71. Epico
Al quarto set è ormai evidente che questo non sarà un incontro di tennis normale.
Al quarto set è evidente che finirà in cinque set, e che verrà ricordato come uno degli incontri dell'anno.
Ivan ha vinto il primo, al tie-break. Io il secondo 7-5. Lui il terzo, di nuovo 7-5. Stiamo sul cambio campo del 5-6, servirò io per andare al tie-break.
Ivan sta giocando il suo solito gioco esteticamente disturbante. Ma come è migliorato! Non me n'ero reso conto palleggiandoci, non me n'ero reso conto a Roma, perché ero troppo sottosopra dal punto di vista emotivo, e non me n'ero reso conto nemmeno guardando decine di suoi match. Solo giocandoci si riesce a capire quanto intelligente, profondo, angolato, sfiancante sia il suo gioco.
Come ha fatto a migliorare a tal punto? Arrivare a una semi Slam. Non è una cosa che succede per caso. O meglio: sì, può accadere per fortuna, una volta in carriera, se il tabellone si apre e affronti solo avversari scarsi.
Ma non è stato il caso di Ivan. Ha battuto gente forte. Savik, che qui ha giocato la finale due anni fa, Albrantes, che è un trottolino agguerritissimo su qualsiasi superficie, Ivory, che col suo servizio sull'erba sfiancherebbe chiunque.
Non è qui per caso. Ha giocato bene.
Ivan ha qualcosa. Lo capisco, ora. Un talento nel piazzare la palla dove vuole, negli angoli più inaspettati. È originale nel suo modo di giocare, come nel suo modo di apparire. È capace di mandare in tilt chiunque.
Certo, gli avversari lo capiranno, prima o poi. Avrà un calo, quando gli altri tennisti decodificheranno i suoi schemi fuori dal comune, il suo gioco di gambe bislacco, i suoi colpi storti. Ma ne verrà fuori. Ha l'intelligenza per venirne fuori, per inventarsi un tennis ancora più strano e stancante.
Servo la prima. Ace. «Fifteen love.»
La sua scalata ha un solo ostacolo.
Servizio numero due. Esterno. Risposta in rete. «Thirty love.»
Ivan stesso. La sua emotività.
Servizio al corpo. Buona risposta, scambio, dropshot di Ivan. Ma lo recupero e la mia palla angolata è vincente. «Forty love.»
La maggior parte delle volte riesce a usarla a suo favore, si carica di entusiasmo, si esalta nella difficoltà, oppure usa il suo senso dell'umorismo e irride l'avversario.
Ma nelle situazioni più critiche si fa sopraffare.
Un altro ace. «Game Bressan. Fourth set tie-break.»
Come i tie-break. Ha un rapporto tra tie-break vinti e persi da vero dilettante. Non ho alcun dubbio che vincerò facilmente questo.
Ok, ha vinto quello del primo set, è vero. Non è che non ne vinca mai nessuno. Inoltre è stato un tie-break strano, di apertura, meno posta in gioco per lui, e io ero ancora molto nervoso. Adesso se vince il tie-break vince l'incontro. È come servire per il match. È qualcosa che ti mette tensione addosso.
Ora sono calmo. Glaciale, come scrivono spesso di me tanti giornalisti.
Ecco che infatti apre con un doppio fallo. Nervoso. Non riesce a divertirsi, in queste situazioni. Deve imparare a divertirsi, è l'unico modo in cui lui riesce a giocare. L'opposto di come gioco io.
Ma non imparerà certo oggi.
Servo io, ed è tre a zero in un batter d'occhio.
A dire il vero è piuttosto bravo a gestire la tensione quando serve per il set, ma i tie-break sono un'altra cosa. Offrono difficoltà mentali diverse, il ritmo di servizio è più serrato, l'orizzonte più vicino, con lo spauracchio del set point sul servizio: dopo il cinque-sei, ogni primo servizio è un set point per l'avversario, e basta un errore, un singolo errore per perdere. Non c'è il paracadute del quaranta pari.
Non tutti sono in grado di sopportare una simile tensione. Di certo non Ivan.
Riesce a tenere i due turni successivi, ma gli faccio un ace per girare sul quattro-tre. Un mini-break. È tutto ciò che mi serve.
Ma lui decide di aiutarmi ulteriormente, regalandomi un altro punto che mi porta sul set point: un punto di puro nervosismo uno scambio da fondo campo in cui ha cercato di spingere più del suo solito, finendo per tirare out.
Ho notato che lo fa spesso, quando è teso: rinuncia al suo gioco angolato e cerca di fare un gioco spinto alla Derek Thaler.
Ma spingendo di più perde la sua precisione. E rischia di farsi male, per giunta. La pesantezza di palla è uno degli aspetti del suo gioco che può e deve ancora migliorare, ma non può mettersi a farlo in modo scriteriato, all'improvviso, nel bel mezzo di un incontro. Deve allenarsi e lavorarci gradualmente.
«Game, fourth set, Bressan. Two sets all.»
Ci siamo.
Quinto set.
Ivan chiede un toilet break all'arbitro. So che non lo fa per tattica. Lui adora innervosire l'avversario, ma vede il toilet break come una tattica di distrazione codarda e noiosa. Quindi se l'ha chiesto è perché ne ha bisogno.
Esce scortato da un ufficiale di gara, mentre io mi siedo. Mi piace che a Wimbledon non ci siano panchine, come in tutti gli altri tornei, ma solo due sedie. Una scelta molto minimale. Elegante.
Mentre siedo guardo il mio angolo. Non lo faccio quasi mai. Mio padre è come sempre serissimo, a braccia incrociate. Accanto a lui, Ethan si accorge che li sto guardando e batte le mani per incitarmi. Distolgo lo sguardo: non sia mai che l'arbitro mi dia un warning per coaching.
Allora guardo l'angolo di Ivan. Ci sono sua madre, il suo preparatore atletico, Dimitri, che è arrivato qui ieri dalla Russia, Andrej (eliminato dallo Slam di wheelchair) e Raffaele.
Com'è serio, anche lui. Serio e teso. La sua espressione è simile a quella di papà.
Simile ma allo stesso tempo diversa.
In mio padre c'è il ghiaccio, proprio come in me. È una tensione fredda, la sua. L'impressione che da è quella di un blocco di marmo: duro, difficile da scalfire.
In Raffaele c'è il fuoco. La sua tensione guizza, lo consuma.
Ghiaccio e fuoco. Non è un paragone molto originale, lo so. Borg e McEnroe. Ice and fire. Era il nome della loro rivalità.
Chissà se tra mio padre e Raffaele c'è mai stata una vera rivalità. Forse non ha mai avuto la possibilità di nascere: mio padre troppo scarso, Raffaele troppo drogato. Sarebbe stato ghiaccio contro fuoco. Un'altra volta.
Anche io e Ivan siamo come il ghiaccio e il fuoco. Chissà se anche la nostra rivalità diventerà una di quelle leggendarie che fanno sognare una generazione. Chissà se diventeremo leggendari insieme. Io certamente lo diverrò da solo. Un campione, un numero uno. Lui deve tenere il passo.
Eccolo che rientra, sopracciglia corrucciate, occhi concentrati, cammina quasi saltellando. Come un fuoco, non sta mai fermo, come il ghiaccio io aspetto immobile.
«Time!»
Ricominciamo. Quinto set. Lo giocheremo alla pari, non c'è tie-break nel quinto set. Si va a oltranza finché uno non vince due game in più.
Servo per primo. È un grosso vantaggio, significa che dal 6-5 in poi, se faccio break vinco. Se fa break lui, invece, io ho una possibilità di fare contro-break sul suo servizio.
I primi tre game vanno via rapidamente, entrambi teniamo i nostri servizi con facilità, e andiamo a sederci 2-1 per me.
Lo incrocio a rete. Stranamente ha lo sguardo basso.
Non si sta divertendo, e questo potrebbe andare a mio vantaggio. Non sta facendo le sue solite buffonate, niente colpi sotto le gambe, nessun no-look, e tutti i dropshot che mi ha fatto erano sensati (per quanto si possa definire "sensato" il suo gioco estremamente improvvisato).
Non resisto alla tentazione di rivolgergli una rapida, rapidissima occhiata mentre è seduto.
Si è messo l'asciugamano a coprirgli completamente la testa, e sta facendo saltellare le gambe. È il suo fuoco che lo agita.
E intorno a lui, come al solito, un'esplosione di bottigliette, teli, scarpe, racchette usate. Il caos di un incendio. La mia panchina invece è sempre ordinatissima. La quiete di un lago ghiacciato.
Ora che ci penso, questo paragone non mi piace.
Fuoco e ghiaccio. Il ghiaccio ha sempre la peggio.
Il fuoco scioglie il ghiaccio.
D'accordo, il ghiaccio può spegnere il fuoco, ma sempre a prezzo di sciogliersi.
Non voglio sciogliermi.
«Time.»
Gomma in bocca. Telo. Lo appoggio da solo a fondo campo, come sempre. Mi preparo a ricevere.
Ivan, dall'altro lato del campo, mi mostra la pallina. Ventiquattro metri di prato tra di noi.
Che bei colori: verde, bianco, viola, il tocco giallo limone della pallina.
Annuisco.
Rispondo in rete.
«Fifteen-love.»
Non era un servizio impossibile, ho risposto male perché non ero concentrato. Non sto pensando alle strategie, sto pensando a lui. Sto pensando un sacco di stupidaggini.
I colori del campo? Ghiaccio e fuoco? Mi metto a scrivere poesie, tra un po'?
«Thirty-love.»
Ma quale fuoco e quale ghiaccio! Ivan e Misha. Due giocatori. Ecco cosa siamo.
«Forty-love.»
Misha? Ho pensato Misha? Ormai penso a me stesso come Misha. Maledetto Ivan! Mi ha fatto il lavaggio del cervello!
«Game Reshetnikov.»
Tocca a me. Tocca già a me? Cosa faccio adesso? La mia testa all'improvviso è vuota.
È il fuoco di Ivan che l'ha resa arida.
No, no, NO! Basta con questa metafora!
Concentrati, Misha.
Michele. Concentrati, Michele.
Ma la mia mano è talmente moscia che mi cade la racchetta subito dopo il servizio.
Ci rimango malissimo. Non mi era mai successo, mai in tutta la carriera, neanche da junior, neanche da bambino! Lo stupore è tale che mi paralizza, non cerco nemmeno di raccoglierla, e Ivan mi fa un vincente a dieci chilometri orari.
Ivan ride. Cosa c'è da ridere? Anche il pubblico ride. Io mi gratto la testa. Sistemo la visiera.
Mi sto giocando una finale Slam, qui.
Sto lottando contro l'eventualità che Ivan la giochi, superandomi in un record importantissimo.
All'improvviso, il panico.
Il pensiero di Ivan in finale a diciott'anni, quando io la prima finale l'ho giocata a diciannove, mi terrorizza. Mi toglie forza. Non ho mai provato un terrore simile sul campo. Mai.
È un terrore che mi spinge al doppio fallo.
È il fuoco di Ivan che scioglie il mio ghiaccio.
Basta! Emetto un grido, esasperato dai miei stessi stupidi pensieri.
Riesco a servire, ma gioco malissimo, il terrore ancora mi lega le gambe, mi contrae lo stomaco. Sento una sensazione acida in bocca, come un principio di vomito.
Non so neanch'io come ho fatto a crollare così. Io che sono sempre freddo...
...come il ghiaccio! No, basta! Non voglio sentire mai più paragoni tra me e il ghiaccio. O tra lvan e il fuoco. Ma di cosa mi lamento? Sono stato io in primo luogo a farli!
Zero - quaranta. Devo uscire da questa situazione in cui mi sono messo da solo. Un respiro profondo. Uno. Due. Ras. Dva. Sulla T. Ivan risponde, corto, entro per chiudere di dritto e la palla finisce fuori.
Di parecchio.
All'ultimo secondo, un microistante prima di tirare, ho sentito una strana contrazione nel braccio, e la pallina è finita fuori. Campo aperto.
Era un punto fatto, ma l'ho perso.
«Game, Reshetnikov.»
Va bene. Mi ha fatto break, ma non devo perdere la calma.
Ci sediamo per il cambio campo, e questa volta sono io a mettermi l'asciugamano in testa. Ho bisogno di concentrarmi.
Non è la prima volta che mi trovo in una situazione del genere. So come uscirne. Tatticamente e soprattutto mentalmente. Tatticamente devo essere più audace. Gli ho fatto tre volte break, in questo incontro. Una nel primo set (lui poi mi ha ripreso), due nel secondo (anche qui, uno me l'ha recuperato), e tutte e tre le volte sono riuscito a batterlo osando un po' di più. Nel senso che ho improvvisato. Ho cercato di stare al suo gioco, di rispondere ai suoi colpi estemporanei con colpi altrettanto estemporanei, colpi che pensavo non si aspettasse.
Non posso permettermi di farlo costantemente, perché improvvisare mi fa sbagliare di più. È tutta una questione di equilibrio, come diceva Raffaele: bisogna trovare equilibrio tra libertà e controllo. È con questo semplice consiglio che ha fatto diventare Ivan quello che è? Che ha trasformato il suo caos in gioco efficace?
«Time!»
Mi tolgo l'asciugamano dalla testa, ero talmente assorto che non mi sono ricordato di bere! Prendo al volo la borraccia con l'integratore salino che mi prepara sempre Ethan. C'è anche dello zucchero dentro, ma non ho il tempo di prendere la gomma da masticare. Lo zucchero non è molto ed è sciolto, l'ho inghiottito tutto. Se ne è rimasta qualche traccia in bocca, è solo qualche traccia.
Ma fermenterà. Causerà un innalzamento del pH. No, non devo pensarci, ora. Sono solo due game. Due game poi potrò reintegrarmi e reidratarmi come si deve, e masticare la gomma alla cannella.
Fragola e cannella. L'odore di Ivan.
No. Non pensare a quella sera, adesso! L'obiettivo e fare subito controbreak.
La prima di tre occasioni per riprendere questo incontro in mano. E poi vincerlo.
Serve lui. Mi mostra la pallina. Il suo atteggiamento è rilassato. È sicuro di tenere questo servizio. Non ci riuscirà.
Comincio subito con una risposta aggressiva, di rovescio, mi ha tirato sulla T, centrale. La profondità lo mette in difficoltà, io attacco a rete e non mi serve nemmeno chiudere perché lui non riesce a ributtarla di qua.
«Love fifteen.»
Ma il mio vantaggio dura poco, perché i due quindici successivi vanno a lui. È stato coraggioso, mi ha servito entrambe le volte sul rovescio, che è il mio colpo preferito, il più forte. Quello con cui gli ho fatto il primo punto del game. E come se avesse voluto darmi un messaggio: mi hai fatto punto, ok, ma non ti temo. Non temo il tuo micidiale rovescio.
Sul punto che potrebbe portare lui a quaranta o me a trenta, mi serve al corpo.
E io lo sapevo! Rispondo d'anticipo, spostandomi un po' per impattare bene il rovescio e decido di caricare subito, a rete. È una mossa avventata e lui non se l'aspetta. Cerca di passarmi mentre avanzo, lo blocco al volo, lo costringo a venire da me. So che è bravo a rete, ma anch'io voglio fargli capire che non ho paura dei suoi punti di forza.
La riprende, e la riprende anche bene, con una delle sue orribili volée bimani, ma io sono più forte, e con uno scatto gli chiudo addosso.
Cerca di farsi scudo con la racchetta. Senza riuscirci.
Il punto è mio.
Alzo la mano per scusarmi, come d'abitudine quando si tira addosso agli avversari, ma in realtà non mi dispiace. Sorry, not sorry, si dice in inglese. Lui lo capisce, che le mie scuse non sono sincere, glielo leggo nei suoi occhi trasparenti. Trasparenti in tutti i sensi. Mi sta odiando, un po'.
Il punto successivo è molto lottato. Fatico a trovare spazi di attacco e lui riesce ad angolare. Ma io riprendo tutto ciò che mi tira, quindi, dopo una ventina abbondante di scambi, cerca di uscirne con un dropshot.
I suoi dropshot sono difficili da leggere, perché li fa a due mani, da entrambi i lati, senza cambiare impugnatura, ma a forza di vederglieli fare ho imparato a intuirli con un po' di anticipo. Sia da un punto di vista statistico (so quali sono le situazioni in cui più probabilmente lo farà), sia, soprattutto, dal punto di vista fisico.
Quando sta per farli, un istante prima, forse mezzo secondo, contrae il bicipite della mano che sta più in basso sull'impugnatura. Appena vedo la contrazione, scatto.
Sono distante, ha scelto un buon momento, pur nella disperazione del gesto. Corro e già capisco che finirà corto, no, la pallina tocca il nastro, si arrampica e cade morta.
Dalla mia parte.
Odio quando succede! E stavolta è lui che deve scusarsi. Ma lo fa con strafottenza, quasi fosse una piccola vendetta per il mio attacco al corpo di prima.
Oh, grazie. Grazie Ivan! Appena vedo quel sorrisetto arrogante sento un grumo d'odio esplodermi nel petto. Mi serviva! Sono stato troppo morbido, fino a ora. Mi serve l'odio per dare il massimo.
Quaranta trenta. Ma non avrai questo punto!
Servizio da sinistra, ad court. Prova a fare ace sulla T, all'incrocio centrale delle righe, ma va fuori. È la prima seconda del game. Non ha un servizio potentissimo, e anche per questo motivo punta molto sulla precisione e sulla percentuale di prime in campo, che è sempre alta. Cosa farà, ora?
Spero che non sia tanto stupido da tirare esterno.
Lo è.
E la mia risposta vincente di rovescio è la cosa più semplice del mondo.
Applausi del pubblico: fanno sempre effetto, le risposte vincenti.
L'ho portato ai vantaggi e il punto successivo va di nuovo a me. Break point!
Ma non riesco a chiudere e torniamo alla parità.
Ed è qui che comincia l'incubo.
Il game si trascina un vantaggio a lui, uno a me, uno a lui, uno a me, e dopo un po' perdo il conto.
In questo momento in tv starà sicuramente apparendo la statistica "game duration". Credo siano già passati dieci minuti, e quella statistica appare sempre quando un game supera i dieci minuti.
E ne passano altri. Altri vantaggi per me e altri per lui. Non so quanti, comincio a sentirmi stremato.
E ho sete. Sento la bocca acida e arsa. Vorrei mangiare una gomma e bere. Ma devo stare qui.
La buona notizia è che è stanco anche lui. Credo stia risentendo dell'incontro con Ivory, oltre che della lunghezza di questo game. Cinque ore di match, anche con un giorno di riposo, chiedono un pedaggio pesante al fisico. Se vinco questo game ho vinto l'incontro. Non riuscirà più a farmi break. E alla prima occasione gli farò break io, vincendo.
A ogni modo, prima devo vincere questo, di game. Non so quale sia il record di lunghezza di un game, ma credo che lo stiamo raggiungendo. Sicuramente è il game più lungo che abbia mai giocato in carriera. Non ricordo una tale, intensa alternanza di punti su punti, vantaggi e svantaggi.
E che punti! Nonostante la stanchezza, stiamo giocando entrambi benissimo, e a un mio colpo perfettamente costruito, lui risponde con un punto altrettanto bello (per quanto possano essere belli i suoi punti).
Ma io non ce la faccio più. Se non la chiudo nei prossimi due punti, chiedo all'arbitro se posso andare a sciacquarmi la bocca: mi sento marcio dentro. E ho anche il mio turno di servizio, dopo questo.
Ivan sta scegliendo la pallina. Si prende tutti i venticinque secondi consentiti, e forse anche qualcosa in più. L'arbitro soprassiede, capisce che la situazione è estrema e che i giudizi devono essere più rilassati, lo capisco anch'io e non mi innervosisce l'attesa, anzi, ne approfitto per tirare il fiato, e per concentrarmi.
Inspiro. U-no, du-e. Espiro. Tre-e. Quat-tro. Inspiro. Ra-as. Dva-a. Espiro. Tri-i. C'ti-rie.
La mia testa è vuota.
Servizio. T. Rovescio. È un serve and volley.
È già a rete, mi tira profondissimo, ma io non arretro di un passo, e di controbalzo faccio qualcosa di fisicamente al limiti del possibile: un lob. Un pallonetto. Puro istinto, improvvisazione estrema, da dove mi trovo è un colpo difficile e forse anche un po stupido, no, mi correggo, molto stupido, perché lui ha tempo per correre indietro a riprenderla, ma è il problema dell'improvvisazione: spesso porta a fare errori stupidi.
Lui ci arriva, la tira su con la punta della racchetta e la mette incrociata. Io ero già lì, e chiudo facile in campo aperto.
«Advantage Bressan.»
Lui si ferma un attimo a rete, riprende fiato appoggiandosi con le mani alle ginocchia. È distrutto. Devo colpire adesso, annientarlo.
Serve da ad court, da sinistra, e sbaglia la prima. Io avanzo di un passo per rispondere alla seconda: voglio mettergli pressione. È stanco, e non riesce a nascondere bene come suo solito le proprie intenzioni. Capisco dal lancio che vuole farmi un kick esterno, scelta che non paga molto sull'erba, ma è evidente che è poco lucido. La impatto perfettamente di dritto, sarebbe stato un vincente, ma il giudice di linea aveva già gridato: «Out!» Era una chiamata fuori per il secondo servizio di Ivan.
Ivan alza subito la mano. «Challenge!»
Non ho visto bene, sembrava sulla riga.
«Mr. Reshetnikov is challenging the call. The ball was called fault.»
Le immagini digitalizzate della pallina appaiono sullo schermo, mentre il pubblico applaude a ritmo.
«Call stands. Game, Bressan.»
C'è una sorta di esultanza del pubblico per la fine di questo game infinito, ma io non sono soddisfatto.
Avrei voluto chiudere con un vincente, o al limite costringerlo a un forzato. Ma con un doppio fallo proprio no. Toglie merito ed enfasi a un game così lottato. Odio le cose brutte, anche quando vanno a mio vantaggio.
Comunque adesso devo tenere il mio, di servizio. Non sarà semplice, perché sono stanco e disidratato. Ho un principio di crampo al polpaccio destro, tendo il tallone per contrastarlo: non è consentito dal regolamento fermarsi per crampi.
Il primo quindici è un doppio fallo.
Uno lui, uno io. Che spettacolo penoso.
La mia lingua sembra un pezzo di cartavetrata, e mi fanno male i denti. Non so quanto sia realtà, non so quanto sia suggestione, ma sento un dolore acido sui colletti dei molari superiori. Voglio bere, voglio sciacquarmi la bocca, voglio le mie gomme alla cannella. Ma ora non posso, devo giocare altri quattro punti per vincere questo game in rimonta.
Ma di punti ne gioco solo tre. Vanno a lui.
«Game Reshetnikov!»
A zero. Ho perso il game a zero come un pivello qualunque. Tanta fatica per niente.
Ivan mostra il pugno al proprio angolo. Com'è serio e concentrato.
Quasi corro per raggiungere la sedia. Bevo, cercando di inghiottire a piccoli sorsi, prima semplice acqua, poi mi sciacquo la bocca e sputo a terra. È uno spettacolo orrendo, me ne rendo conto, ma ne ho bisogno.
Poi gli integratori: quello salino, quello carbo-proteico, quello salino di nuovo: non devono venirmi i crampi.
Mentre bevo, cerco di ragionare su ciò che è appena successo: l'ho recuperato e mi sono fatto superare nuovo. Ero troppo stanco, e anche un po' deconcentrato dall'idea di avere la bocca sporca.
Nei prossimi game devo spremerlo ancora di più. Gli piace correre? Lo farò correre! Gli piace scendere a rete? Lo farò scendere, e tornare indietro, e scendere di nuovo, fino alla stremo.
Il suo fiato non può essere infinito. È stanco. Lo so che è stanco, e io sono meno stanco di lui, ho giocato meno ore.
E non è il mio unico vantaggio. Ho più esperienza, sono più freddo. Sono più bravo. Il mio gioco non è solo più bello, è anche più intelligente, più efficace, più versatile. Più tutto!
Ho ben due occasioni per recuperare. Me ne basterà una.
L'arbitro ci chiama in campo, e in meno di un minuto spreco già la prima. Ivan tiene il suo game a zero.
Com'è possibile? Succede talmente in fretta che non ho nemmeno il tempo di processare i miei errori. Siamo sul tre a cinque. Se non riesco a tenere questo turno di servizio è finita. Ivan vince e arriva in finale di uno Slam a diciotto anni e quattro mesi.
Non posso permetterlo.
E non lo permetto!
Di servizi ne gioco quattro, e sono quattro vincenti. Anche il mio game va via rapidissimo, e andiamo a sederci sul quattro-cinque. In questo game ho dimostrato una freddezza sovrumana, ma ora che è appena finito, sono talmente nervoso che mi tremano le mani.
Quando ci rialzeremo, lui servirà per il match. Ma non devo avere paura.
Perché io sono un campione. Sono il migliore. Diventerò leggenda. Ricorderanno questo incontro come uno dei momenti che hanno definito la mia carriera, la semi di Wimbledon in cui vinsi recuperando un break all'ultimo turno di servizio utile.
No, non montarti la testa in anticipo. L'eccesso di sicurezza è deleterio quanto un eccesso di timore. If you can meet with triumph and disaster...
Bevo. Mi reintegro e mi concentro. Ho notato che nel corso degli ultimi due set Ivan ha aumentato notevolmente l'uso dello slice, del rovescio tagliato. E lo fa molto bene, è forse l'unico colpo esteticamente gradevole del suo repertorio, e il motivo è che è l'unico colpo che gli ha insegnato Raffaele da zero, è evidente. C'è moltissimo dello slice di Raffaele, nel suo colpo. Anche se l'eleganza di Raffaele è irraggiungibile.
Sta usando lo slice per due motivi: perché è stanco (vuole rallentare il ritmo), e per stancare me. L'erba è una superficie infida. Rapida, ma con un rimbalzo di palla bassissimo. Uno slice ben fatto e spinto può essere letale, perché abbassa ancora di più il rimbalzo, e costringe soprattutto i giocatori alti come me a faticare molto sulle ginocchia.
«Time!»
Do un'ultima sorsata all'acqua e gomma in bocca.
Rispetto all'anno scorso ho migliorato il mio slice, anche se è un colpo che uso forse ancora troppo poco. Il fatto è che il mio rovescio piatto o in top sono talmente belli e unici... invece il mio slice è identico a mille altri. Non ha carattere, non ha bellezza. Ma in questo game non conta la bellezza. Conta vincere, e il mio slice andrà più che bene. Sarò interlocutorio. Risponderò ai suoi colpi bassi, li tirerò su dal terreno, e gli rimanderò traiettorie impossibili.
Sono pronto.
Ivan serve una prima che non riesco a leggere in anticipo. Le reazioni automatiche del mio corpo, però, sono talmente rapide che riesco a rispondere, impatto di rovescio, parando il corpo, lui già cerca di chiudere di dritto, ma la palla gli arriva più lunga di ciò che si aspettava. E sono io a prendere comando dello scambio, e a chiuderlo, dopo altri due colpi.
«Love-fifteen.»
Dopo la sciatteria che ha mostrato durante il game lungo, si è ricomposto, e ora il suo servizio è di nuovo quasi impossibile da leggere. Ivan sopperisce ai suoi limiti di potenza con la bravura nel nascondere le proprie intenzioni, con l'alta percentuale di prime e con la precisione di piazzamento, un po' come Straussler.
No, non posso averlo appena paragonato a Straussler. Mi prenderei a schiaffi da solo per questa bestemmia.
La sua prima va in rete, stavolta, e mette una seconda esterna. Troppo debole, un'altra risposta vincente mi porta sul... «Love thirty».
Ma i due punti successivi vanno a lui, molto rapidamente.
È a due punti dal match e lo sa. Percepisco la sua tensione dalla rigidità con cui sta facendo rimbalzare la pallina a terra. Fa cilecca di nuovo con la prima, ma riesce a mettere una buona seconda al corpo. Un'ottima seconda. Ha rischiato, è praticamente una prima, e mi coglie un po' impreparato, ero venuto troppo avanti, più che una risposta mi è uscita una parata, e lui chiude subito con facilità.
Match point per lui.
Sono a un passo dal baratro e ci guardo dentro.
Non posso. Non posso lasciare che vinca, rovinerebbe tutto. Non riuscirei mai più a guardarlo senza che questo macigno rovini tutto. Non riuscirei a essere suo amico. Penserei solo a come vendicarmi, consapevole del fatto che sarebbe un'onta impossibile da vendicare.
No, devo batterlo.
Sta per servire. Vedo solo la pallina. Solo la pallina. Il mio braccio scatta prima che il mio cervello ne sia consapevole. Dritto. Lui scende a rete e lo fa ottimamente. Mi ha incastrato? No! Gli tiro un colpo fortissimo, imprimendo alla palla una traiettoria discendente. È difficile per lui raccoglierla, ma lo fa, a due mani (come ci riesce?) e mentre io mi stavo già spostando sul dritto, la palla va a sinistra, in maniera totalmente inaspettata.
I miei muscoli riescono a scattare, e in una frazione di secondo mi sono già tuffato, lancio il braccio, la racchetta tocca la palla, Ivan è al centro, la pallina passa alla sua destra ed è punto mio.
Scatta un'ovazione, e mentre mi rialzo mi accorgo che anche Ivan mi sta applaudendo, battendo la mano sinistra contro il piatto corde.
E sorride. Sembra divertito.
Sorride!
Ha appena perso un match point che avrebbe potuto definire la sua carriera e regalargli una finale Slam a diciotto anni. Lo ha perso, e ride.
È un sorriso che mi offende. Significa che in realtà non ci tiene. È un gioco, per lui, solo uno stupido gioco, mentre per me è la vita. Non posso considerare mio rivale una persona come lui!
Il game si conclude in tristezza, con un mio recupero, e vinco facilmente anche il game che mi porta a sei-cinque.
Finalmente sono di nuovo avanti, ma non sono soddisfatto, voglio partecipare a un duello con un avversario che rispetta me, e soprattutto che rispetta il duello.
Mi siedo, e mi sento più stanco di quanto non sia il mio fisico. Mi sforzo di bere, acqua, integratori. Mi devo sforzare perché non ne ho voglia. Quel sorriso mi ha svuotato. Non è la prima volta che mi sorride inopportunamente nel bel mezzo di un incontro, ma questo, su un match point così cruciale! Mi fa uscire di testa.
Una parte di me morirebbe per sempre, se Ivan vincesse, e lui sorride.
Ho profuso uno sforzo sovrumano per colpire quella pallina e salvarmi a un passo dal precipizio, e lui sorride! È imperdonabile!
No, davvero, non potrò mai perdonargli quel sorriso. Mai!
L'incontro riprende. Ivan riesce a tenere il primo game in cui ricevo per il match. Io vado a sette sei, e siamo all'oltranza.
Si susseguono i game. Più rapidi i miei, più lottati i suoi. Lo porto due volte a parità: sull'otto pari e sul dieci pari, ma non riesco a ottenere match point per me.
Il game dell'undici dieci è rapidissimo: tre ace e un vincente. Lui è sempre più stanco, non ce la fa più. Ma tiene duro. Perché? Cos'è che lo motiva? Non può essere una motivazione profonda, se dopo aver perso il match point per ora più importante della sua vita si mette a sorridere.
Sono stanco anch'io, comunque. Mentalmente, e da un paio di game anche fisicamente. Ma tengo duro.
Serve lui, sull'undici dieci per me. Lottiamo punto dopo punto, ed è di nuovo parità. Devo ottenere un match point, lo devo ottenere subito, questo incontro è già durato troppo, se giochiamo ancora qualche altro game, mi precluderei qualsiasi possibilità di giocare alla pari in finale, dopodomani, e giocherò con uno tra Molina e il redivivo Grković, sarebbe un incontro difficile anche senza un set in più sulle gambe.
Ivan mi aiuta servendo una seconda. La attacco, chip and charge, perché voglio chiuderla in fretta. E la mia mossa disperata va a frutto.
Match point per me.
Ora è serio, Ivan, non ha più voglia di ridere. Stupido, ti svegli adesso?
Mi preparo a ricevere. Lancia la palla, impatta, va lunga.
«Fault!»
Vedo il petto di Ivan alzarsi e abbassarsi in un lungo sospiro.
È teso. Spero che non chiuda con un doppio fallo, odio quando un match finisce con un doppio, voglio finire con una risposta vincente.
Lancio. Impatto. Rovescio.
E il mio colpo finisce in rete.
La pallina cade sull'erba. Dopo pochi secondi un raccattapalle l'ha già raccolta, la porta via.
L'arbitro ha detto il punteggio, ma ha sbagliato. Ha detto: «Deuce», avrebbe dovuto dire: «Game, set, match, Bressan.»
Ho sbagliato la risposta. Non e possibile. Ho sprecato un match point! Era una risposta facilissima, come ho fatto a sbagliare!? I miei piedi mi portano meccanicamente a destra, su deuce court, ma la mia testa non vorrebbe. La mia testa cerca di capire cosa sia andato storto, senza riuscirci.
Il vantaggio ora va a Ivan, e il game si chiude in suo favore.
Ora servo io. Non devo pensare al match point sprecato.
Respiro profondamente e conto a ritmo, per svuotare la mente. Ci riesco, e il mio game finisce rapidamente, come tutti i miei game di servizio dell'oltranza.
Ma mentre vado a sedermi ci ripenso. Che cosa è andato storto? Lo so e non voglio ammetterlo: ho spinto troppo. Che errore da dilettante! Ho voluto strafare e per strafare ho colpito male. Ma adesso non devo fare un altro errore da novellino: non devo rimuginare sull'errore. Se ci penso troppo, finirò per stra-pensare ogni mio colpo e sbagliare. Devo pensare solo alle strategie.
Serve lui, ora, per andare dodici pari. Abbiamo giocato un sesto set, in pratica. Devo fargli break, adesso, ma non ci riesco. Lo porto due volte a parità, annullando un suo vantaggio, ma il game mi scivola dalle mani.
Servo ancora io. Ma lui è stanco, la sua risposta sta calando sempre più di rendimento, e i miei game di servizio sono stati via via sempre più facili. Lo chiudo rapidamente.
Ci sediamo. Le mie gambe iniziano a farsi pesanti, o forse sto soltanto cominciando ad accorgermene. Stiamo giocando da cinque ore e tre minuti, siamo ormai arrivati al limite, se non l'abbiamo già sorpassato. Chiunque vinca quasi di certo perderà la finale. Il nostro fisico non può recuperare tutti i danni che gli stiamo infliggendo con questa sfida intensa e prolungata.
E passa altro tempo, passano altri game, passiamo il limite dei quattordici game, quello oltre il quale nessun tennista è mai riuscito a vincere l'incontro successivo. O era sedici game? Non ricordo più. Non è importante, passa anche quello dei sedici.
È diventata una gara di resistenza, ormai, coi miei game che vanno quasi sempre a zero, e io che rosicchio sempre meno punti ai suoi. Quando riesce a tenere a zero il game del diciannove pari, capisco di aver sprecato troppe occasioni, non solo il match point. Su diversi punti avrei potuto fare di più: merito suo o demerito mio? Non lo so, non riesco più a ragionare, sono troppo stanco.
Mi siedo dopo il venti-diciannove, mi siedo per la ...esima volta (ho perso il conto). Da qualche game mi fa sempre più male la schiena: probabilmente la stanchezza mi ha fatto ricadere in vecchie abitudini di servizio.
Anche lui sta poco bene, è già la seconda volta che fa venire il fisio. Quattro game fa è stato solo un massaggio. Ora gli sta fasciando la coscia destra. Chiedo all'arbitro se può chiamare il fisio anche per me, per il prossimo cambio campo. Mi chiede se pensa che avrò bisogno di un medical time out, gli faccio cenno di no con la testa.
Due game dopo siamo di nuovo qui, e il fisio già mi aspetta. Gli spiego rapidamente il problema (più a gesti che a parole), mi stendo prono a terra e lui mi massaggia la parte bassa della schiena: il dolore mi sta davvero facendo penare. Mi faccio dare anche un antinfiammatorio ad azione rapida.
Il game con cui vado ventidue a ventuno è il più duro di tutti. L'antinfiammatorio ancora non ha fatto effetto e Ivan mi porta ai vantaggi, ma senza break point, e riesco a scamparla.
Seduti di nuovo. Ivan si sta togliendo la fasciatura alla coscia, da solo. Avevo notato che gli dava fastidio sugli affondi, che gli impediva i movimenti. Ha deciso che preferisce il dolore.
Sul game successivo sono io che lo porto ai vantaggi, ma nemmeno lui mi concede break point (che nel mio caso sarebbero stati match point).
Ventidue pari. Ventitré a ventidue. Panchina.
Il pubblico applaude e fa il tifo, non si stanno annoiando? Io mi annoierei, al posto loro. È ormai da parecchi game che questo non è più un bell'incontro, ma solo una gara a chi sbaglia di meno. Probabilmente sono dei fanatici dell'oltranza, delle lotte epiche.
Be' vissute da dentro, le lotte epiche, sono solo agonia, e desiderio che finiscano al più presto. Quando sogno il mio futuro, a letto, o durante gli allenamenti, anch'io sono un fan delle lotte epiche e dell'oltranza. Ma ora che ci sono dentro, per la prima volta in vita mia in modo serio (ero arrivato a dieci tre anni fa a Wimbledon, e a otto al Roland Garros), mi rendo conto di quanto questo sistema sia sbagliato. Sto mettendo a repentaglio la mia salute per vincere un incontro fine a se stesso: il vincitore di questi Championships sarà il vincente di Molina-Grković. Punto. Lo capiscono, gli spettatori? Capiscono che stanno facendo il tifo per una finale orrenda?
E ci rialziamo. E ci risediamo di nuovo, ventiquattro a ventitré. Il dolore alla schiena è attutito dal medicinale, ma dovrò fare settimane di trattamenti per rimettermi in sesto.
Quando ci rialziamo, incrociandoci a rete Ivan mormora qualcosa: «Non ce la faccio più.»
Me lo ha detto come se avesse voluto rimproverarmi, come se fosse colpa mia! Vuole forse che gli regali la vittoria? Stupido Ivan!
Il suo game di servizio va via veloce. Ventiquattro pari.
Sul mio game Ivan comincia rispondendo aggressivo, ma l'aggressività lo porta a sbagliare.
«Fifteen love.»
A lungo termine, però, paga. Mi manda in confusione, e i tre punti successivi sono suoi. Così, in un lampo, ho due break point da salvare.
Svuota la mente, Michele. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci rimbalzi della pallina.
Uso la sua aggressività contro di lui: gli tiro un servizio al corpo, volutamente, però un po' più lento del normale, quel tanto che basta per mandarlo fuori giri.
Funziona. Mette troppa forza nella risposta e la spara fuori, mi scanso per non farmi colpire dalla pallina e... sento un colpetto alla testa della racchetta.
«Game Reshetnikov.»
Cosa? No, devo aver capito male.
Mi avvicino all'arbitro, apro la bocca per chiedere spiegazioni, ma tutto ciò che ne esce sono balbettii incongrui, ripetizioni di sillabe senza senso, perché è il mio stesso cervello a balbettare, a non saper cosa dire.
L'arbitro capisce, si batte le punte delle dita tra loro. La pallina ha toccato la tua racchetta, mi dice in inglese.
«B-b-but...»
Il pubblico inizia a fischiare, al pubblico non piacciono le proteste.
E non piacciono neanche a me. Vado a sedermi, ma mentre Ivan viene verso di me, fa un gesto che mi blocca: mi sta chiedendo scusa con la mano alzata.
«N-n-n-non sc-c-ccusarti! Non è c-c-co-coooolpa tua!» grido, con rabbia.
Lui indietreggia di un passo, un gesto totalmente insensato, considerando che si trova dall'altra parte della rete a più di dieci metri da me.
«Cos'è, mmmmi v-v-vuoi co-onsolare?» lo sfido.
«No» mi risponde, duro. «Ma non volevo che finiva così.»
«Nnnnon è finita!» gli sbraito. Come si permette di darmi per sconfitto?
«Everything all right?» chiede l'arbitro. Gli facciamo entrambi cenno di sì, e andiamo a sederci.
Ventiquattro a venticinque.
È la seconda volta che mi trovo in questa situazione, Ivan che serve per il match. Ma stavolta ci sono finito per un colpo di sfortuna.
O di sciatteria? Forse più la seconda. Mi sono spostato dalla traiettoria troppo lentamente. Perché ero stanco. È colpa mia, non della sfortuna. È solo colpa mia.
Ma so come uscirne. So che ne uscirò. Visualizzo i colpi, le strategie che metterò in atto.
Respiro profondamente. Bevo. A piccoli sorsi.
«Time!»
Gomma in bocca. Mi alzo. Non per l'ultima volta.
Siamo pronti. Ivan mi mostra la pallina, gli faccio cenno che può servire.
Mi posiziono in avanti, più del mio solito. È rischioso, ma voglio mettergli pressione. Sono bravo a giocare in controbalzo, sfrutterò questa mia abilità.
Ivan serve. Una bomba sulla T. Una bomba per i suoi standard, sarà stata sui centonovanta o giù di lì. Mi costringe a una smorzata di dritto, ma è già pronto a chiudere con una delle sue traiettorie strettissime.
«Fifteen love.»
È stato furbo. Mi ha visto in avanti e ha spinto di più, rischiando di sbagliare. Non ha sbagliato e la strategia ha pagato.
Ma le statistiche non mentono: quando spinge di più sbaglia di più. Non indietreggerò. Non voglio dargli l'impressione che ho paura. Non he ho.
Ci riposizioniamo. E infatti sbaglia la prima, stavolta.
Avanti di un altro passo. Seconda esterna, sul mio dritto. Vorrebbe chiudere, lo so, ma lo, costringo a indietreggiare, e alla prima occasione utile scendo a rete e chiudo io il punto.
«Fifteen all.»
I punti successivi si alternano: lui serve un po' peggio da sinistra, forse perché deve appoggiarsi alla gamba che gli fa male.
Parità. Due punti e lo recupero. Due punti e vince lui.
Vince tutto. Vince la competizione di precocità in cui non potrò mai batterlo.
Ma adesso non devo pensarci. Se ci penso ho paura. Se ho paura sbaglio.
Servizio. Potente, angolato. Lo sfioro, ma è un vincente.
«Advantage, Reshetnikov.»
Match point. Il terzo.
Un punto e vince lui.
Vince tutto. Vince la competizione di precocità in cui non potrò mai batterlo.
Ma adesso non devo pensarci. Se ci penso ho paura. Se ho paura sbaglio.
È il momento.
Lancia.
Si scansa e lascia cadere la pallina a terra.
«Sorry» dice.
È talmente stanco che ha sbagliato il lancio. Alcuni potrebbero pensare che l'abbia fatto apposta per deconcentrarmi, ma non io. E a riprova del fatto che non era tattica, lancia male di nuovo e sbaglia la prima.
Il suo linguaggio del corpo è così palese, in questo momento: gli cadono le braccia ai fianchi e sbuffa. Non ne può più, vorrebbe solo andarsene. Se salvo questo match point vinco io, lui molla.
Avanzo di un passo. Il messaggio è: non ho paura, e voglio questa vittoria più di te.
Lui lancia per la terza volta.
Impatta, violento, sulla T. Sulle righe.
Io allungo il braccio, ma la pallina scivola via.
E la polvere di gesso ancora fluttua bassa sopra la riga di fondo, mentre l'arbitro dice: «Game, set, match, Reshetnikov. Seven six, five seven, seven five, six seven, twentisix twentyfour.»
La gente strepita sopra le parole dell'arbitro, ma quelle parole sono l'unica cosa che sento.
E non ci credo.
Ivan cade in ginocchio, lascia la racchetta e porta le mani al viso. Quando le toglie non vedo gioia, sul suo viso, solo stanchezza, e per un istante, prima che l'odio prenda il sopravvento, lo sento vicino, mi immedesimo nel suo sentimento, perché l'ho provato tante volte anch'io.
La pressione di dover mostrarsi felici, quando in realtà tutto ciò che si riesce a provare è nausea, stanchezza, e smania di ottenere di più. La sensazione che nessuna vittoria sarà mai abbastanza per placare la sete di vittoria.
E invece no. Mi sbaglio.
Attribuisco a Ivan sentimenti miei. In lui non c'è alcuna pressione, non si sente in dovere di mostrarsi felice, non si butta a terra per fingere un'esultanza, come io invece ho fatto tante volte, da San Pietroburgo in poi.
Quello che prova lui lo esprime sempre.
L'ho visto esultare tante volte, dopo le vittorie. Oggi non ha esultato, perché era stanco ed esasperato, e ciò che esprime è solo ciò che prova: stanchezza ed esasperazione.
Lui non è come me. Lui è trasparente.
Mi illudo di capirlo, ma siamo troppo diversi.
Mi avvicino alla rete, ed è mentre faccio i primi passi che prendo finalmente coscienza di ciò che è successo. Lui è ancora lì, in ginocchio, e mi ha battuto.
Mi ha battuto per esasperazione, io volevo questa vittoria molto più di quanto la volesse lui. Se avessi recuperato, avrei resistito altri cento game pur di batterlo, lui avrebbe mollato al prossimo.
Mi ha battuto volendolo meno di me, e questo non posso perdonarglielo.
In un incontro così importante, così cruciale, che ridefinirà in maniera drastica il nostro rapporto, mi ha battuto con un ace di seconda.
Diranno che è stato coraggioso, incosciente, pazzo. Troveranno un sacco di aggettivi per mettere in luce positiva il suo gesto finale, ma io so qual è la verità: ha tirato un ace di seconda perché se avesse giocato un altro minuto sarebbe crollato, avrebbe mollato, e avrei vinto io.
Ha giocato un colpo "o la va, o la spacca", ed è andato. Una scommessa. Mi ha battuto per fortuna. Ha rovinato tutto, mi ha reso impossibile continuare a volergli bene, e l'ha fatto senza una vera motivazione.
Si alza, finalmente, quando io ormai sono già a rete. No, non scavalcherò la rete, lo aspetterò qui.
Lo odio. E adesso ne sono sicuro. Lo odio davvero.
Lo odio come non ho mai odiato nessuno in vita mia.
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Note note note ♫
Wimbledon 2018: c'è stata davvero una semifinale finita ventisei a ventiquattro, tra John Isner e Kevin Anderson. Io ho rivisto i due protagonisti. Devo ammettere che la circostanza del match originale era propizia all'avvenimento: sulle superfici veloci è sempre probabile che un incontro venga tirato per le lunghe quando si incontrano due perticoni (2 metri e 10 vs 2 metri e 3) pesanti nei movimenti che però servono benissimo, perché tengono tutti i propri turni di battuta, ma faticano a fare break in risposta. La circostanza che ho immaginato io era molto più nervosa che fisica, quindi un po' più "improbabile"... ma concedetemi il volo di fantasia.
La luce nel cuore di Michele si è spenta con questo estenuante incontro. Ma voi non spegnerete la luce delle stelline in cima al capitolo, vero?
Ci rileggiamo lunedì prossimo! E dalla prossima settimana di nuovo tre capitoli!
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