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63. Enjoy the silence

Ancora un minuto o poco più e lo speaker annuncerà i nostri nomi.

Le telecamere ci inquadrano. Lui è già davanti a me.

Ma non ce la faccio. Devo chiederglielo.

Stanotte ho dormito abbastanza bene, Anna ha saputo farmi rilassare a meraviglia. 

Ma nel cuore della notte ho fatto un sogno. C'era mia madre che contava in russo: adin, dva, tri, e io la correggevo: ras, dva, tri.

Ci ho pensato tutta la mattina e non posso giocare con questo macigno nella testa: la mamma mi aveva insegnato una cosa sbagliata?

È totalmente fuori luogo, parlare al tuo avversario subito prima del match, ma se non lo faccio impazzisco. «Ivan» sussurro.

Lui si gira subito verso di me.

«Come si dice uno, due, tre in russo?» gli chiedo.

Raramente gli ho visto fare una faccia tanto stranita. «Eeh?»

«Signore e signori, diamo il benvenuto al numero quarantadue del mondo, Ivan Reshetnikov!»

Accidenti, non mi ha risposto! È dovuto uscire. E adesso tocca a me. Fuori nel centrale tutto esaurito. Ultimo turno pomeridiano.

Lui sta sistemando le sue cose in panchina. Oddio, "sistemare" è una parola grossa: sulla sua panchina sembra sempre che sia esploso un borsone.

Ci avviciniamo alla rete, forse potrei richiederglielo ora, ma no, perché dobbiamo ascoltare le istruzioni dell'arbitro. Testa o croce, vince Ivan. «Receive!» Foto. Non posso parlare durante la foto. «Ras, dva, tri!» mi dice salutandomi.

Ras? E adin? È proprio un errore? Un errore grave? Come può essersi sbagliata? 

Cominciamo il riscaldamento, ma io già so che non giocherò bene. Vorrei parlare con lui di questa cosa, capire l'entità dell'errore. Magari non è un errore grave, magari ras è semplicemente più usato, ma anche adin va bene. Infondo io ricordo con chiarezza che a San Pietroburgo, quando c'erano i tie-break e l'arbitro diceva i punteggi in russo, usava "adin", non "ras". Ma cos'è ras? Ma da quando in qua un singolo numero si dice con due parole diverse? Ok, anche in friulano "due" si dice "dôs" al femminile e "doi" al maschile, ma ha un senso, appunto, maschile e femminile, oppure uno e una, maschile e femminile, e sono parole che si somigliano, uno, una, dôs, doi, cambia solo la lettera finale, che diamine di assurdità è ras, adin? Ci credo che la mamma si è sbagliata, non è colpa sua! Stupidi russi!

«Fine del riscaldamento. End of warmup!»

Mi sento già affannato. Ho spinto fortissimo tutti i colpi, sono nervosissimo, vorrei spaccare tutto. 

Bevo un goccio d'acqua e sono pronto a iniziare.

«Prima partita. Al servizio Michele Bressan. Ready? Play!»

Una bomba sulla T a duecentoventi chilometri orari. Ace, applausi.

«Quindici zero. Fifteen Love.»

Una bomba esterna a duecentodieci. Ace, applausi.

«Trenta zero. Thirty love.»

Un'altra bomba esterna a duecentootto. Ace, applausi, grida di incitamento.

«Quaranta zero. Forty love.»

Una bomba sulla riga a duecentododici. Ace.

«Gioco Bressan.»

Ho fatto un perfect game. Ho appena fatto un perfect game e lo stadio è in delirio. Trentasei secondi di game. 

Ecco. Questo è quello che dovrai affrontare, caro Ivan, se vuoi battermi. Dio, come lo vorrei distruggere, lui e tutta la Russia e i loro stupidi numeri senza senso!

***

Ho perso il primo set uno sei e mi sento completamente svuotato.

Non ho energie. Non ho agonismo. Non voglio stare qui. Non voglio finire questo incontro. Voglio tornare in hotel e dormire abbracciando Anna con Sara che mi lecca le dita dei piedi. Vorrei che il campo implodesse risucchiando me, Ivan, tutti gli spettatori, Roma, l'Italia, l'Europa con la Russia e i loro stupidi numeri. La Russia è in Europa, vero?

«Time!»

Ma devo alzarmi. Ci devo almeno provare.

«Misha, tutto ok?» mi sussurra Ivan quando ci incrociamo a rete.

«Sì» mormoro passandolo.

Serve lui. Combattiamo un po', ma lui se ne esce con uno di quei suoi dropshot assurdi a due mani e mi fa punto. Non ho nemmeno voglia di provare ad arginare la sua assurdità. Assurdo come i numeri. Lo odio. Ma non lo odio davvero. Sto cadendo in uno stato di totale indifferenza. 

Riesco a tenere il mio servizio e lo stadio applaude e grida per sostenermi. Non occorre. Non voglio questo sostegno, ora. 

Sul suo servizio comincio a giocare un po' a caso. E funziona. Quindici pari con un attacco a rete diretto in risposta, un attacco davvero improbabile. 

Poi mi serve sulla T e gli rispondo profondo. Lo mando fuori e quando la palla ritorna a me gli faccio un dropshot. Mi riesce molto bene, lui ci prova, corre come un dannato, scivola, scivola troppo, oddio!

È scivolato sotto la rete. 

E io sto ridendo. 

Non dovrei ridere. Dovrei strabordare adrenalina e agonismo e invece rido come uno scemo per una scenetta infantile: una persona che scivola.

Ma è così buffo, diviso a metà dalla rete, le gambe sul mio campo, il busto sul suo. Ho lasciato cadere la racchetta a terra e mi sono appoggiato alle ginocchia con le mani. Ride persino l'arbitro.

«Aiutami invece che ridere, da?» dice lui, tra il seccato e il divertito.

Mi fa ridere ancora di più, ma decido di aiutarlo: non si potrebbe oltrepassare la rete senza motivo, durante i punti, è contro il regolamento. Ma io lo faccio, e se l'arbitro mi darà un warning, pazienza.

Scavalco la rete, prendo Ivan per le mani e lo trascino.

Lo trascino forte, però, in modo che non riesca a far leva e alzarsi. «Aaah! Mi entra terra nel culo!» grida lui.

Dio, non ho mai riso tanto su un campo da tennis! 

E tenendo forte le sue mani, trascinandolo come fosse un sacco, per un attimo non sono qui. Non sono io. Per un attimo sono un bambino, e sto giocando a un gioco a cui non ho mai giocato, un gioco un po' manesco, ma non cattivo, un gioco da bambini, con grida di protesta che non sono vere proteste, sono un gioco anche quelle. 

Ma invece sono qui, sul centrale di Roma, e questo non è un gioco da bambini, è un incontro di tennis.

Gli lascio le mani, lui ride ancora. «Sei proprio stronzo» mi dice allegro, e chiede all'arbitro se può cambiarsi la maglietta. Vorrei giocare con lui. Vorrei giocare ancora. Ma non a tennis. A qualche gioco un po' manesco. A qualche gioco da bambini.

***

Alla fine ho perso.

Nemmeno mi dispiace. Ho vinto il secondo set, ma senza giocarlo bene. Ho vinto grazie alla mia superiorità tecnica, sapendo che avrei perso l'incontro. Lo sentivo dentro, che avrei perso. È stato strano. Ero così rassegnato. Serenamente rassegnato alla disfatta.

«So che quando perdi preferisci stare solo...»

Alzo la testa di scatto. Non è considerata buona educazione dare fastidio agli altri giocatori sotto le docce. Ma Ivan è Ivan, lui non ci bada a queste convenzioni.

«Stai bene?» mi chiede. «Se vuoi che vado via dimmi. Ma sono un po' preoccupato per te.»

È nudo davanti a me e gli sto guardando il pene. Non so perché lo sto guardando, forse perché è la prima volta che lo vedo. Forse perché non sono abituato a parlare con una persona nuda mentre sono nudo anch'io. Sono perfettamente consapevole del fatto che non è opportuno guardare il pene altrui troppo a lungo, ma sono come ipnotizzato. In catatonia, è il termine più corretto. Lo sto studiando: non è che sia poi così interessante. È un pene. Un pene normale. Mi aspettavo forse che si tingesse anche i peli pubici? Il pensiero mi fa ridere.

Allora lui si mette le mani a coppa davanti al pube: «Cosa ti fa ridere? Mio cazzo?»

Lo guardo finalmente in faccia: «Mi aspettavo c-c-che avessi i peli blu con la sfumatura verde.»

Si mette a ridere anche lui. Va sotto la doccia di fronte alla mia. «Misha, ma cos'hai? Sei... sembri... depresso. Si dice depresso in italiano?»

«Non lo so c-cos'ho» rispondo.

«Anche in campo eri strano. Non c'era... come si dice...» Si versa dello sciampo sul palmo della mano. «Tu hai sempre la luce negli occhi. Oggi i tuoi occhi era...»

«Like black holes in the sky? »

Sorride. «Shine on, you crazy diamond...» canticchia. Poi annuisce. «Sì, tipo.»

Continuiamo a lavarci in silenzio, per un po'. O meglio: lui continua, io ho finito e sono a mollo sotto al getto scrosciante da almeno un quarto d'ora. 

«Ras, dva, tri» dico.

«Ctirie, piat, scest» ribatte lui.

«È un errore tanto grave se dico: adin, dva, tri?»

«No... I mean...  puoi dire anche adin, è sempre uno. Però quando conti di solito dici ras. Se dici adin suona strano.»

Annuisco.

Lui sembra perplesso, ma anche divertito. «Sembra che ti ho appena detto notizia di funerale... Ti sto solo contando i numeri!» Si mette a cantare una canzoncina in russo in cui - li riconosco - ci sono anche i numeri. Deve essere qualche tipo di filastrocca.

«Tutto bene, Misha? Dimmi qualcosa» mi implora, dopo aver finito la canzoncina.

Scuoto la testa.

«Perché non parli? Perché solo muovi la testa?»

Chiudo il rubinetto dell'acqua, mi avvolgo l'asciugamano in vita ed esco senza rispondergli. Non perché mi stia dando fastidio. Perché non so cosa rispondergli.

Fuori, in spogliatoio, ci sono mio padre e Raffaele. Parlano tra loro. Mio padre mi rivolge una lunga occhiata e non dice niente, ma so cosa pensa. Mi disprezza. Ed è un disprezzo che mi penetra sottopelle e mi fa rendere conto, adesso, a mezz'ora dalla fine del match, che era un quarto di finale, del mio Mille casalingo, e l'ho appena perso. La sconfitta comincia a bruciare. Non so perché non bruciasse prima. Ho buttato un'occasione che non si ripeterà mai più, l'occasione di costruire passo passo, pezzo per pezzo, i miei futuri record da campione.

«E quindi tre su tre» commenta Raffaele.

Zero a tre. Zero a tre contro un avversario scarso come Ivan.

Eccolo che appare, telo in vita e un altro asciugamano a coprirgli i capelli colorati. 

«Riesci sempre a entrarmi nella t-t-testa» dico con odio. Lo sento, l'odio, lo sento sulla lingua. È tutto l'odio che avrei dovuto provare durante l'incontro. Ma durante l'incontro il mio agonismo era azzerato. 

Ivan sembra interdetto, non dice niente, gli esce un «Mh» dalla bocca. 

È Raffaele a parlare. «È veramente quello che pensi?»

Gli rivolgo un'espressione interlocutoria.

«Ne parlavo poco fa con tuo padre. Sembra pensarlo anche lui: che Ivan ti batte perché ti domina psicologicamente.»

«Non è che mi domina... Non mi piace questo termine. P-però...»

«Questo è quello che succede quando mescoli sentimenti e lavoro» mi interrompe mio padre. «Cos'era quella sceneggiata a inizio secondo set? Sembravate due bambini, cazzo!»

Era proprio così che mi sentivo.

«Metterti a trascinarlo in giro per il campo! E giù a ridere come due pirla! Ci credo che poi non lo batti. Non lo batterai mai se lo consideri più un amico che un rivale. Un amico, un amante o quel cazzo che è. Le due sfere dovrebbero essere separate!»

«Amante?» mormora Ivan, ma Raffaele gli parla sopra.

«Come al solito non capisci un cazzo» dice a mio padre. «Tu e la tua ossessione per il controllo. I sentimenti vanno bene! Pensi che Vanja non provi le stesse cose? Eppure lui riesce a battere Misha.»

«Si chiama Michele!»

«Michele, ok.»

«Michele vive i sentimenti in maniera diversa» gli spiega mio padre. «Lui ha bisogno di controllo, perché...»

«No, no, no!» Sbotta Raffaele. «Lasciami finire. Quello che tu e tuo figlio non capite è che Ivan non batte Michele di testa. Lo batte di tecnica!»

«L-l-lui c-c-cosaaa?» esclamo.

«Di tecnica» ribadisce Raffaele.

«La mia t-t-tecnica è anni luce avanti alla sua» protesto.

Raffaele scuote la testa. «Non lo batterai mai, finché continui a non rispettarlo come avversario.»

«M-ma...» Sono a bocca aperta. Letteralmente. Guardo Raffaele, e poi Ivan, che guarda la scena tenendo le braccia appese ai lembi dell'asciugamano che ora gli passa attorno al collo. Sembra divertito.

Provo a ragionare. «Io lo rispetto, ma...»

«No, non lo rispetti. Ti racconti scuse, ti dici che ti fa innervosire col suo gioco strano... È questo che ti dici, vero? Ma non ti rendi conto che il motivo per cui ti innervosisci è proprio che con quei colpi strani lui ti mette in difficoltà?»

Non so cosa ribattere, ma mi sembra stia dicendo stupidaggini.

«Ivan è il più grande talento tennistico che abbia mai visto in vita mia» sentenzia Raffaele.

«Perché non mi dici mai queste cose da soli?» chiede Ivan.

Mio padre batte le mani tra loro, una volta. «Di tutte le cazzate...»

«È al suo secondo quarto Mille, domani si gioca la sua prima semi Mille e ha solo diciotto anni. È in traiettoria a Michele, come risultati per età, e continui a reputarlo scarso?»

«Quando gli altri giocatori cominceranno a capire...» comincia papà.

«Ormai è un anno che sta in giro!» inveisce Raffaele. «Ci fosse qualcosa da capire l'avrebbero capito già tutti! Ma Ivan è un'incognita, perché pensa diverso, gioca diverso. Ha imparato il tennis da solo. A caso. Inventandosi i colpi. Capisco come mai non lo capite. È troppo strano. Troppo brutto. Lo pensavo anch'io, quando mi ha chiesto di allenarlo. Non posso allenare uno così storto, non riuscirò mai a raddrizzarlo. Ma stavo sbagliando tutto. Perché pensavo a lui in termini tradizionali: il dritto si fa così, il rovescio colà, e l'open stance, e la semiwestern... cazzate! Ivan non è uno sportivo, è un artista! Non puoi cambiare lo stile di un artista!»

Ivan fa un'espressione gongolante, mentre mio padre scuote la testa. «Tu e la tua fissa per l'arte... il tennis è un'arte! Te l'ho sentito fare un sacco di volte, questo discorso cretino. Il tennis è uno sport, non c'è spazio per i fronzoli. Guardali, tutti i tennisti spettacolari, quelli che vengono chiamati artisti... i Paire, i Kyrgios, i Monfils... tanto divertenti da guardare! Tanto talentuosi,» fa le virgolette con le dita, «ma hanno mai vinto un cazzo? No!»

«Ivan vincerà! Ivan sta già vincendo! Perché in un mondo di gente noiosa porta scompiglio!» 

«Con lo scompiglio e il gioco casuale puoi arrivare solo fino a un certo punto.»

«Concordo» ammette Raffaele. «Ed è qui che entro in gioco io. Il mio ruolo è insegnargli ad applicare il suo stile alle situazioni concrete. Ivan non gioca a caso. Mai! Ha sempre una strategia, ed è talmente intelligente che se la strategia che abbiamo studiato non funziona, è in grado di reinventarla da solo, di testa sua nel bel mezzo della partita. È un talento, ti dico, un talento puro! Ed è per questo che non cambio il suo stile, non cambio i suoi colpi, al massimo gli aggiusto qualche deriva un po' esagerata, qualche spreco eccessivo di energia, qualche movimento pericoloso per le sue giunture. Ma stop. I suoi colpi funzionano alla perfezione, perché dovrei normalizzarlo? Perché dovrei castrare il suo spirito artistico?»

Papà fa una risatina amara. «Tu e il tuo spirito artistico... Sono un artista, nessuno mi ingabbia... La tua ottima scusa per la tua totale assenza di disciplina! Cos'è, lo porti anche a lui ai festini a drogarsi?»

Raffaele si incupisce.

«Perché è questo che fanno gli artisti, no? Sesso, droga e rock and roll.»

«Mi sembra che Elisa non si sia mai drogata...»

Il nome di mia madre fa precipitare qualcosa nel mio petto.

«...eppure era un'artista anche lei» conclude Raffaele.

Basta! Devono smettere subito di parlare di lei!

«No, non si è mai drogata!» Mio padre è furioso: ha alzato la voce. «Ma ci è morta di quelle idee del cazzo!»

Mi manca l'aria.

Cerco di prendere un respiro, non ci riesco, metto le mani sulle orecchie e scappo in sala docce. Vorrei sfondare il muro e uscire di qui. Non devono parlare di lei, non devono!

Una mano sul braccio, so che è la sua. Mi giro verso di lui.

«Misha, vuoi...»

«No, non voglio p-p-parlare! Smettila di c-chiedermi se voglio parlare! Lei era p-p-perfetta! E non importa se mi ha insegnato male i numeri, era perfetta! Mi d-d-dà fastidio che ne parlino, che p-p-provino a interpretarla! Tutti! T-t-tutti vogliono dare il loro parere, ma non la c-c-capiscono! Non l'hanno mai capita! Non la c-c-c-capiranno mai! Mai!»

«Misha, calma...»

Ansimo.

«Calma...» Si avvicina a me.

Mi abbraccia.

Mi spaventa, di primo acchito. Mi spaventa il contatto con la sua pelle nuda, ancora un po' umida. 

Ma è solo un attimo. Chiudo gli occhi, e sento di aver bisogno di questo abbraccio, mi sembra di non aver mai avuto tanto bisogno di qualcosa, come questo abbraccio.

È uno di quei momenti in cui vorrei che fosse più alto, vorrei appoggiare il viso al suo petto.

Ma mi accontento. È bello farsi abbracciare. Così, in silenzio. Glielo dico. «È bello stare in silenzio.»

«Enjoy the silence» canticchia.

«Hai una canzone per tutto, tu.»

In tutta risposta continua a cantare: «All I ever wanted, all I ever needed, is here, in my arms... Words are very unnecessary, they can only do harm...»

«Ma t-te la sei inventata adesso?»

«No, è una canzone dei Depeche Mode. Enjoy the silence. Cercala, è bellissima.»

«È perfetta» sussurro, nascondendo il viso sulla sua spalla. «Dice proprio quello che p-penso.»

Lui mi stringe più forte, le mani aperte sulla schiena premono sulla carne. «Pensi questo veramente?» sussurra anche lui.

«Sì.»

Questo abbraccio è tutto ciò che voglio, in questo momento.

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Note note note

La conoscete questa canzone? Secondo me sì. Forse alcuni di voi non l'avranno capita leggendo solo le parole, ma la riconosceranno ascoltandola. È Enjoy the Silence dei Depeche Mode, ossia uno dei pezzi più belli di uno dei miei generi musicali preferiti: New Wave / Synth Pop. Ascoltatelo in religioso silenzio!

https://youtu.be/aGSKrC7dGcY

E veniamo ora al capitolo. Misha ha perso anche stavolta, e per la prima volta abbiamo una prospettiva esterna e imparziale sul suo gioco: che ne pensate di ciò che dice Raffaele? Vanja si rivelerà davvero un talento o è destinato a essere un bluff come ha sempre pensato Michele?

E se è un talento davvero, Michele comincerà finalmente a capirlo e accettarlo?

Io faccio tutti 'sti discorsi tecnici, ma tanto lo so che state tutti pensando al salame di Ivan. E avete presente che la Negroni ha la linea stella per i suoi prodotti di alta qualità? Ecco: secondo voi il salame di Ivan è di qualità abbastanza alta da meritare una stella? Se pensate di sì, lasciatela in cima al capitolo!

(Devo ringraziare Juiceissweet che mi ha suggerito di usare nelle note la stella del salame Negroni, anche se non penso che immaginasse che la cosa finisse per diventare una tale bieca volgarità)

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