il phon, mi limito a strofinare i capelli con l'asciugamano.
«Se stai cercando di sedurmi, ci stai riuscendo.»
«Eh?»
Anna fa una risatina. È stesa sul letto a soppalco, con una rivista appoggiata al cuscino e mi guarda dall'alto. Probabilmente legge la perplessità sul mio volto, perché cerca di spiegarsi: «Asciugamano sulle spalle, boxer attillati, torso nudo ancora un po' umido, capelli bagnati...»
«Oh... scusa, n-n-non... non volevo...» Finisco di strofinare capelli e collo, tirando alternativamente le due estremità dell'asciugamano e facendolo scorrere dietro la nuca. Quando ho finito, con un'ultima frustata lancio l'asciugamano sul tavolino.
Anna fa un'altra risatina. «E questa mossa da stripper?»
«Da c-c-cooosa?»
Anna mima il gesto che ho fatto per togliermi l'asciugamano, esagerandolo un po'. «Mancava solo che lo facessi roteare sopra la testa e me lo lanciassi... sembravi uno spogliarellista!»
La fisso perplesso.
Lei mi sorride dolcemente. «Dai, lascia perdere. Vieni qua. Scusa...» Sospira. «Scusa, ti stavo prendendo un po' in giro per sdrammatizzare, per...» Alza le spalle e fa una smorfia. «È una giornata molto triste.»
Annuisco. Prendo la maglietta pulita dal mio borsone e la indosso.
«Erano prese in giro fuori luogo» dice.
«No... sai... Ivan mi d-diceva sempre: vorrei avere qualcuno che mi fa ridere quando sono t-t-triste. Non mi stavi facendo ridere, ma apprezzo la tua intenzione.»
«Saggio Ivan...» commenta Anna.
Salgo la scaletta e mi stendo a letto con lei. Sono così felice di non dormire da solo, stanotte.
Spegniamo la luce e Anna viene vicino per abbracciarmi. La temperatura nella stanza è abbastanza gradevole. Mi stringo a lei.
«L'ultima volta che abbiamo dormito insieme, c'era...» Anna non finisce la frase.
La finisco io. «C'era anche Sara.»
Mi viene un po' da piangere, e mi lascio andare. Lei mi abbraccia forte.
La cena e la doccia mi avevano svuotato il cervello e calmato. Ma adesso mi sta ripiombando tutto addosso. La morte di Sara, quello che le hanno fatto mio padre e mia zia...
«Vuoi parlarmene? Ce la fai?»
E parlo.
Le racconto tutto. Voglio farlo.
Voglio condividere con un'amica ciò che sento e penso. Il mutismo mi è passato. Riesco a parlare, ora, anche se balbetto molto. Le spiego nel dettaglio ciò che è successo, le spiego cos'è che mi ha fatto soffrire di più, cioè l'idea che Sara sia morta sola. È un'idea che mi perseguiterà per sempre.
«Che cosa orribile...» commenta Anna, alla fine del mio racconto.
E le riferisco anche la frase rivoltante che ha detto mia zia per giustificare tutto, cioè che mio padre era il proprietario del cane, e che quindi aveva l'ultima parola sulla questione.
Anna sospira. Siamo al buio. lo sono supino e lei è stesa al mio fianco, con una mano sul mio petto. Gliela sto stringendo. Mi piace questo contatto.
«Tua zia è un po' così» dice.
Le chiedo cosa significhi questa frase.
«Non penso sia cattiva.»
«Come p-p-puoi d-d-d...»
«Aspetta, aspetta, fammi finire. Sa essere stronza. Stronzissima, spietata, e tante volte... tante volte sembra che vede il mondo fatto solo di numeri. Ma io l'ho conosciuta, durante questi mesi che ho lavorato per te, e... da un po' di cose che mi ha detto, da certi momenti in cui si è un pochino aperta... secondo me non è sempre stata così. Si è indurita con gli anni e con le batoste. È... una specie di corazza, di meccanismo di difesa, per lei. Capisci?»
Mi torna in mente quella volta in cui Raffaele mi ha detto che mio padre è come se fosse chiuso in un guscio. Mi sembrano solo scuse. Scuse per giustificare la crudeltà.
«Quali b-batoste?» le chiedo.
«Il divorzio dal marito, per dirne una... tipo, lo sapevi che lui l'aveva tradita? Sono sicura che abbia sofferto molto, per questa cosa. E poi... be'... di questo sono sicura, invece, perché me ne ha parlato... Lei voleva molto bene a sua sorella.»
Ho un sussulto. Non mi aspettavo che nominasse la mamma.
«Non mi importa, comunque. Non la p-p-perdonerò mai» concludo.
«Adesso ti sembra tutto nero, perché è appena successo, ma vedrai che...»
«No.»
Rimaniamo zitti. Si sente il rumore del traffico da fuori, anche se le finestre sono chiuse, e il ronzio lieve dell'aria condizionata.
«Hai licenziato me, spinto dalla rabbia di un momento, e adesso siamo stesi insieme a letto, e prima mi hai detto di essertene pentito. Cambierai idea anche su questo.» Anna ne sembra molto sicura.
«P-p-possibile che non vedi la differenza?»
Lei non risponde.
«Il t-tuo licenziamento è stato un errore, un... un c-c-capriccio, un moto di rabbia. È vero. Tu.. avevi fatto qualcosa che c-continuo a reputare sbagliata, molto sbagliata, ma non era imp-p-perdonabile, non era una cosa... aaaaabominevole, come quella che mio padre ha fatto a... a...» Devo prendere un respiro. «A Sara, con la c-coooomplicità di mia zia.»
Anna continua a non dire nulla.
«Non vedi la differenza? Non smetterò mai di p-p-pensare che mio padre abbia compiuto un atto abominevole. Mai!»
«Ha fatto una cosa molto brutta, è vero» conviene lei. «Però... è pur sempre tuo padre.»
«Non mi importa. Non sono mai stato molto legato a lui. E ora che è successa questa c-cosa, non voglio più avere l... legami di alcun genere con lui.»
Restiamo in silenzio per un po', e la sento sospirare.
«Che brutta situazione.» Mi abbraccia. L'abbraccio anch'io.
«Mi sei mancata» le dico, senza nemmeno balbettare.
«Sai... mi sei mancato anche tu. Mi è mancata la tua disarmante sincerità. E il fatto che sei l'unico uomo che vuole dormire con me senza volermi scopare.»
«Non voglio solo dormire, c-con te» le dico. «Mi piace anche p-p-parlare con te. Scusa se ti ho licenziata.»
«Me l'hai già detto. Non ripeterti. Ti devo chiedere scusa anch'io. Ho oltrepassato un limite che non avrei dovuto oltrepassare, tra te e Ivan. Pensavo di farti del bene, di darti una svegliata... ma non avrei dovuto farlo.»
Annuisco. E prendo il coraggio di chiederle una cosa a cui pensavo da giorni: «P-posso assumerti di nuovo?»
Fa una risatina. «In qualità di amica? Lo faccio gratis.»
«Non ho più un allenatore e non ho più un m-mmmmmanager.»
«Vuoi che ti alleno io?» scherza lei.
«No, che mi fai da manager.»
Lei borbotta, emette dei suoni indistinti. La sento agitarsi sotto le lenzuola. Si gira di spalle, ma continua a tenermi il polso. Vuole che continuo ad abbracciarla? Lo faccio. La tengo stretta poco sotto il seno. «E lo chiedi a me perché sono l'unica persona che conosci?» dice infine.
«No! P-perché mia zia, quando ti ho licenziata, mi ha imp-p-plorato di non farlo, mi ha detto che sei stata la migliore assistente che abbia mai avuto, che sei sveglia, intelligente e impari in fretta. E io sono d'accordo! Voglio dire: sei c-così giovane e vivi già da sola!»
Questa osservazione sembra divertirla. «Ci sono un sacco di ragazze della mia età che vivono da sole.»
«E studi e lavori allo stesso tempo! C-c-come fai?»
Ridacchia di nuovo. «Anche questo non è niente di eccezionale, ti giuro. Un sacco di persone lo fanno, e hanno voti anche meglio dei miei agli esami.»
Mi sembra si stia sforzando di fare la modesta.
«E poi faccio psicologia, mica ingegneria aerospaziale!» aggiunge.
«Psicologia, come mia zia Elena, che è la persona p-p-più intelligente che conosco.» È vero. È una persona orribile, ma è molto intelligente.
Lei ride. «Quello che voglio dire è... che... noi modelle siamo famose per essere belle e sceme.»
«Tu sei tutto il c-c-contrario» le dico.
«Cioè sono brutta e intelligente?»
Non sono proprio capace di esprimermi. «A volte mi sento c-c-così stupido...»
Lei intanto ride. Nonostante abbia fatto una figura da stupido, queste risate mi fanno piacere. Mi stanno sollevando il morale.
«Ho notato che mi c-c-capita spesso con te» le dico. «Sentirmi s-stupido. Anche questo, secondo me, significa che sei più intelligente di me.»
«Per quello ci vuole poco.»
Non rispondo.
«Se non l'avevi capito, ti stavo prendendo in giro.»
«Forse non c-c-ci crederai, ma l'avevo capito.»
Anna ridacchia. «Bravo, stai migliorando!»
«Sai chi è un'altra persona con c-c-cui mi sento sempre stupido? Andrej.»
Anna emette un suono raschiato dalla bocca. «Con lui mi sento scema anch'io. Non capisci mai se è serio o se ti prende per il culo!»
Ah, allora non è solo un mio problema!
«Va bene un po' di sarcasmo, ma lui è troppo sarcastico!» prosegue lei.
E poi va avanti a parlare di lui, ed elenca tutti i motivi per cui gli sta antipatico, e tutti i messaggi di presa in giro che le ha scritto, e le cose che le dice ogni volta che la incontra di persona. «Non lo sopporto» conclude dopo circa dieci minuti di monologo. «Uff, scusa, mi sono fatta trasportare. Com'è che siamo finiti a parlare di Andrej?»
Le chiedo scusa di averlo tirato in ballo. Non pensavo lo odiasse a tal punto.
«No, fa niente... Non è che lo odio, mi sta solo antipatico... Comunque... cos'è che stavamo dicendo prima di metterci a parlare di Andrej? Ah si, che sono bella e intelligente.»
«Sì. E siccome sei intelligente voglio che d-diventi la mia manager.»
«Ecco. Hm.» Fa un sospiro, si libera dal mio abbraccio e si rimette stesa a pancia in su. La imito. «Il problema è che... Ok. Lo so di non essere stupida. Ma... Mettiamola così: mentre la mia bellezza fisica è sopra la media, la mia intelligenza no. Prima parlavamo di università, ok? Ho la media del ventisei. Ok? Non è male, ma ci sono ragazze in corso con me che hanno la media del trenta! E tu chiedi a me di diventare la tua manager, a me e non a una di loro, per il semplice fatto che conosci me e non loro. Il problema è che tu conosci solo me, e quindi non mi chiedi di essere la tua manager perché sono la persona più qualificata che conosci, ma perché sono l'unica persona che conosci!»
«Ma...»
«No, aspetta. Non ho finito.»
Aspetto.
«C'è anche un altro problema. Un ostacolo. Che io voglio fare la modella. Voglio diventare famosa. Ricordi? È cominciato tutto così. Sono diventata la tua beard per ottenere un po' di fama dal rapporto con te. E poi, qualche mese fa, di nuovo, sono venuta da te disperata perché Fernando mi aveva fatto terra bruciata intorno e non riuscivo più a trovare lavoro.»
«P-puoi fare entrambe le c-c-cose, se vuoi, p-per me non c'è problema» le dico.
«È impossibile. Tu non te ne rendi conto, non sai quanto impegno ci vuole per curare i tuoi affari, per consentire a te di concentrarti solo sul tennis. Quando facevo da assistente a tua zia avevo a malapena tempo per lavarmi. Ed ero semplicemente la sua assistente, molto del lavoro lo faceva lei. Se devo curare la tua carriera al cento per cento, non posso curare anche la mia, di carriera.»
«Be'» provo a suggerire, «potresti p-pubblicare più cose sul tuo Instagram, e p-poi, ti ricordi c-che ti avevo suggerito di farti anche un canale YouTube?»
Anna fa schioccare la lingua. «Tu proprio non hai la minima idea... Chi me li monta i video?»
«Eee... mm... Li fai tu col cellulare, no?»
Fa un lungo sospiro vocale. «Quello sarebbe il girato. E mettiamo pure che riuscirei a trovare il tempo per girare qualcosa di interessante, mettiamo, ok? Una volta che il girato è pronto, il girato va montato.»
«C-cosa significa "montato"?»
«Che devi sistemare il video. Tagliare i tempi morti, mettere insieme i vari pezzi, aggiungerci magari della musica...»
«Ed è un lavoro molto lungo?»
«Ore di lavoro, se vuoi una cosa fatta bene. E per giunta devi saperlo fare. Io non lo so fare, dovrei appena imparare a usare i vari programmi... E poi, dopo che hai fatto il video e l'hai pubblicato, lo devi promuovere. YouTube è una piattaforma dove è molto difficile farsi notare, anche se hai già una fanbase.»
«Q-quindi la risposta è no. Non vuoi più lavorare per me» concludo.
«La cosa migliore, per te, sarebbe chiedere all'agenzia di Fernando che ti affidino un nuovo manager. Ho sempre trovato un po' strano il rapporto che c'era tra tua zia Elena e l'agenzia. Spesso facevamo io e lei il lavoro che avrebbero dovuto fare loro. Tipo, il contratto con Versace...»
«Me l'hai t-t-trovato tu, lo so! Vedi come sei brava?»
«Sì, aspe'... Le contrattazioni le ha fatte l'agenzia, io da sola non avrei saputo scucire un contratto così buono. Però tutto il lavoro di public relations iniziale l'ho fatto io.»
«Vedi? Sei meglio tu dell'agenzia!»
«Ti è sfuggito il pezzo in cui dicevo che da sola non sarei mai riuscita a scucire un contratto ricco?»
«Non mi imp-p-porta dei soldi.»
Anna sospira ancora. Sta sospirando molto. «Nonostante tutto quello che ti ho detto, vorresti ancora che io fossi la tua manager?»
«Se lo vuoi anche tu, sì.»
Resta in silenzio.
«Ma t-tu non lo vuoi, perché vuoi concentrarti sulla tua carriera?» chiedo, titubante.
Sono davvero solo, quindi. Mi restano soltanto Ethan e Armando. E l'agenzia. Non so neanche da dove cominciare a rapportarmi, con quelli dell'agenzia. Cosa faccio? Li chiamo e dico: mi servono un manager e un coach? Ma con chi parlo? E che numero devo chiamare? Ce l'ho il numero di Fernando? Forse sì, devo controllare.
«Sai, io e te un po' ci somigliamo » dice Anna, riscuotendomi dalle mie preoccupazioni.
«In c-cosa?» le chiedo. A me sembra che non ci somigliamo per niente. Anzi, mi sembra che siamo praticamente all'opposto, in qualsiasi aspetto della nostra persona e del nostro carattere.
«Anch'io, come te, avevo un genitore ossessionato che mi ha trasmesso la sua ossessione» spiega lei.
Non mi piace come sta descrivendo la mia passione per il tennis. Il mio è un sentimento autentico, non è semplicemente qualcosa che mi è stato inculcato.
«Tu avevi tuo padre, che ti faceva allenare da mattina a sera da quando avevi quattro anni. Giusto?»
No. Mia madre è stata molto più importante, nella mia formazione. È stata lei che mi ha insegnato a ricercare la bellezza nei colpi e nel portamento. È stata lei che mi ha insegnato il rovescio a una mano, il mio colpo più bello, il mio colpo più iconico. Mio padre non era d'accordo. Lui odia i rovesci a una mano, ed era contrario al fatto che mia madre me lo insegnasse. Quindi Anna si sbaglia. Ma non mi va di parlare della mamma, quindi le dico di sì.
«Ecco. Nel mio caso era mia madre.» Fa una pausa, ma ho l'impressione che voglia continuare a parlare, quindi resto zitto.
E infatti parla. «Ho fatto la mia prima pubblicità a tre anni. Ovviamente di quella non ho ricordi diretti, ma da che ho memoria, la mia infanzia è stata tutta una serie di provini, servizi fotografici, concorsi di bellezza per bambine. Sono volata persino negli Stati Uniti, per farne alcuni, insieme a mia sorella. Mia sorella però era meno carina, quindi le energie di mia madre si concentravano tutte su di me.»
«E tua sorella c-cosa diceva?» So poco di lei, solo che esiste e si chiama Amanda.
«Mia sorella ci soffriva tantissimo. Non siamo in buoni rapporti, mi odia. Quando ero più piccola pensavo fosse tutta invidia e non me la calcolavo, ma adesso mi dispiace. L'avrei odiata anch'io, se fosse stata lei la preferita di mia madre.»
Che comportamento orribile, da parte di un genitore!
«E anche tu e tuo fratello siete in una situazione simile, mi pare di vedere.»
No. La nostra situazione è molto diversa, perché nel mio caso c'è un buon motivo se i miei genitori hanno sempre seguito più me di mio fratello. Non è una questione di preferenza: io mi sono sempre impegnato molto più di mio fratello, perciò hanno semplicemente premiato il mio impegno. Cerco di spiegarlo ad Anna.
E lei emette un lungo «Hmmm» che non riesco a interpretare. «Come fai a sapere qual è l'effetto e qual è la causa?» mi chiede infine.
Rifletto un po' sulla sua domanda, perché non la capisco, e alla fine mi arrendo e le chiedo di spiegarsi meglio.
«Hai detto che tu ti impegnavi di più ad allenamento, quindi sei diventato più bravo, quindi eccetera, eccetera... Ma magari il motivo era che sei sempre stato il preferito dei tuoi, da quando eri piccolo piccolo, da prima che cominciassi ad allenarti... I bambini lo sentono, lo capiscono, quando vengono messi da parte, forse tuo fratello non ha mai avuto gli incentivi che hai avuto tu. Non ci hai mai pensato?»
Scuoto la testa, poi mi rendo conto che è buio e non può vedermi. «Mio f-fratello aveva cinque anni, q-quando sono nato, e poi ne sono p-passati altri quattro prima che cominciassi ad allenarmi.»
«E questo cosa significa?» Mi chiede. «Com'era tuo fratello a nove anni?»
«In che senso?»
«Era bravo a tennis? Promettente?» specifica.
«Non lo so... non me lo ricordo. Mi sembra che è sempre st-t-tato scarso.»
«Magari da piccolo era bravo, e poi si è demotivato quando si è reso conto che i tuoi genitori preferivano te a lui.»
Che pizza! Perché insiste tanto? «No.»
«Non puoi...»
«No! Smettila di insistere!» Mi giro nel letto e le do le spalle.
Anna sbuffa. «Va be', hai ragione, la stavo facendo un po' lunga senza motivo, scusa. Comunque... cosa stavo dicendo? Ah sì. Il mio punto era che... è da quando sono piccola che sogno di diventare famosa, e anche se non è un sogno veramente mio, è difficile abbandonare un'idea, quando l'hai portata con te per così tanti anni... quasi venti!»
«Capisco.»
Quindi è un no? Definitivo? Non lavorerà per me? Mi sembra che stia cincischiando.
«Però...» dice.
Giro la testa verso l'alto, l'orecchio rivolto a lei.
«P-però?» la incalzo.
Lei sbuffa. «Però... questi due mesi che ho lavorato per te... è stato stressante, e stancante, e c'erano certi giorni che prendevo... troppi caffè e poi di sera stavo male e pensavo: ma chi me lo fa fare? Però... però la soddisfazione che ho provato quando ottenevamo dei risultati grazie a quello che facevo... le tue foto su GQ per la tua mise di Wimbledon, ad esempio, o quando ho trovato i contatti per il contratto con Versace, io... io non ho mai provato un senso di realizzazione simile, col mio lavoro da modella, o con le comparsate da valletta che ho fatto in TV... o coi concorsi di bellezza che ho vinto.
«Sai, quando ero piccola, mia mamma mi raccontava spesso delle storie, erano tipo dei sogni a occhi aperti. Sei così bella, mi diceva, vedrai, quando sarai grande vincerai Miss Italia, e ti daranno uno scettro, una corona e una fascia, sarai la reginetta d'Italia, la ragazza più bella di tutte, e tutti ti ammireranno, e farai un discorso di ringraziamento e ti commuoverai, e ti si scioglierà il rimmel sulle guance... hai capito? Aveva deciso persino le emozioni che avrei dovuto provare! E però io da piccola ci credevo, mi ci immedesimavo. Avevo una piccola tiara di plastica, e mi ero fatta uno scettro con un manico di scopa e una fascia con una vecchia calza, e giocavo a Miss Italia. Questa cosa del rimmel sulle guance era un particolare che mi aveva colpito tanto. Me lo mettevo sulle ciglia, e poi mi bagnavo gli occhi con l'acqua per simulare il pianto e rigarmi le guance di nero.
«Poi sono cresciuta, e qualche concorso di bellezza l'ho vinto davvero. Non sono stata Miss Italia, ma ho partecipato due volte al concorso: una come Miss Sicilia, l'altra con un titolo minore. Ho vinto quei due titoli, per arrivare lì, e quando li ho vinti ricordo mia madre commossa in prima fila, mentre mi mettevano la fascia di miss. Ma io non provavo niente.»
Ho un piccolo sussulto. «Anch'io!» esclamo.
«Anche tu?» mi chiede in tono sorpreso. «In che senso?»
Le racconto della mia difficoltà a provare emozioni quando vinco, nonostante da piccolo avessi sempre sognato quei momenti, e sognato di buttarmi a terra dalla gioia, reagire come vedevo reagire gli altri tennisti quando vincevano. E di quanto sia frustrato dal fatto che quell'emozione non sono riuscito a provarla nemmeno quando ho vinto uno Slam.
«È stato uguale anche p-per te?» le chiedo alla fine.
«Simile» risponde lei. «Tutti e due avevamo aspettative che venivano da fuori. Estrinseche. Io da mia madre, tu dai tuoi genitori e dagli altri tennisti. Tutti e due ci siamo rimasti male quando abbiamo capito che erano aspettative sbagliate e che le nostre emozioni erano diverse.»
«Si vede che studi p-p-psicologia» commento.
Lei fa una risatina. «Ah, ma questa non e psicologia! Questo è senso comune. Robetta che potresti leggere su un giornale femminile, nella rubrica quella dove ti danno i consigli di vita, subito dopo l'oroscopo.»
«Sui giornali femminili ti d-d-danno i consigli di vita?»
Lei fa l'ennesima risatina e non risponde, ma la mia era una domanda seria! Devono essere letture interessanti, se davvero ci sono riflessioni di questo tipo.
«E adesso ti regalo un'altra perla psicologica» dice.
«Wow» commento.
«Non ho capito se stai facendo il sarcastico, o se non hai capito che io stavo facendo la sarcastica.»
Resto zitto.
«La seconda, vero?»
«T- Temo di sì.»
Mi batte la mano sulla spalla per due volte, come per consolarmi. «La perla è questa.» Mette un accento su "perla". «Che siamo tutti e due insoddisfatti, per ragioni diverse.»
Ora sono deluso: mi sembra un'osservazione ovvia.
«E con questo torniamo al punto iniziale, cioè che io voglio diventare famosa. Ma allo stesso tempo, tutto quello che faccio per diventare famosa non mi soddisfa mai. È come... come quando fumi una sigaretta, che la vuoi e la vuoi, e mentre la fumi ti piace, ti dà un piacere... non so come descriverlo... soddisfa un tuo bisogno, esattamente come quando mi fanno un complimento e mi dicono che sono bella. Poi, però, quando è finita, ti lascia quel sapore amaro in bocca, e la sensazione che è stata una cosa inutile, vuota, non vuoi farlo più, ma dopo un po' ti dimentichi dell'amaro, ti ricordi solo il piacere, anche se è un piacere... effimero, passami il parolone. E quindi vuoi farlo di nuovo, e avanti così, in loop, all'infinito.»
Non so cosa commentare, se non: «Non sapevo c-che fumassi. E una cosa che mi dà molto fastidio, p-per favore non farlo in mia presenza.»
«Non preoccuparti, precisino. Ho smesso. Lo facevo da ragazzina. Ad ogni modo, non era quello il punto fondamentale del mio discorso.»
«E qual era?»
Anna sospira. «Hai ragione, non era un discorso molto chiaro, sono partita per la tangente... il punto era che... la soddisfazione che ho provato poco fa, quando mi hai detto che tua zia non voleva che tu mi licenziassi perché sono sveglia e intelligente... è indescrivibile. Anche perché tua zia è una tipa molto dura, queste cose non me le aveva mai dette esplicitamente, anzi, mi criticava, aveva sempre solo parole negative.»
«Perché è una p-p-persona cattiva» commento.
«No» dice subito lei. «È esigente. È diverso. Un complimento come quello che mi ha fatto vale diecimila "sei bellissima".» Fa una pausa. «A ben vedere i diecimila "sei bellissima" non valgono proprio una minchia. Cosa ho fatto per meritarli? A parte nascere bella? E poi la bellezza è una cosa che non dura per sempre, sei bello solo quando sei giovane. Se il mio scopo è diventare famosa sfruttando la mia bellezza, quando smetterò di essere bella, cosa farò? Non voglio diventare una rifattona disperata...»
Non posso fare a meno di pensare al fatto che anche le mie abilità sportive dureranno poco: a trentacinque anni, o giù di lì, la mia carriera sarà finita, e dovrò trovare qualche altro obiettivo con cui riempire le mie giornate. Forse Anna ha ragione, io e lei siamo più simili di quel che sembra.
«E q-q-quindi» accenno, «hai deciso c-c-c-che accetti? No, perché da ciò che stai d-d-dicendo...»
«Nonostante tutto quello che ti ho detto, tu vuoi ancora che io sia la tua manager?» mi chiede lei.
«Quali cose?»
«Che sono sottoqualificata. Che la cosa più saggia che dovresti fare è chiedere alla tua agenzia di affidarti un manager. Ma tu continui a preferire me.»
«Sì.»
«Bene. E allora me me approfitterò.»
Ho una specie di singulto. «Davvero?»
«Sembri contento!»
Lo sono! E cerco di esprimerlo meglio possibile a parole. «Oggi è stata una d-delle g-g-giornate più brutte della mia vita. Ma accettando mi hai d-d-davvero regalato un momento di felicità.»
Anna sospira, si muove verso di me e mi abbraccia da dietro. «Ma quanto bisogno d'affetto hai, tu?»
In realtà io non sono alla ricerca di affetto. Non voglio relazioni sentimentali, sono una complicazione. Mi piacciono la vicinanza e il contatto fisico, questo sì. Infatti ricambio volentieri il suo abbraccio, stringendo le sue braccia contro il mio petto. Ma l'unico amore che abbia mai voluto, cercato e ricambiato è stato quello della mamma.
E di Sara.
Mi manchi, Sara. Mi mancherai sempre.
Esprimo questi pensieri ad Anna.
«Piccola Sara...» dice lei. «Non mi sembra possibile che...» Lascia la frase in sospeso. «Dici che il suo amore è l'unico che ti sia mai interessato.»
«Sì» confermo.
«E Ivan?»
La domanda mi lascia per un attimo senza fiato.
Lei se ne accorge. «Hai sussultato» dice.
«Ivan era un amico. Adesso e sssolo un r-r-r-ri-r-r...» Non riesco a finire la parola. Non la finisco.
«Un r...?» mi incalza lei.
Non rispondo.
«Un rivale? Perché non riesci a dirlo?»
«Perché sono b-b-balbuziente e ogni tanto mi inceppo» rispondo. Ma capisco che nella sua domanda c'era un sottinteso: Ivan non era semplicemente un amico e non era semplicemente un rivale.
«Stai mentendo a me, e forse anche a te stesso» dice lei.
«Era il mio ragazzo, ok» ammetto. «Ma non d-do nessun significato a quella formula. Non la c-capisco. Non è cambiato molto tra di noi, dopo che lui me l'ha c-chiesto.»
«Le definizioni non contano, conta quello che senti.» Anna mi batte un pugno sul petto. «Quello che senti qui.»
«Sembra una frase tratta d-da una c-c-canzone d'amore» commento.
«Grazie» ribatte lei.
«Non era un complimento» preciso. «lo odio le canzoni d'amore.»
Lei sospira. «Sei davvero una persona difficile.»
Mi rendo conto di essere stato maleducato e le chiedo scusa. «Non volevo offenderti.»
«Sì che volevi farlo. Ma accetto le scuse» mi risponde in tono contrito.
«V-vuoi anc-cora essere la mia manager?»
«Certo. Non sono mica una bambina. Sarò la tua manager. Anche se mi sto approfittando di te.»
«Non è vero.»
«Sì che è vero. Una persona pura di cuore, una vera amica, al posto mio ti avrebbe detto di no e ti avrebbe costretto a contattare la tua agenzia per farti affidare un manager vero. Ma io non lo sono, e mi approfitto della tua offerta per provare a ottenere una realizzazione personale.»
Non capisco il suo discorso. A me sembra di essere io, che mi approfitto di lei.
«Però ti prometto una cosa. Mi senti?»
«Sì.»
«Ti prometto, ti giuro che mi impegnerò al massimo, darò tutta me stessa per essere la manager migliore possibile.»
La abbraccio, al buio, stringo il braccio con cui mi sta stringendo il petto, e penso a quando mi addormentavo abbracciando Sara, e penso che forse riuscirò a superare la sua perdita.
Mi sento triste, ma insolitamente ottimista.
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Note note note ♫
E finalmente sembra che le cose vadano un pochino-ino meglio, anche se gli ostacoli da affrontare sono ancora tanti.
Finalmente il tono un po' più positivo del capitolo mi fa sentire di nuovo a mio agio a elemosinare stelline! Siccome Anna ha preparato la pasta a Michele, che ne dite di un po' di queste?
True story: una volta mi ero preparata un sugo all'amatriciana prima di rendermi conto che avevo finito quasi tutta la pasta, e mi sono trovata a mangiare un bel piatto di stelline all'amatriciana. Posso dire che sono meglio di quel che si potrebbe pensare?
A giovedì!
(Ricordate: due capitoli a settimana)
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