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49. Abitudini

Io e Ivan abbiamo preso l'abitudine di dormire insieme. In camera mia, con mio padre nell'altra stanza. Non mi è consentito di andare in camera di Ivan, quindi facciamo così. 

Non è un problema perché non facciamo niente di male e mio padre ne è perfettamente consapevole. Ci limitiamo a dormire, abbracciandoci un po', tenendoci per mano. Non dormivo così bene dai tempi in cui la mamma contava insieme a me.

Ho finalmente rivisto Raffaele di persona. Mi aspettavo di trovarlo dimagrito, e un po' lo è, ha il viso meno gonfio, ma ancora parecchia pancia. I denti sono sempre orribilmente scuri, fatico a guardarlo, tanto sono brutti. Però mi sembra migliorato. Meno sonnolento. Più presente. Ma anche più irrequieto.

Abbiamo parlato un po' ed è stato sincero con me. Mi ha detto che non passa giornata in cui non pensi a bere. «Non è una mancanza fisica, non più» mi ha detto. «È che è così difficile essere sobri, percepire tutto lo schifo con questa chiarezza.» Quale schifo, gli ho chiesto. «Lo schifo che ne ho fatto della mia vita» mi ha risposto. «È difficile venire a patti con la realtà.» 

Mi è tornata in mente la riflessione di mio padre sul rapporto tra Raffaele e la realtà, ma non ho detto niente. «Per fortuna c'è Ivan» ha detto infine. «E tuo padre. Che mi fanno da stampella, in modo diverso.»

Come vorrei avere una telecamera nascosta e guardare un'interazione tra Raffaele e mio padre. Cosa si dicono? Di cosa parlano? Mio padre non ha mai avuto amici. Solo colleghi e sottoposti. E me e Daniele.

«E per fortuna ci sei stato tu» ha aggiunto infine. «Non so quanto a lungo campo, ma finché campo non smetterò mai di esserti grato per quello che hai fatto.»

È qui che l'ho salutato, perché mi sentivo in imbarazzo. Ho solo messo dei soldi, soldi che quasi non so di avere. Non ho fatto niente di speciale.

***

È la madre di Ivan, quella? Non mi stupirebbe che sia venuta qui in Australia, visto che Ivan è ancora in gara nel doppio, è appena iniziato il torneo di wheelchair, e da un paio di mesi lei è la manager di Ivan e Andrej, o, come la definisce Ivan, la sua "mamager" (uno stupido gioco di parole che, confesso, ho impiegato qualche secondo di troppo a capire). È lei che ha contrattato con l'Adidas a loro nome. 

È andata così: a settembre, quando Andrej ha vinto gli US Open ed è stato personalmente contattato dall'Adidas, si è messo a cercare un agente che lo aiutasse a sbrigare gli affari e magari gli trovasse qualche altro contratto di sponsorizzazione. La madre, che a quanto mi ha detto Ivan ormai ha lasciato la gestione del tennis club totalmente in mano al padre, si è offerta di aiutarlo. A questo punto si è intromesso Ivan proponendole di fare da manager anche a lui. «E lei stronza sai cosa dice? Vinci Slam e vediamo! Allora io ti prego ti prego, e lei non resiste quando io dice ti prego ti prego, e allora: ok, mannaggio anche Vanja, però prendo dieci per cento. Ma Andrej solo cinque! Andriusha è sempre stato mio preferito, ahahah!»

Anche se stava scherzando, l'ho trovato uno scherzo di cattivo gusto. Io sarei rimasto sconvolto se mia madre mi avesse detto che preferiva Daniele. Anche se l'avesse detto per scherzo.

Irina Reshetnikova. Avevo visto una sua foto, ma è la prima volta che la incontro di persona. Di viso somiglia un po' a Ivan, ne condivide i lineamenti spigolosi. Ha i capelli grigi e ben pettinati, un aspetto molto curato, trucco leggero sul viso, le labbra sottili e molto rugose, che non mi piacciono, ma dei bei denti bianchi e regolari. 

Si trova insieme a Ivan in una delle tante players lounge dell'Indoor tennis center. Io sono venuto qui in attesa che arrivino Armando ed Ethan, per la seduta di palestra (è lunedì, giorno di pausa per la mia metà di tabellone). Non  vorrei dar loro fastidio, ma è lo stesso Ivan a chiamarmi.

«Finalmente ti conosco» mi dice lei stringendomi la mano. «Adoro il tuo rovescio!»

La ringrazio.

«Sai, mama mi diceva adesso che mi ha trovato nuovo sponsor.» Il tono di Ivan non è entusiasta, ma quasi disgustato.

«Non sei contento?»

«No! È Peugeot!»

«È un b-buono sponsor e sei in buona compagnia. Anche Del Potro, Ferrer...»

«Ecco!» Allarga le braccia. «Centomila tennisti sponsorizza Peugeot! Che palle!» 

«Ero indecisa tra Peugeot e Auto Vaz» dice la madre (apprezzo il fatto che abbia parlato inglese per non escludermi).

«Eww!» Ivan spalanca gli occhi. Poi porta una mano al cuore e mette su un'espressione melodrammatica. Mi guarda e scuote gravemente la testa. «You see? It's not true that russians love their children too!» 

Ma cosa dice? Mi viene quasi da difendere la madre, ma lei si mette a ridere.

«Stavo citando una canzone di Sting» mi spiega Ivan, forse notando lo sgomento sul mio viso.

Una canzone? Ecco perché la frase faceva rima... ma che razza di canzone orribile può avere un testo simile? gli chiedo.

«Una canzone che dice la verità... che crudeltà nei confronti del figlio!» Ivan allarga le braccia. «Auto Vaz!»

Cos'è Auto Vaz? gli chiedo. E cos'ha di tanto terribile?

«Auto brutte russe. Ma forse Auto Vaz era meno noioso di Peugeot!»

«Stai continuando a lamentarti?» gli chiede la madre, con un'aria tra il piccato e il divertito.

Iniziano quindi a discutere in inglese. Ivan le dice che lui non è una persona noiosa, quindi non vuole sponsor noiosi. «For example watches! Tutte le interviste con quella golden pie (torta d'oro, usa questa strana espressione) al polso. Booooring!»

Non ti piacciono i Rolex? gli chiedo in inglese. Ne sto indossando uno in questo momento. Lo faccio perché è il mio sponsor, ma comunque, a prescindere da questo, lo trovo un bell'orologio.

Lui fa una smorfia. «Nah. Noioso! Mi piace Swatch! Mamma, parla con Swatch!»

Adesso è la madre a fare una smorfia. «Sono orologi economici», gli dice «non sponsorizzano tennisti.»

«A me piacciono» insiste Ivan, «sono colorati!»

«Ma se non ne hai mai posseduto uno!»

«Perché tu non me l'hai mai comprato.»

«Hai mai indossato qualcosa che ti ho comprato io?»

«No, perché hai gusti orribili.»

Trovo ci sia qualcosa di oltraggioso nel modo in cui parlano Ivan e sua madre, anche se lo stanno facendo con un sorriso sotto i baffi. Io non avrei mai potuto interagire così con la mamma. Mamma era così dolce e buona e bella e delicata. Non le ho mai sentito dire una parolaccia. 

Mi manca. Dio, come mi manca. Guardare Ivan e sua madre che interagiscono mi fa sentire terribilmente la sua mancanza.

«Ho pensato a un altro sponsor» esclama Ivan nel bel mezzo della discussione con la madre. «Playstation!»

La madre non risponde. Si limita a scuotere la testa e sospirare.

«O X-Box! Non importa. Qualcosa di divertente! Giochi! Giocattoli! Huh! Giochi da tavolo!»

«Non ho mai sentito uno sportivo di qualsiasi sport sponsorizzato da un gioco da tavola...» obietta la madre. Io mi metto a ridere.

«Tipo... Monopoly, qui sulla manica...» dice Ivan facendo un segno sul braccio. «O... meglio, Dungeon and Dragons! Figo... O... Lego!» Batte le mani.

Mi illumino. Amavo il Lego, da bambino, esclamo.

«Chi non lo ama?» constata Ivan.

«Tu amavi rompere i lego di Andriusha» dice la madre.

«Non rompere: rifare!» Puntualizza lui.

La madre mi guarda. «Andreji diventava matto. Aveva tutti questi bei giocattoli di Lego Star Wars, Star Trek, Harry Potter... tutti perfetti... Vanja arrivava e in due secondi aveva distrutto l'astronave per fare qualche scemenza che capiva solo lui.»

«Che divertimento c'è a seguire il manuale?»

Ti avrei odiato. Io ero molto preciso con le mie costruzioni, gli dico.

«Non avevo dubbi! Io ti avrei distrutto tutte le costruzioni e insegnato la bellezza di usare la fantasia!»

«Non fare il poetico, adesso. Volevi solo dare fastidio ad Andriusha» si intromette la madre.

Ivan ride. «Hai visto Lego Movie?» Mi chiede, in italiano.

«No» gli rispondo.

«Una sera lo vediamo. Anche quel film dà ragione a me.»

***

Martedì sera. Ho giocato e vinto un bel match in quattro set contro Josip Božić. Sono in semifinale, dove quasi certamente incontrerò Molina. Ivan e Dudnik ieri sono stati eliminati da Monroe (James, non Alex) e Soares. Ivan è ancora qui, perché Andrej è ancora in gara «e tanto non devo andare da nessun posto e hotel paga mama» (testuale).

Tra conferenza, trattamenti vari, cena e pulizia dei denti, ho stimato che sarei stato libero per le undici, l'ora a cui gli ho dato appuntamento qui in camera. Mancano dieci minuti, e per passare il tempo decido di ascoltare quella canzone dei Pink Floyd che Ivan mi aveva consigliato ormai una settimana fa: Shine on you crazy diamond. Aggancio gli auricolari e mi stendo sul letto. Sono piuttosto stanco. 

Parte la musica. Un suono sospeso, ricco, profondo, che si protrae a lungo, e su cui infine si innestano quattro note. Credo sia una chitarra. Ha una forte eco. È un bel suono, mi piace.

La musica continua, si arricchisce di strumenti e note. Mi piace. Mi ci perdo. Passano i minuti: ma è un pezzo strumentale? Ivan mi ha detto che aveva un testo. Deve essere un'introduzione musicale. Molto lunga. Bella ma lunga. Estenuante. Però mi piace, nonostante tutto. I suoni creano un'atmosfera struggente. 

E finalmente parte il canto.

Ricordi quando eri giovane, brillavi come il sole. Continua a brillare, diamante pazzo. Ora nei tuoi occhi c'è un'espressione, come buchi neri nel cielo. 

Qualcosa si muove dentro di me. Non è solo la musica a essere struggente. Anche il testo lo è. Mi turba. Mi commuove. Ricordo il racconto di Ivan, sul cantante impazzito e i compagni che non hanno mai smesso di rimpiangerlo. Mi sembra che siano perfettamente riusciti a infondere quel rimpianto nella canzone.

La musica finisce, ma io torno un po' indietro, voglio riascoltare le parole. 

Now there's a look in your eyes, like black holes in the sky. È un'immagine terrificante. Forse per semplice assonanza, mi torna in mente la canzone russa che mi aveva cantato Ivan: occhi neri. Ora quegli occhi li immagino così: come buchi neri nel cielo. Sono i miei occhi, due voragini nel mio viso.

«Misha?»

Sento la sua voce sotto la musica e mi rendo conto che stavo a metà tra la veglia e il sonno. L'ha fatto entrare mio padre. Mi alzo di scatto a sedere sul letto e Ivan mi guarda preoccupato. «Misha... cosa c'è? Hai occhi strani...» sussurra, forse per non farsi udire da mio papà.

«Stavo... cioè... Stavo ascoltando Shine on you crazy diamond, e mi... mi ha fatto un effetto... Mi ha c-commosso.»

Lui si siede accanto a me, mi sorride e mi accarezza il viso con la punta delle dita. È un gesto che mi turba quasi più dei buchi neri.

«Sono molto stanco, stasera. P-p-ossiamo dormire subito?» dico, voltando il viso dall'altra parte.

«Ok.»

Ci svestiamo e ci mettiamo sotto le lenzuola. Stanotte avverto più del solito il bisogno di sentirlo vicino. Mi butto verso di lui, forse con un po' troppa foga. Lui fa un sospiro e mi stringe. Mi accarezza la schiena, mi tira a sé, le sue mani mi afferrano le natiche e capisco di avergli dato, come già è successo, un segnale sbagliato. 

Lo spingo via e gli chiedo scusa. Sottovoce. Mio padre, di là, ha la tv accesa a basso volume. 

Ivan sospira. «Scusa tu» sussurra. Si gira e mi dà le spalle. Allora mi riavvicino e lo cingo da dietro, come qualche sera fa. Lui resta immobile per qualche secondo. Poi fa qualcosa che non mi sarei mai aspettato: mi tira un calcio, all'indietro. «Smettila» dice.

Non sta scherzando. È serio.

«I-h-iio...» tentenno. 

Lui si gira verso di me, mi prende il viso tra le mani: «Non ce la faccio più!» Lo sussurra, ma è un sussurro sforzato. Intravedo il suo viso, alla debole luce che proviene dalla stanza di mio padre. Si sta mordendo le labbra. «Tu non capisce, eh? Non capisce!»

«C-cosa?»

«Pensavo che ce la faccio, ma non ce la faccio.» Poi mi viene addosso e mi parla, pianissimo, dritto nell'orecchio: «Non ce la faccio a stare con cazzo duro tutte le notte per tutta la notte.»

Si allontana e mi guarda negli occhi. In realtà è ancora molto vicino. Io trattengo il fiato perché non voglio respirare il suo respiro. «Tu non... io non ti piaccio, vero? Tu non vuoi... non vuoi avere sesso, vero? Dici che ti ecciti e non sai perché. Tu non vuoi niente di quelle cose con me, da?»

Non so cosa rispondere. Mi sta un po' spaventando.

«Io per te sono come Sara, vero?»

Sorrido. «Sì!»

Sorride anche lui, ma c'è tristezza nei suoi occhi. «Sei così... naive, che me lo dici come cosa bella.»

«È una cosa b-bella. Sara è...» Io voglio bene a Sara. Voglio bene anche a Ivan? Io penso di sì. «È imp-portante pe-peer me.»

«Oh, Misha...» Mi abbraccia. Lo abbraccio. Mi batte il cuore quasi stessi giocando un punto da venti colpi.

Mi parla ancora nell'orecchio. «Io mi piacerebbe tanto stare sempre così con te. Come due bambini. Ma non sono un bambino, capisce? Non ce la faccio. Sto male.»

Penso di capire.

Lo allontano. «Scusa.»

«Sai... ho conosciuto un ragazzo» mi dice dopo qualche secondo di silenzio. «Un junior. Gli piaccio. Mi piace. Per te è ok?»

Il cuore accelera di nuovo, ma stavolta di paura. Una paura che non capisco.

«In c-c-che senso?»

«Non ho capito bene cosa siamo, io e te. Non abbiamo mai fatto niente, ma non sono solo tuo amico. Non mi sento che sono solo tuo amico.»

«Friend with benefits?» gli suggerisco.

Gli scappa una risatina. «Niet! Sai cosa vuol dire?»

«No. È un'espressione c-c-che ho sentito usare alla Karneyenka.»

«Vuol dire: amici che scopa.»

«Ah. No. Allora no.»

«Mi fai sempre ridere, Misha. Sto bene con te. Ma basta dormire insieme. Amici e stop, ok? Da?»

Annuisco.

«Voglio provare con questo junior. Ti dico.»

Non voglio. Non voglio che si metta con questo tipo. Non sono geloso, ma ho paura che poi si dedichi totalmente a lui e non consideri più me. O forse è proprio questa la definizione di gelosia?

«Ok?» Insiste.

«Ok» dico. Perché nessun'altra risposta mi sembrerebbe quella giusta.

Mi sorride. «Dormiamo?»

Sorrido anch'io. «Spakoinj noci? Si dice così, no?»

Ridacchia. «Da! Maladiez!»

«Cosa vuol d-dire maladiez?»

«Vuol dire: bravo!»

«Potevi dire bravo...»

«Piano piano impara russo anche tu! Non vuoi imparare russo?»

«Maladiez...» ripeto. Che parola strana. «No, il russo è troppo d-difficile, non lo imparerò mai...»

Ivan fa una risatina, poi si dà un bacio sulla mano e la appoggia sulla mia fronte. «Spakoinj noci.»

Chiudo gli occhi. La fronte mi sembra calda, nel punto in cui mi ha toccato.

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Note note note

Lo so che non siete contenti. E mo' chi è questo junior? Forse lo vedremo nel prossimo capitolo. E cercate di capire anche il povero Vanja frustrato...

Shine on you crazy diamond, la canzone che ascolta Michele, è una delle più famose dei Pink Floyd e anche questa sarà molto importante nel proseguire della storia.

https://youtu.be/cWGE9Gi0bB0

Ci rileggiamo mercoledì  e  quest'oggi un po' di etimologia: lo sapevate che la parola stella deriva dal latino "asterula" che è il diminutivo di astera che deriva dal greco aster, astro. Quindi quando diciamo stellina stiamo facendo in realtà un doppio diminutivo, si tratta proprio di una cosa piccola piccola, un astrininino, mi volete proprio negare una cosina così piccolina e di poco conto? Eh? 🥺👉👈

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