74. Un vecchio tristo
Sara non sta bene.
Non sta bene da un po' e non ne sapevo quasi niente.
Ho licenziato Anna, e dopo averlo fatto la verità è venuta fuori. Si occupava di tutto lei: le dava da mangiare, la portava dal veterinario, le somministrava un sacco di diverse medicine, e io trascorrevo tempo con Sara solo di sera. Durante il giorno la vedevo solo per brevi momenti, all'ora di pranzo, o nelle pause tra un allenamento e una seduta dal fisio.
Certo, sapevo che stava prendendo qualche farmaco, e avevo notato che era un po' inappetente, ma col passare dei giorni mi sembrava che fosse migliorata, e non me ne ero più preoccupato. E il motivo di questa falsa percezione era Anna, che mi teneva nascosto tutto. Che giustificava ogni momento in cui mi sembrava un po' mogia con scuse del tipo: «L'ho fatta camminare parecchio ed è un po' stanca.»
Ora mi sento così stupido. Ero davvero assorbito da me stesso al punto da non accorgermi che la creatura che adoro di più al mondo stava poco bene? Ho saputo anche che era stata la stessa Anna ad accorgersi dei problemi di Sara, a insistere per portarla dal veterinario, e a essersi occupata in prima persona di tutto. Me lo ha rivelato zia Elena, quando mi ha parlato per la prima volta della salute di Sara, il giorno successivo al nostro ritorno in Italia. La povera piccola ha subito persino un secondo intervento, in endoscopia, motivo per cui non mi ero accorto di nulla. Avevo notato che le era stato rasato del pelo sul pancino, ma Anna mi aveva detto che si era trattato semplicemente di un'ecografia di controllo.
Quante menzogne! Solo per non farmi preoccupare, perché la mia carriera è la cosa più importante.
A ogni modo, sono grato ad Anna per ciò che ha fatto. Mi intristisce il fatto che non mi abbia detto niente, ma le sono grato, perché se non ci fosse stata lei, non credo che papà o zia Elena si sarebbero accorti di nulla. Potrebbe averle salvato la vita.
L'ho portata dal mio veterinario di riferimento qui in Friuli, un dottore bravissimo di Udine, e mi ha assicurato che si sta riprendendo. Le ha persino sospeso i farmaci chemioterapici, e le ha prescritto dei corroboranti, per farla stare meglio.
La vedo ancora molto mogia, ma ho fiducia in quel dottore. Proprio per poter portare più comodamente Sara dal veterinario, quest'anno non siamo andati in Slovenia, durante la pausa pre-tornei americani, siamo rimasti a Capriva.
Ne sono felice, preferisco il Friuli a Bovec. Sara quasi certamente dovrà restare qui, non verrà negli Stati Uniti. Mi si spezza il cuore all'idea di lasciarla, ma il tennis è il mio lavoro, la mia passione, e non posso fare altrimenti.
Mi sono amaramente pentito di aver licenziato Anna. L'ho fatto perché pensavo (e penso ancora) mi avesse mancato di rispetto, chiamando Ivan a casa nostra, ma l'ho fatto sull'onda di un impulso di rabbia. Ora che la rabbia è scemata capisco che ho esagerato.
Zia Elena mi aveva implorato di non farlo. «È l'assistente migliore che abbia mai avuto» mi ha detto. «È sveglia, determinata, impara in fretta, e sta facendo miracoli con la tua immagine.»
Le ho risposto che della mia immagine non m'interessa, sono un tennista, non un modello.
L'ultimo lascito del lavoro di Anna è stato un contratto con Versace. Tra circa una settimana, poco prima di volare negli Stati Uniti, dovrò andare a Milano per un servizio fotografico. Ne avrei fatto volentieri a meno. Mi pagano molto bene, ma non è che avessi problemi di soldi.
Ho meditato più volte di scrivere un messaggio di scuse ad Anna e assumerla di nuovo, ma mi rendo conto che sarebbe ridicolo. Lei non vorrebbe tornare. Perché? Per subire un altro mio sbalzo di umore e farsi licenziare di nuovo? Sto cominciando a capire perché mi danno del bambino: mi sono comportato in maniera irresponsabile.
E adesso ne va di mezzo Sara.
Già, perché Sara deve restare in Friuli, e con chi? Con mio nonno. L'ultima persona a cui vorrei lasciarla.
Certo, potrei affidarla a una pensione per cani, ma sarebbero degli sconosciuti per lei, e la terrebbero comunque in gabbia, come so vorrebbe fare mio nonno durante la notte. Quindi, tra i due, meglio lui. Almeno mio nonno Sara lo conosce, le è familiare.
Sto trascorrendo tutto il mio tempo libero nella sua ala di casa, per far acclimatare Sara, e per ammorbidire lui, soprattutto.
Sto facendo entrare Sara in casa. All'inizio il nonno ha protestato vivamente: «Son bestiis, scugnin stâ fȗr!» Sono animali, devono stare fuori.
Mio nonno parla solo friulano, con tutti, ostinatamente. È una lingua che capisco ma non so parlare, quindi gli rispondo in italiano. Dall'esterno dobbiamo essere uno strano spettacolo.
Anche mio padre fa lo stesso con lui. Gli parla solo in italiano, e mio nonno gli risponde in friulano. Solo che, con mio padre, mio nonno si arrabbia. Lo schernisce, lo chiama "l'omp di mond", cioè l'uomo di mondo. Usa due definizioni, tipicamente: "l'uomo di mondo che parla solo in italiano" e "l'uomo di mondo che si vergogna di essere friulano."
Mio padre e mio nonno non hanno mai avuto un buon rapporto. Mio nonno avrebbe voluto che mio padre ereditasse la tenuta agricola, in quanto unico figlio maschio, ma mio padre della tenuta non se n'è mai curato.
Mio padre era innamorato del tennis ed è praticamente scappato di casa per fare il tennista, contro la volontà di mio nonno, che gli aveva posto un ultimatum: se vuoi fare il tennista non ti mantengo più. Mio nonno è molto ricco, la sua azienda esporta vino in tutto il mondo, non dev'essere stato facile per mio padre rinunciare a una fonte di reddito sicura e ingente per realizzare il suo sogno, ma l'ha fatto.
E così adesso l'azienda vinicola Bressan è gestita dalla primogenita, zia Fulvia, che ha una laurea in scienze agrarie e diversi master in gestione aziendale, mentre la terzogenita, zia Grazia (che da piccolo chiamavo "zia Gra", perché mi dava fastidio la ripetizione della sillaba "zia"), dopo aver tentato una fallimentare carriera di attrice, sta adesso cercando di entrare nelle grazie (odio i giochi di parole) di zia Fulvia e farsi assumere in azienda. Non so come sia finita questa storia, perché mio nonno parla poco, e quasi mai di questioni amministrative, e con le sorelle di mio padre ho dei rapporti praticamente inesistenti. Fulvia amministra l'azienda da New York, Grazia viveva a Milano, l'ultima volta che ho avuto sue notizie. A dire il vero non mi interessa.
Accarezzo Sara, che è accucciata sui miei piedi sotto al tavolo. Mio nonno si sta lamentando con mio padre del fatto che mangio male.
«Michele mangia sano» ribatte papà. «È un atleta, non può mettere porcherie nello stomaco. Ma tu sei solo un vecchio contadino, queste cose non le hai mai capite e non le capirai mai.»
Mio nonno fa schioccare la lingua. «Son otante ans ch'o mangi e bevi se che mi pâr, e 'o soj san come un pes!»
«Sano come un pesce,» ribatte mio padre, «e con una pancia che arriva a Udine.»
Mio nonno inclina la sua sedia un po' all'indietro, facendo sporgere la pancia, e se la batte con un'espressione fiera «Dute salȗt!»
«Tutta salute che se ne va» risponde papà.
Mio nonno ride. Non è grasso, ma ha la tipica pancia un po' abbondante che hanno quasi tutti gli uomini della sua età.
Si fa di nuovo serio, e continua a provocare papà. Sei troppo ossessionato, gli dice, sempre in friulano, mi fa pena, il povero bambino ("frut", mi chiama, che in friulano significa bambino), non mangia abbastanza, guarda com'è secco!
A questo punto intervengo io, risentito: «N-n-non sono secco!» Tiro su la manica della maglietta e contraggo i bicipiti. «Guarda che muscoli!»
Mio nonno ride ancora. «Cicìn, gi ûl!» Ci vuole ciccia.
Non capisco se intende dire che dovrei mangiare più ciccia o che ciò che dovrei avere attaccato alle ossa dovrebbe essere del "sano grasso" e non muscoli.
Anche a quella povera cagna, continua il nonno in friulano, sempre a darle crocchette e guarda che brutta fine che sta facendo.
«S-s-sara sta g-g-guarendo!» sbotto.
Ai miei cani, prosegue lui imperterrito, ho sempre dato da mangiare avanzi, e sono sempre stati in salute.
Sta parzialmente mentendo, ne ha sempre avuti due o tre contemporaneamente, non avrebbe potuto mai sfamarli coi soli avanzi dei pasti di famiglia, ma non stento a credere che integrasse la loro dieta di abbondanti porcherie.
Mi torna in mente la sera dopo la finale degli US Open, quando ho fatto mangiare a Sara la pasta con la carne e lei poi è stata male, e grazie a quel malessere abbiamo scoperto, per pura fortuna, che aveva dei problemi più gravi. L'abbiamo scoperto in tempo e l'abbiamo salvata.
Trovo così ingiusto che dopo anni e anni in cui ho fatto sempre attenzione a cosa Sara mangiava, sia stata premiata dal destino una delle rarissime volte in cui ho sgarrato le regole. Le ho sempre dato da mangiare il cibo giusto, nelle dosi giuste, e si è ammalata ugualmente, proprio allo stomaco. Trovo anche questo ingiusto.
Poi ripenso a tutte le volte in cui le ho passato piccoli bocconi di carne o pesce dal mio piatto. Non me ne ero mai preoccupato perché il mio cibo è a ridotto contenuto di sale, ma è comunque cibo per umani e non per cani. E se fossero state questi miei piccoli ma ripetuti sgarri a farla ammalare? Capricci, nient'altro che capricci. Mi illudevo di farla felice, ma era solo me stesso che facevo felice. Non potrò mai sapere se questi sgarri abbiano contribuito al problema, e in che entità, ma se dovesse morirne...
Il pensiero arriva all' improvviso. Non l'avevo mai preso in considerazione, ma è una realtà: Sara è un essere mortale. La vita media di un cane della sua taglia è di quattordici anni. Lei ne ha dodici.
Il pollo che sto masticando è diventato un pezzo di gomma, nella mia bocca. Non riesco a inghiottirlo. Lo sputo nel piatto.
«Ma cosa fai?» sbotta papà.
«Stastu mâl?» mi chiede il nonno.
Allontano da me il piatto. «Non ho p-più fame.»
«Non dire sciocchezze, hai bisogno di calorie. Mangia» mi ordina papà.
«Un plat di paste, gi ûl!» interviene il nonno. «No chel poles scunsât!» Ci vuole un piatto di pasta, non quel pollo scondito. Poi scuote la testa. «E un got di vin, ogni tant!» E un goccio di vino, ogni tanto.
«Il vino è proprio fuori discussione» ribatte calmo papà. «Quanto al pollo scondito...» Si gira verso di me, «è un'ottima fonte di proteine. Mangiala. Ne hai bisogno.»
Se fa tanto bene, perché tu non lo mangi il pollo? dice mio nonno, provocando papà in tono di scherno. Non è la prima volta che lo sento prendere in giro papà perché è vegetariano, e papà si offende sempre molto, ogni volta.
Infatti la sua occhiata al nonno è furiosa. «Quanto sei stronzo...» Fa un piccolo sospiro e si rivolge di nuovo a me. «Dai, mangia...» mi dice in tono insolitamente gentile.
«Non ce la faccio.» Incrocio le braccia.
«Non fare i capricci. Ti sei fatto influenzare dai discorsi di tuo nonno? Vuoi un piatto di pasta? Ah!» Papà si porta un dito alla fronte. «Aspetta, ho capito cosa vuoi: un chilo di banane e uno di carote, come a Wimbledon.»
Interviene mio nonno, prima che io possa ribattere. Dice a mio padre di lasciarmi in pace e lo accusa di non capire niente. «Cos'è che non capisco?» gli chiede papà.
«Che il problema è la Sara e non la cena!» risponde mio nonno, stranamente in italiano.
Mio padre si volta lentamente verso di me, poi guarda di nuovo il nonno. «El frut sta mâl!» sbotta quest'ultimo, battendo un palmo sul tavolo. «E' ha capît che la cjisse stâ murint!»
«N-n-non sta morendo!» protesto. «Lei sta m-m-meglio! Lo d-d-dice anche il veterinario!»
Mio nonno scuote la testa. «Ti racconta balle, Michele.»
«Stai zitto!» lo interrompe papà, con la voce a volume più alto del normale.
«Tuo padre ha detto al veterinario di non raccontarti niente.»
«Stai zitto, ho detto!»
Papà ha gridato.
In qualsiasi altra situazione sarei spaventato, ma l'emozione che sto provando è diversa.
Mi chino, do una carezza a Sara, sulla testolina. Lei se ne accorge, gira il musetto e dà una leccata alla mia mano. La prendo in braccio, lei mi lecca, mi dà delle zampate per farsi accarezzare.
Mio nonno e mio padre stanno discutendo, a voce molto alta.
Non li sento.
Stai morendo, Sara? Possibile? A me sembra che stia meglio...
Lo stomaco si stringe ancora di più, inghiotto un conato di vomito.
«È vero?» sussurro.
«Vecjo trist!» sta gridando mio padre. «Tu sês dome un vecjo trist!» Sei solo un vecchio triste.
No, mi sono sbagliato. In friulano "trist" significa "cattivo", non "triste".
Sei solo un vecchio cattivo.
«È vero?» ripeto, a voce un po' più alta.
Papà e nonno si zittiscono, mi guardano.
Non trattarlo da bambino, è un uomo, dice mio nonno. Un po' ipocrita, da parte sua, visto che non fa altro che chiamarmi "frut".
«È vero?» dico per la terza volta.
Mio padre stringe le labbra. «Sì.»
Segue un lungo silenzio.
«P-p-perché ha sospeso le c-cure, allora?» Non può essere vero! «Lei sta mmmeglio, lei...»
«Non c'era più niente da fare. Le stanno dando delle cure palliative.»
La sensazione che sto provando in questo momento mi è orribilmente familiare. L'ho provata identica sette anni fa, quando mio padre mi ha detto che la mamma era morta.
«Michele non sa gestire i lutti» dice papà. «Ancora non è riuscito ad accettare la morte di Elisa.»
Lo tratti come un bambinetto, per quello non ci riesce! ribatte il nonno in friulano.
Parlano di me come se non fossi presente. E io mi isolo.
Sollevo Sara davanti a me e la guardo in quei suoi occhioni neri. Mi guarda anche lei. Chissà cosa pensa. Chissà se soffre, in silenzio.
E mentre la guardo mi torna in mente quella canzone russa che mi ha cantato Ivan, Oci Ciornie, Occhi neri, la canzone di cui immaginavo il significato senza conoscere la traduzione: gli occhi neri di un assassino, di una spia, un esploratore, un pescatore, come la canzone che piaceva alla mamma e che piaceva anche a me, solo che quel pescatore aveva gli occhi chiusi, dormiva e, improvvisamente ricordo un verso, aveva un solco lungo il viso, come una specie di sorriso. Perché lo ricordo adesso? Così, all'improvviso, senza un legame con ciò che sta accadendo.
Mi piacerebbe che lvan mi cantasse quella canzone, l'uomo che la cantava aveva la voce bassa come la sua, secondo me sarebbe perfetta per lui.
Mi manca Ivan.
Ma non l'Ivan che mi ha battuto e umiliato e mancato di rispetto, mi manca l'Ivan che mi ha cantato le canzoni e letto quella storia di fantascienza russa che non abbiamo mai finito, Metro... c'era un numero, una data, non la ricordo più.
Mi manca l'Ivan che parla male l'italiano, il suo accento russo, i suoi discorsi infiniti sulla musica, il fatto che avesse sempre una canzone per ogni occasione, il suo entusiasmo per le sciocchezze, i suoi capelli stupidi, i suoi regali, il suo dente storto, la sua bocca sul mio collo, le sue mani sulla mia pelle.
Mi manca stare con lui dentro un letto, mi manca lui che accarezza Sara e le fa le coccole.
Quei momenti non ci saranno mai più. Perché Sara morirà e Ivan mi ha battuto, umiliato e mancato di rispetto, e adesso mi odia, per giunta, non potrà mai più essere come prima, tra noi.
Ma avrei bisogno di un amico, adesso.
O di un'amica. Anna.
Perché l'ho licenziata? Era mia amica, prima che una mia dipendente, e l'ho cacciata via senza nemmeno darle modo di spiegarsi.
Lei voleva bene a Sara, le si era affezionata, e anche Sara voleva bene a lei, la considerava un membro del branco.
Ma Anna non c'è più. E Ivan non c'è più. E non ci sarà più Sara. Resterò solo.
«Domani non mi alleno» dico.
Papà e nonno stavano litigando. Si interrompono.
«Michele, non...» papà si zittisce perché ho alzato una mano verso di lui.
«Domani v-voglio trascorrere t-t-tutta la giornata con Sara.»
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Note note note ♫
La storia sta scendendo nel precipizio della tristezza. So che mi odiate, ma non sono sadica. È solo una storia che volevo raccontare: la crescita, l'accettazione della mortalità.
Oggi la stellina ve la chiedo nella lingua del tristo nonno di Michele, il friulano. È la prima lingua che ho imparato a parlare, prima ancora dell'italiano, e ci sono molto affezionata: piàit une stelute! (Traduzione: accendete una stellina)
Aggiungo una piccola nota filologica di cui non fregherà nulla a nessuno, ma ci tengo ad aggiungerla per i due gatti friulanofoni che leggono la storia: il friulano parlato dal nonno di Michele è quello che viene parlato nella zona del basso udinese fino al comune di Cormons. Capriva in teoria ne è fuori, lì già si parla la variante goriziana in cui non esistono le vocali lunghe (accenti circonflessi) e che ha le desinenze femminili singolari in -a anziché in -e. Mi sono presa una piccola libertà considerando che Capriva e Cormons sono confinanti. È comunque un friulano diverso da quello che viene considerato il friulano standard, che è quello udinese-carnico. Nella trascrizione dei dialoghi ho scelto di essere fedele al parlato cormonese anziché adottare le trascrizioni corrette (udinesi-carniche) delle parole.
Ci rileggiamo lunedì prossimo, buon fine settimana.
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