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77. Ostacoli insormontabili

Papà dice altre cose, ma non le sento. Ho l'udito ovattato, e un solo pensiero in testa: ho lasciato Sara da sola il giorno che è morta. 

È morta senza che io le tenessi la zampetta. Non ho parole, davvero, non posso trovarle, per dire quanto mi faccia male questo pensiero. 

Quando siamo arrivati a Milano, subito dopo pranzo, papà l'ha inquadrata. Era viva. Stava respirando! E adesso non c'è più. 

È morta sola. L'ho lasciata sola per fare questo stupido servizio fotografico. L'ho lasciata sola per avere un paio di milioni in più in banca, quando per Sara li avrei dati tutti, i miei soldi, avrei mollato il tennis, per lei, avrei... 

«Si sente bene?»
«Michele, riprenditi!»
«È Bressan, il tennista...»
«C'è bisogno di un'ambulanza?»
«Sono un medico, serve aiuto?» 

Mi accorgo di essere accasciato a terra. Mi fischiano le orecchie.

Mi è caduto il cellulare. Gente, gente, gente intorno a me. «Fategli spazio!» ordina la zia.

Non è vero. 

Non avrei mai mollato il tennis. 

Non l'ho fatto. 

L'ho lasciata per due mesi con mio fratello, l'avrei lasciata con mio nonno per andare negli Stati Uniti, fra tre giorni. 

L'ho lasciata sola, oggi, nel giorno peggiore. L'ho lasciata morire sola, perché la mia carriera è più importante. Ero il centro del mondo, per Sara, e l'ho lasciata sola. Quante volte l'ho lasciata sola, per badare a ciò che conta di più per me: il tennis. 

Dicevo e pensavo di amarla, ma è evidente che non fosse vero. Non so cosa vuol dire amare. 

Di punto in bianco mi torna in mente ciò che mi ha detto Ivan il giorno in cui ci siamo lasciati: forse un giorno Misha impara cosa vuol dire amore. Io pensavo parlasse solo dell'amore romantico, invece, forse senza intenderlo, aveva ragione sotto tutti i punti di vista. Sono solo uno stupido bambino egocentrico incapace di amare. 

La gente intorno a me sta parlando. Un uomo mi sta prendendo il polso, me ne accorgo solo ora, da quanto è qui? Gli sento pronunciare le parole: "Attacco di panico". 

Basta. Non devo piangermi addosso. Mi lamento di essere egocentrico, ed è questo stesso un sintomo di egocentrismo, ne sono consapevole. 

Raccolgo il telefono da terra. Papà è ancora in linea e sta chiamando il mio nome. «Com'è successo?» gli chiedo, con un filo di voce. 

E ciò che dice, se possibile, mi sconvolge ancora più della notizia della morte. 

«Non preoccuparti. Non ha sofferto. Il veterinario è stato bravissimo. Se n'è andata dormendo.»

Mi sconvolge al punto che penso di aver capito male. Ciò che ha appena detto può significare solo una cosa, ma ugualmente mi convinco di aver capito male. Cosa c'entra il veterinario? Com'è successo? Come è morta?

«Si è addormentata, era molto tranquilla. Il veterinario mi ha assicurato che non ha sofferto.»

«Le hai f-f-fatto l'eutanasia?» Ho bisogno di sentirmelo dire esplicitamente, perché sono ancora incredulo. Prima ancora che parli papà, sento la voce di zia Elena sussurrare alle mie spalle: «È meglio così, Michele.»

Il mio nome si sovrappone alla voce di papà. «Quella povera cagnolina stava soffrendo le pene dell'inferno. E aspettare avrebbe fatto soffrire di più anche te.»

Sono senza fiato. Letteralmente. Apro la bocca per parlare e non riesco a far uscire suoni.

Forse perché mi sente zitto, papà continua. «Io ti conosco, Michele, tu non avresti mai trovato il coraggio di farlo.» 

«N-n-no i... hhh... iiooo...» riesco a sussurrare con la voce strozzata. 

«Sì, dicevi che l'avresti fatto, ma io ti conosco. Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stesso. Avresti rimandato all'infinito. E non te lo saresti più perdonato.»

«No...» La mia voce è un sibilo. 

«Sì, invece. E sarebbe stato peggio. Per lei e soprattutto per te.» 

«No!» stavolta mi esce un grido, rotto, sgradevole, incontrollato. 

«Michele, calmati, l'ho fatto per aiutarti.» Mentre papà lo dice, mi accorgo che davanti a me un ragazzo mi sta filmando. Senza neanche pensare a ciò che sto facendo, tiro uno schiaffo al suo telefono e lo faccio volare, a parecchi metri di distanza. 

«Oi, ma che cazzo...» dice quello. Poi comincia a lamentarsi, a mugolare, finge, lo so che finge, ci ha impiegato troppo a reagire. Dice che gli ho fatto male, ma io lo ignoro, mi allontano da lui.

«Sei...» dico nel ricevitore. Non so che parola usare.

«Michele, capisco che sei arrabbiato» dice mio padre in tono sommesso. Sembra quasi sincero nella sua tristezza, ma non posso credere che lo sia davvero, non dopo quello che ha fatto. Lui è... «Ma vedrai che quando ti passa l'arrabbiatura, capirai che è stata la cosa migliore, per te e per lei. Fidati di me.» 

Un mostro. Ecco la parola.

«Cos'hai detto?» mi chiede mio padre. Ho mormorato qualcosa, è vero. Ma non sono riuscito a dirlo bene. 

Prendo un respiro. Mi sento calmo, stranamente calmo, e quando parlo la voce mi esce controllata, come non è mai stata in tutta la mia vita, controllata come lo è di solito quella di mio padre. «Sei un mostro.» 

«Ho fatto la cosa più umana che si potesse...» 

«L'hai fatta morire sola.» È una voce che mi sembra quasi non provenire dal mio corpo, è un'altra persona che parla, un uomo duro e deciso che era nascosto da qualche parte dentro di me. 

Mio padre resta in silenzio per qualche secondo. «Io...» Esita ancora un attimo. «C'ero io, con lei.»

«Tu per lei non eri niente.»

Mio padre resta in silenzio, e io continuo a parlare. «Io volevo tenerle la zampa, e accarezzarla, mentre si addormentava. Volevo che si addormentasse felice, insieme alla persona che amava di più al mondo.» Mio padre continua a restare zitto, ma sento il suo respiro. 

«E invece tu l'hai fatta morire sola.» L'angoscia mi occlude la gola. Apro la bocca per inghiottire aria. «L'ultima c-cosa...» devo respirare di nuovo, sento il pianto rompere il mio respiro, «l'ultima cosa che Sara ha p-p-p-provato nella sua vita è stata solitudine.» Singhiozzo. «Ed è tutta colpa tua! È m-m-morta sentendosi t-t-triste e abbandonata! P-p-p-per colpa tua!»

E mi torna in mente ciò che mio padre ha detto a mio nonno, poche sere fa. Mio padre sta parlando, lo interrompo: «Sei un uomo trist!» Questo aggettivo è migliore della sua traduzione italiana, c'è una nota di amarezza, dentro. «Sei un mostro trist, e io non voglio più vederti.» 

«Michele...»

«Vattene da Capriva. Vai a Bovec, vai dove ti pare, ma se ti incontro di persona ti ammazzo.» 

«Michele, non straparlare, hai...» 

«E questa è l'ultima volta in vita mia che ti parlo.»

Chiudo la chiamata. 

Non ho mai odiato qualcuno così tanto. Pensavo di odiare Ivan, quando mi ha sconfitto a Wimbledon, ma questo è un sentimento molto più violento. Sento davvero il desiderio di ucciderlo, il desiderio di farlo soffrire come lui ha fatto soffrire Sara. 

E a ogni modo, mio padre è morto, per me. Non esiste più.

Cerco la zia con lo sguardo e noto che stava tenendo a bada i curiosi, qualche metro più in là.

Mi avvicino. Il tizio a cui ho rotto il cellulare sta ancora piagnucolando. «Devo andare da un medico e farmi diagnosticare i danni ossei. Potrebbe avermi rotto un dito!»

«Se te l'avesse rotto, ti si sarebbe gonfiato e non riusciresti a muoverlo» gli ribatte l'uomo che mi aveva preso il polso. «Non ti ha fatto niente.»

«Lo deciderà il mio medico, come sto!»

«Lo deciderà una perizia imparziale» ribatte la zia. È a questo punto che decido di prenderla in disparte. Riusciamo a liberarci dei rompiscatole (non prima che il ragazzo del cellulare mi minacci di causa), e vado subito al sodo. «Devi licenziare mio p-padre.»

La zia mi fissa per svariati secondi, prima di parlare. «Non credo di aver capito bene.»

«Ciò che ha f-f-fatto è inqualificabile. Mostruoso. Non voglio mai p-p-più averci a che fare. Licenzialo. Non è più il mio allenatore.»

La zia fa un sospiro e accenna un sorriso. «Ha fatto la cosa più umana per lei.»

«L'ha fatta morire sola! Ha...» Mi blocco, perché mi rendo conto di una cosa. «T-tu... lo sapevi?»

La zia stringe le labbra. «Non te l'ho detto perché pensavo che non aveva senso agitarti prima di partire.»

«Da quanto lo sapevi?» 

«Era la cosa più...» 

«Da q-q-quanto lo sapevi?» ripeto, a voce più alta. 

Non risponde. 

Mi fissa con uno sguardo duro. 

«Stamattina, prima che partissimo, lo sapevi già?» 

Ci impiega qualche secondo ad annuire. 

«E t-tu... gliel'hai lasciato fare?» 

«Non mi sono intromessa, sono questioni che deve decidere il padrone del cane.»

«Ero io il padrone di Sara!»

«No, formalmente era tuo padre.»

Non è possibile. Non può aver detto una cosa tanto fredda e crudele.

«La cagnolina era intestata a lui» insiste.

Scuoto la testa. «Non p-p-p-posso credere che tu ne faccia una questione legale... Era la sua vita, era...» Prendo fiato. Se possibile, questa donna, la sorella di mia madre, la sorella della persona più buona e dolce che sia esistita al mondo, mi fa orrore ancor più di mio padre. Mi fa orrore la sua freddezza.

«Sei licenziata anche tu.»

Mi giro, le do le spalle, non ho più lo stomaco di guardarla.

«Michele. Non mi incazzo solo perché so che sei sconvolto. Sono sicura che dopo una dormita tornerai a ragionare.»

Non dico niente.

«Non resisti una settimana senza me e tuo padre che ci prendiamo cura di te. Non resisti neanche mezza giornata.»

Rimango zitto. La zia viene davanti a me, io mi giro di nuovo. Non voglio guardarla.

«Tanto cambierai idea. E quando cambierai idea, tra una settimana, verrai da me a piagnucolare come hai fatto oggi con Anna» dice in tono quasi di scherno. 

Non le rispondo. 

«Verrai, ne sono sicura. Perché ti renderai conto che senza me e tuo padre non combinerai un cazzo.» 

Continuo a non rispondere. Lei mi viene di nuovo davanti, io mi giro di nuovo. Mi fa schifo. Schifo! 

«Non hai nemmeno il coraggio di guardarmi?» 

Zitto. 

«Sei sempre stato un cagasotto.»

Silenzio.

Silenzio anche da parte sua.

Ma solo per pochi secondi. «Non avresti mai avuto il coraggio di farlo. È stata la cosa migliore per Sara.»

A questo punto mi giro e sbotto. «Sono stufo di essere trattato come un b-b-bambino!»

Lei fa un'espressione pietosa. «Ma lo sei!»

Cosa ci faccio ancora qui? Prendo il mio borsone, in cui ho portato le due racchette per il servizio fotografico, spazzolino, dentifricio e un cambio d'abito, e vado verso l'uscita del gate.

«Dove vai? Vuoi perdere il volo?»

Me ne vado. Non voglio più vederla.

«Non hai idea di come si faccia, a prenotarne un altro!» mi grida dietro.

Ha ragione, ma non importa. Non dev'essere difficile, lo fanno milioni di persone al mondo, ogni giorno. Non può essere così difficile. Lo cercherò in internet.

Esco dall'aeroporto facendomi largo tra un paio di fan che vogliono un selfie con me. Non mi concedo a nessuno. Penseranno che sono uno snob, ma non mi importa. 

Arrivato nel piazzale, faccio per salire sul primo taxi che vedo, non so neanch'io dove voglio andare, voglio solo allontanarmi da qui, ma vengo immediatamente insultato da un gruppo di persone che stavano in fila. 

Non pensavo ci fosse una fila per i taxi. Volevo scappare via, subito. Il fatto di dover aspettare soffoca la mia rabbia. Mi sento esplodere dentro. Vorrei rompere qualcosa. E per giunta ho paura che spunti la zia da un momento all'altro. Non voglio vederla. Mi fa schifo. Mi viene voglia di sputare a terra, per quanto schifo mi fa pensarci. Quella bocca corrugata dalle troppe sigarette, sempre con le unghie tra i denti, germi, tabacco, cellule marce, mi viene da vomitare. Avrei dovuto rendermi conto prima di che razza di donna schifosa era.

«Tutti uguali, i vip...» sento qualcuno mormorare. 

Mi giro, apro la bocca per dire: non lo sapevo! Non sapevo ci fosse una fila, non volevo passare davanti a nessuno! Ma mi manca la voce, non riesco a dire nulla. 

Allora mi metto a camminare. Dove mi trovo? Dove si trova l'aeroporto di Milano? Sono sicuro si trovi parecchio in periferia, perché il taxi ci ha messo un po' ad arrivare qui. No. Camminare non è una soluzione.

Mi fermo. Mi siedo a terra, sul marciapiede. Piango un po'. Piango con la testa piena solo di rabbia e disperazione. Zero pensieri.

Mentre piango, a un certo punto si avvicina una passante, una signora, le urlo addosso. Vorrei gridare: mi lasci in pace! Ma tutto ciò che esce dalla mia bocca è un suono inarticolato che forse cominciava per "m". La signora fa un saltino, per lo spavento, e scappa via. Non mi pare mi abbia riconosciuto. Probabilmente penserà che sono ubriaco, o pazzo, o entrambe le cose.

Anna. Devo chiamare lei. È l'unica persona che conosco, qui a Milano, e forse l'unica in tutto il mondo, in questo momento, a cui possa chiedere aiuto.

Se hai bisogno di qualcosa, chiamami, mi aveva detto, nemmeno un'ora fa.

La chiamo. Quando risponde non riesco a parlare.

«Michele? Sei in linea?» dice.

Annaspo.

«Sembra la chiamata di un maniaco!» Ride. Ma è una risata che dura poco. «Ehi, scusami. Tutto ok?»

Scuoto la testa: no, no, è l'opposto di tutto ok. E adesso non ci sono più solo rabbia e disperazione, dentro di me, c'è anche paura. Sono solo, in una città che non conosco, e non riesco nemmeno a parlare per chiedere aiuto.

«Scrivimi. Su Whatsapp. E stiamo in linea, io ti rispondo a voce.»

Buona idea. Ok, è la prima cosa che scrivo. 

Ma poi?

Da dove comincio? È morta Sara? Mio padre l'ha fatta morire sola e non posso più sopportare di avere a che fare con una persona così orribile e senza cuore? Ho licenziato anche mia zia e non voglio prendere l'aereo con lei?

«Ok, Michele. Ho letto. Ci sei ancora?»

«Scrivimi. Qual è il problema?»

Posso passare la notte con te?

«Cos'è successo?» Il suo tono è preoccupato.

Da dove comincio a spiegare?

«È successo... qualcosa a Sara?»

È morta. 

Mi tremavano le mani, mentre lo scrivevo.

Anna rimane in silenzio per qualche secondo. «Mi spiace... Dio...» Ha la voce rotta. «Ok.» Tira su col naso. «Mi spieghi tutto dopo, di persona. Prendi un taxi e vieni a casa mia. Ti mando l'indirizzo via Whatsapp. Purtroppo non ho una macchina, altrimenti verrei a prenderti io.»

Un taxi? Devo fare la fila, quindi? E come faccio a dire l'indirizzo al tassista?

Sono solo da dieci minuti, e già il mondo mi sembra un posto pieno di ostacoli insormontabili.

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Note

Michele in un colpo solo ha tagliato i ponti con padre e zia, che hanno fatto una cosa che è davvero impossibile da perdonare. Come finirà secondo voi questa orribile situazione?

Ho un piccolo annuncio da fare che non credo vi farà molto piacere. A partire dalla prossima settimana voglio ricominciare a pubblicare solo due capitoli a settimana, ogni lunedì e giovedì (domenica sera e mercoledì sera). Il motivo è che pubblicarne tre mi porta via troppo tempo tra revisioni e risposte ai commenti, e a causa di questo sto andando troppo a rilento con la scrittura del capitolo finale della trilogia del desiderio (ahah, che nome altisonante), storia che è arrivata circa a metà stesura. Prometto che farò delle eccezioni in caso di capitoli emotivamente molto carichi, per non lasciarvi troppo in sospeso, ma la regola generale rimarrà questa. Spero capirete, e spero di fare un buon lavoro con la nuova storia e di riuscire a finirla per quando la pubblicazione di questa sarà terminata.

Ci rileggiamo lunedì prossimo.

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