68. Dimensioni relative
Si è sollevato un piccolo caso per il pic-nic sul Campo Diciotto. La notizia è persino uscita sulla stampa generalista, come curiosità.
Ipotizzano siano stati dei turisti, non dei tennisti: le scarpe che abbiamo lasciato sul campo erano delle generiche sneakers dell'Adidas, non scarpe da tennis, chiunque avrebbe potuto indossarle. Il giardiniere che io e Anna abbiamo corrotto per organizzare tutto evidentemente non ha parlato (non mi stupisce: sarebbe finito nei guai anche lui). E non ha parlato, per ora, nemmeno il barista che mi ha preparato le fragole nel bicchiere di plastica. Ma sulla stampa il particolare dei bicchieri non è stato raccontato, c'era scritto solo che si trattava di un pic-nic generico, quindi forse, semplicemente, il barista non ha collegato le due cose.
Ha fatto scalpore anche il fatto che fossero due uomini. "Appuntamento romantico gay", hanno scritto. Una guardia di sicurezza ha sorpreso due ragazzi in "atteggiamenti intimi", hanno scritto, durante un "romantico picnic a lume di candela". Insistono tutti sul romanticismo della cosa, solo perché c'erano le candele. Ma è stato Ivan a parlare di candele, per quello le ho usate, io non volevo essere romantico!
A ogni modo, il primo match me l'hanno fatto giocare proprio sul Campo Diciotto. Non saprò mai se si è trattato di un messaggio in codice degli organizzatori (del tipo: sappiamo che eri tu) o se fosse solo una coincidenza. L'ho vinto facilmente, in tre set, anche se ero distratto: a ogni cambio campo non potevo evitare di guardare il bordocampo dove eravamo stati seduti io e Ivan, e nella testa mi risuonava la canzone: Aha, make me tonight...
L'ho ascoltata un po', in questi giorni. Quasi mi commuove, e ascoltarla è uno strano desiderio un po' masochistico.
Il pezzo che mi ha cantato dopo, invece, quel Be my baby, non ho ancora voluto sentirlo. È una canzone d'amore e le canzoni d'amore non mi piacciono.
Non mi piacciono, soprattutto adesso che sono... il ragazzo di Ivan?
Davvero lo sono? Tra di noi non è cambiato niente. Ci siamo sentiti al telefono come sempre, e parlato delle solite cose, ci siamo visti di sfuggita un paio di volte in giro per l'All England, ma non abbiamo avuto modo di passare altro tempo insieme da soli, perché le casette dove alloggiamo sono un po' distanti, e di giorno ci alleniamo, e di sera siamo stanchi.
Ma lui è il mio ragazzo adesso, a quanto pare. E io non capisco come devo comportarmi.
Non sono ancora sicuro di questa cosa. Sul momento ho provato il desiderio di dirgli di sì, non so neanch'io perché. Mi elettrizzava l'idea.
Ieri sera l'ho chiesto ad Anna, poco dopo esserci coricati, al buio.
Lei già dormiva, l'ho svegliata. Ultimamente è sempre stanca morta, poverina, sta lavorando davvero tantissimo insieme a zia Elena, in questi giorni. Non volevo svegliarla, mi sono sentito un po' in colpa. Lei mi ha detto che non importava e mi ha esortato a farle la domanda.
«C-c-cosa significa di preciso essere il r... ra... r-ragazzo di qualcuno?»
Il motivo per cui gliel'ho chiesto al buio è che non volevo rivelare nulla con le mie espressioni facciali, in caso mi avesse chiesto perché volevo saperlo. Peccato che sia stata una precauzione inutile.
Ho sentito una specie di tornado sotto le lenzuola mentre Anna si girava di scatto verso di me e mi domandava, con una voce un po' bassa e gutturale: «Ivan ti ha chiesto di diventare il suo ragazzo?»
«N-n-no» ho mentito.
«E allora perché vuoi saperlo?»
«N-n-n-no... c-c-c-co-così... boh...» ho balbettato più del solito.
Lei a questo punto ha acceso l'abat-jour e mi è venuta quasi addosso per guardarmi negli occhi. «Mi stai dicendo una palla e la stai dicendo pure male.» Ha fatto un sorriso ampissimo. «Te l'ha chiesto, vero?»
Ci ho impiegato qualche secondo ad ammettere. «Ok, sì.»
Ha fatto un urlo acutissimo, si è ributtata stesa e si è messa a scalciare sotto le coperte.
«Per favore, non alzare p-p-polvere» l'ho implorata.
Si è calmata. «Ok, mi devi dire cosa è successo l'altra sera al pic-nic. Sono due sere che te lo chiedo e sono due sere che cincischi.»
«Ma niente... »
«Se ti ha chiesto di essere il suo ragazzo qualcosa deve essere successo... ah, a proposito, tu hai risposto di no o hai preso tempo?»
«Nessuna delle d-d-due.»
Lei ha spalancato la bocca, socchiuso gli occhi, si è guardata intorno come stesse riflettendo. «Eeeh... mi stai dicendo che gli hai detto di sì?!»
Ho annuito.
«E cosa ci fai a letto con me? Sei impazzito? Ma vi siete baciati?»
«No» ho risposto solo all'ultima domanda.
«Non dovresti dormire con me! Lui lo sa?»
«No, cioè... gli ho d-d-detto che abbiamo dormito insieme questi mesi...» le ho risposto. «Ma non c'è niente di male, posso anche p-parlargliene, tanto non...»
«No, no, no. Domani sera tu dormi con lui, e con me non ci dormi più.»
«Nemmeno q-quando lui non c'è?»
«Nemmeno quando lui non c'è. Non sta bene. Anche se è una cosa innocente.»
Non ha voluto sentire ragioni. E quindi ieri è stata l'ultima notte che ho dormito con lei. E stanotte dormirò con Ivan.
Di nuovo, dopo tanto tempo. Solo che stanotte è il mio ragazzo davvero, non è solo una storia che ho inventato per mio padre.
E adesso che è vero, non ho avuto il coraggio di dirglielo, a mio padre. Sono andato all'appartamento di Ivan senza avvisare papà. Ho avvisato Anna, ovviamente, che dormirà insieme a Sara (mi dispiace un po' lasciarla sola). A papà ho scritto semplicemente: stanotte dormo da Ivan.
Ma sei scemo??? Domani giochi!! mi ha risposto.
Non ho scritto altro.
***
Ivan mi accoglie con un paio di ciabatte in mano. «Vieni!»
La casetta è più piccola di quella dove alloggio io.
Tolgo le scarpe, infilo le ciabatte ed entro. Andrej mi accoglie incrociando le braccia. «Per colpa tua mi tocca dormire in stanza con Raf. Che russa come un leone.»
Mi sento subito di troppo. Scusa, balbetto, non...
«Lascia perdere, Andrej vuole fare drama queen... yes, drama queen to you!» L'ultima parte è rivolta al fratello.
«I hope Misha snores too!» è l'augurio con cui si congeda Andrej.
«Lo sai che in italiano snore si dice russo? Ahah!» mi dice Ivan.
«C-certo che lo so, sono italiano...» Ma che razza di domande fa? Entriamo in camera e appoggio la mia borsa a terra: ho portato gli indumenti con cui dormirò, e alcune cose per l'igiene personale.
«Chissà perché» aggiunge Ivan, «forse italiani pensano che i russi russano.»
Mi esce una risatina. «Mi è appena v-venuta in mente una b-barzelletta che quando ero p-piccolo mi faceva ridere t-tantissimo.»
«Cosa vuol dire parzelletta?»
«Joke... punch line...»
«Uh! Amo i jokes! Dimmi!»
Mi pento subito di averglielo detto. Mi rendo conto solo ora, ripensandoci, a quanto fosse stupida e infantile quella barzelletta, se gliela racconto penserà che sono scemo.
Ma sta insistendo ancora, e si è messo persino a saltellare. E va bene, gliela dirò. «Era... uhm... Lo sai perché il p-p-pomodoro in frigo non riesce a d-dormire?»
Si prende il mento tra pollice e indice e fa una smorfia. «Uhm... no... perché?»
«P-perché l'insalata russa.» Mi nascondo la faccia con le mani. «Ok, era la c-c-cosa più idiota del mondo, scusami.»
«Perché...» lo sento ponderare. «Ooooh!» Si mette a ridere. «Adesso ho capito, sì, è vero che in Italia Olivier Salad si chiama insalata russa, ahahah!» Lo guardo, e sta veramente ridendo di gusto per questa scemenza! «Era una joke bellissima!»
«N-n-non è v-v...»
Vengo interrotto da un suo improvviso abbraccio. «Sono tanto contento che finalmente dormi qui.» Adesso mi sento tutto sottosopra, lo abbraccio anch'io. «Il mio ragazzo» mi sussurra nell'orecchio.
«Ok, senti...» lo allontano. «D-domani giochiamo entrambi e io...»
«Non fai sesso prima di partita, lo so.» Sorride. «Dormiamo e basta.»
«Non la consideri una cosa da b-bambini?» gli chiedo.
Scuote la testa sorridendo. «Hai già lavato i denti?» Mi chiede.
«Certo!»
«Certo!» mi fa il verso. «Anch'io. Allora andiamo a letto!»
Mi spoglio, indosso la maglietta comoda con cui dormire.
«Tu sempre mutande al contrario» osserva.
«Sono più comode, te l'ho d-detto.»
Ci infiliamo sotto le coperte, lui spegne la luce e nel buio silenzioso, appena sento il suo piede toccare il mio, mi torna in mente, ora, per la prima volta dopo tre giorni, quello che è successo dopo il pic-nic.
La bocca umida di Ivan. Il mio dito nella sua bocca. La sua mano sul mio pene.
A dire il vero, non è proprio la prima volta che mi torna in mente. È un pensiero che ho cercato disperatamente di rimuovere, e bene o male mi sembra di esserci riuscito. Ma ogni tanto, qualche immagine, qualche sensazione, causata dai collegamenti mentali più improbabili: un suono, un filo d'erba, un profumo di fragole nell'aria...
E una mano, una bocca, un dito apparivano nella mia testa, e sentivo lo stomaco contrarsi, e il sangue pulsare.
Il mio cervello è sempre riuscito a riprendere il controllo all'istante. A rimuovere il pensiero disturbante.
Ma ora no. Le immagini viaggiano, riecheggiano, si ingigantiscono, e mi causano un'erezione.
Come faccio, adesso? Ivan mi sta parlando e non lo sento. La sua bocca è qui. La sua mano è qui. Se accendo la luce lo vedo, in carne e ossa. Potrei allungare la mano e toccarlo, toccargli le labbra, oddio, devo smetterla.
Mi giro e gli do le spalle.
«Misha, cosa c'è? Tutto ok?»
Vorrei dire di sì, ma non riesco nemmeno a rispondere. Mi esce solo un ansito, dalla bocca.
Lui mi appoggia una mano sulla spalla. «Ehi, tutto ok?»
Quella mano brucia. Perché mi tocca?
No, la domanda giusta è: perché mi tocca la spalla e non il pene.
Non resisto. Non ragiono. Mi giro con impeto, lo abbraccio, andandogli addosso, il mio viso sul suo petto, gli prendo la mano e la metto tra le mie gambe. Lo sento ansimare, sussurrare il mio nome, Misha, è il mio nome, non l'ho mai sentito tanto mio come in questo momento.
Mi spoglia, mi toglie la maglietta, sento che si spoglia anche lui, io mi tolgo le mutande, in pochi secondi siamo nudi, la sua pelle scotta, il suo pene mi preme addosso, sulla gamba, sulla pancia, sul mio pene.
«Vorrei baciarti» sussurra mentre mi tocca.
«Se non mi b-baci in bocca, puoi farlo» gli dico, con la voce che esce a tentoni. Non vedo l'ora che cominci.
E lo fa. La sua bocca umida mi bacia tutto il corpo, mi lecca, mi morde. Provo per un attimo lo strano desiderio di morderlo anch'io, ma è un'idea che mi repelle, cerco di non pensarci, penso solo alla sua bocca.
Voglio vederla.
Accendi la luce, dico, e fatico a dirlo, la voce mi esce strozzata.
Ma lui lo fa. E la luce porta un'immagine che non mi aspettavo di vedere: Ivan nudo, che avanza carponi verso di me, col pene eretto.
O cielo!
Provo l'istinto di ritrarmi, rannicchio le gambe. Lui capisce, si ferma. «Che c'è?»
Non so cosa dire. Cosa gli dico? Mi fa paura il tuo pene? Non posso dirglielo!
«Hai paura?» mi chiede. Allunga un braccio e mi accarezza una guancia.
«C-c-come fai a saperlo?»
Sorride, si siede accanto a me e si mette un cuscino in grembo. Finalmente non vedo più il suo pene! Io sono ancora rannicchiato con la schiena contro il muro.
«Ti avevo già detto, no? I tuoi occhi dice tante cose.»
«D-dicono» lo correggo.
«Dicono tante cose. E adesso dicono: ho paura. Di cosa?»
Indico la zona dove il cuscino nasconde il suo pene.
«Di mio cazzo?»
«È la p-p-prima volta che vedo l'erezione di qualcun altro.»
«Non vedi porno tu?»
Scuoto la testa. «C-c-cioè, ho visto qualcosa, ma non mi p-piacciono. Comunque intendevo dire: d-dal vivo.»
Si morde un labbro. «Non ti piace? »
Ci penso un po' su. «Al b-buio... forse... la sensazione t-tattile... non so, non ci stavo p-pensando.»
Fa un sorriso sghembo. L'incisivo mi sembra persino più storto del solito. «E allora perché hai detto apri la luce?»
«Volevo v-v-vedere la tua bocca, non p-pensavo che avrei visto anche il tuo p-p-p-p... il tuo p-pene.»
Ivan ride.
«Cioè, non ci stavo pensando, e mi ha sorpreso.»
Alza un sopracciglio. «Bello grande, eh?» Ride.
«A d-dire il vero mi sembra più grande il mio.»
Ride ancora più forte, anche se non l'ho detto per farlo ridere, era solo un'osservazione.
«Facciamo gara? Vediamo chi ha cazzo più grande?»
«Perché d-dovremmo fare a gara? C-che senso ha? Facciamo a g-gara chi è più alto? Vinco io. Che senso ha?»
«Per ridere!»
Ci penso un attimo su. «Non mi sembra una g-g-gara che fa ridere.»
«Perché hai paura di avere cazzo più piccolo» dice lui ridendo.
Ci penso su ancora. «P-p-punto primo: non mi sembra affatto più piccolo. Punto secondo, anche s-s-se lo fosse non mi interesserebbe.»
«Non ti frega di avere cazzo grande? Tutti i ragazzi vuole avere cazzo grande!»
«Ah sì?»
Ride. «Tutti i ragazzi scemi.»
«E p-perché?»
Mi guarda con una strana espressione tra il divertito e il sorpreso.
«È una questione estetica?» Chiedo. Ci rifletto su. «Se fosse una q-q-questione estetica bisognerebbe considerare le p-proporzioni, più che la grandezza assoluta. Un pene troppo grosso rispetto al tuo c-corpo sarebbe brutto esattamente come uno troppo piccolo.»
Continua a guardarmi con quella espressione, ancora più divertita e ancora più stranita. Mi guarda per qualche secondo e poi parla. «Davvero tu non hai... non hai idea di questo... come si dice... non hai mai sentito qualcuno che dice ho cazzo grande per essere figo? O qualcuno che dice: hai il cazzo piccolo tipo... per insulto? Doesn't ring a bell? Mai sentito queste frase?»
Ci rifletto ancora. «Ora che mi ci fai pensare credo di aver sentito qualcuno che usava l'accusa di pene p-p-piccolo come insulto. Ma non ci avevo mai dato peso.»
«Non facevi mai gara chi ha cazzo più grande quando eri in scuola primaria?»
«C-con chi?»
«Con tuoi amici di scuola!»
«Io non ho mai avuto amici.»
Mi pento subito di aver detto queste parole, perché cancellano in un istante tutta l'allegria dal suo viso. Mi sento in dovere di aggiungere qualcosa.
«Non mi è mai p-pesato non avere amici. Ho fatto solo due anni e mezzo di elementari, e gli altri bambini mi evitavano perché b-b-balbettavo. Ma erano bambini antipatici, non avrei voluto essere loro amico.»
«E poi? Non hai fatto scuola dopo seconda classe?»
«Ci siamo trasferiti negli Stati Uniti all'accademia Bollettieri e lì avevo un tutor. Homeschooled.»
«E... neanche con bambini tennisti? Non facevi mai amici con loro? Neanche uno?»
Scuoto la testa.
«Sempre solo...» Sembra tristissimo. Ma io non voglio che sia triste per me.
«Non ero solo.» Sorrido. «C'era la mamma.»
Cala un silenzio tra noi, un silenzio in cui mi sembra di sentire delle domande inespresse. Aleggiano nell'aria, la intorbidiscono. Vuole sapere qualcosa, vuole sapere di mia madre, ma non ha il coraggio di chiedere. Forse perché sa che non mi piace parlarne.
Mi capita di rado di vedere i sentimenti altrui con tanta chiarezza.
«Mia mamma era sempre c-c-con me. Non avevo bisogno di amici, c'era lei. Io ero felice con lei. Sai ho... ho sentito spesso mio p-padre dire che io e lei eravamo troppo attaccati, che il rapporto con lei era mmmmorboso, ma non è vero. Il rapporto con lei è l'unica cosa c-che mi ha salvato dalla solitudine.»
È la prima volta in vita mia che parlo così a lungo della mamma.
«E sai... è anche g-grazie a lei se adesso riesco a parlare con te.»
Ivan inclina la testa, come fa Sara quando non capisce ciò che le dico.
«Da p-piccolo la mia balbettanza era molto più grave. E avevo anche d-degli attacchi di mutismo.»
«Di cosa? Cosa vuol dire?»
«Muto. M-mute. Non riuscivo a parlare. Aprivo la b-bocca, la gola mi si stringeva e non uscivano suoni.»
«My God, e perché?»
Mi stringo nelle spalle. «Non so. Ansia. La paura di non riuscire a parlare mi paralizzava la voce.»
«Terribile...»
«Allora la mamma mi ha insegnato la lingua dei segni. Abbiamo iniziato a p-parlare così, tra di noi. Papà era furioso, quando se n'è accorto. Se fai così non imparerà mai a parlare, le diceva. Invece è stata la mia s-s-salvezza. Perché l'idea di avere un modo alternativo di c-comunicare mi ha tolto l'ansia. Sapevo che se non fossi riuscito a dire qualcosa avrei p-p-potuto comunicarlo coi segni, con le mie mani, e saperlo mi faceva parlare meglio. Mi ha fatto uscire da un circolo v-vizioso... scusa, ho usato parole troppo difficili? Hai capito tutto?»
Annuisce. «Ho capito tutto.» Sorride. «Mi insegni qualche parola in lingua dei segni?»
«Va bene. Cosa vuoi sapere?»
Fa una smorfia e si batte il mento con un dito. «Allora... brutto lo so dire.» Struscia il dito sotto il naso, imitando il segno con cui l'avevo definito, diventato poi un meme.
Rido.
«Bello come si dice?»
Allargo le dita delle mani, le faccio ruotare davanti alla bocca e le chiudo come se volessi afferrare qualcosa, poi le apro di nuovo, di scatto. È il segno che significa "bello". Ivan sembra divertito, lo ripete, sussurrando: «Bello...»
Ma non gli basta. «E amore? Amore come si dice?» mi chiede.
«Lo sapevo che me l'avresti chiesto! Non voglio d-dirtelo.»
«E Misha è il mio ragazzo?»
Rido ancora. «Eddai... chiedimi qualcosa di d-diverso!»
«Come si dice... posso toccarti la bocca?»
Rimango per in attimo interdetto. «Eh?»
«Voglio toccare la tua bocca con un dito» mi dice passandosi l'indice sul labbro inferiore, «come hai fatto tu.»
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Note note note ♫
Ivan fa richieste audaci! Secondo voi Michele accetterà?
Intanto in questo capitolo scopriamo l'informazione essenziale che il gingillo di Michele è più grosso di quello di Ivan, parbleau! Io farei un confronto su scala graduata e per ogni millimetro di differenza una stellina premio per il vincitore di questa fondamentale gara, aka Michele, che essendo il protagonista di questa storia regalerà tutte le stelline a me.
Ora che ci penso però se misuriamo in millimetri la differenza è troppo piccola. Allora facciamo per ogni micrometro di differenza!
Nota di assenza: per la prima settimana di agosto (cioè da lunedì prossimo) ho organizzato una vacanzina last minute. Vorrei prendermi relax totale e ridurre al minimo le connessioni, quindi vi chiedo un po' di pazienza: non aggiornerò! Ritornerò regolare dalla settimana successiva.
Comunque ci rileggiamo venerdì per sapere come andrà a finire questa richiesta!
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