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46. Cosa voglio da Ivan

Ivan suona un accordo alla chitarra, steso sul letto a pancia in su.

«Pink Floyd... grande!» 

Ne suona un altro. 

Io sono seduto a terra, ai piedi del letto con la schiena appoggiata al materasso. Gli do le spalle, in pratica, ma giro la testa per guardarlo: non so perché mi sono messo in questa posizione così scomoda. «Dovevo pensare...» prosegue lui, «dovrei... avrei dovuto pensare che ti piace! Sono proprio il band giusto per te! Sempre a parlare di problemi di testa, e tu sei un po' pazzo di testa» ride. Suona lo stesso accordo di prima e ci canta sopra: «The lunatic is on the...» prova un accordo, «niet...» ne prova un altro, «niet...» sbuffa, dice qualcosa di incomprensibile in russo. «Ah, here it is.» Suona l'accordo. «...on the grass. The lunatic is on the grass...» Cambia accordo e stavolta penso abbia trovato subito quello giusto perché continua a cantare senza interrompersi. «Remembering days, and daisy chains and laughs... Got to keep the loonies on the path!» Alza le mani dalla chitarra, che rimane appoggiata al suo petto, e le batte in aria. «Bellissimo!»

«C-come fai a ricordarti così tante canzoni?» gli chiedo.

«Le parole delle canzoni che mi piace mi ricordo. Le... come si dice... chords? Corde? Le corde le trovo cantando la canzone in testa.»

«Le trovi? E come?»

«Sì! Se suoni tanto, poi dopo un po' le corde le senti... le capisci nelle orecchie...»

Scuoto la testa. «Io non credo riuscirei mai a capire.»

Fa un altro accordo, mi sembra a caso. «Hai sentito solo The dark side of the moon

«Sì.»

«Prova anche Wish you were here. Trova canzone che si chiama: Shine on you crazy diamond

Un titolo molto strano. «Shine on... cosa? Cosa significa?»

«Come si dice shine in italiano?»

«B-b-brillare.»

«Brilllllare» si arrotola le elle sulla lingua. «Il titolo vuol dire... brilli, diamante pazzo! Shine on! È tipo... dai, su, brilli! Continua a brillare!»

«Brilla.» lo correggo quando capisco cosa sta cercando di dire. «L'imperativo è brilla.»

«Ok. Brilla! Capisci?»

«E cos'è un diamante pazzo?»

«No cosa. Chi. Chi è. Era il primo cantante dei Pink Floyd, che è diventato pazzo.»

«Eh?»

E allora Ivan mi racconta la storia del primo cantante dei Pink Floyd, Syd Barret, un ragazzo a suo dire bellissimo e geniale, ma malato di schizofrenia, che a causa della sua malattia e delle troppe droghe prese, è dovuto andare in cura e lasciare il gruppo. I suoi compagni di band, però, non l'hanno mai dimenticato, e gli hanno dedicato album e canzoni cariche di nostalgia.

«Era genio... vero genio! Pink Floyd con Syd Barret molto più psaicheleici, forse a te non piace. Mio papa dice che con Syd Barret Pink Floyd era gruppo serio, invece Pink Floyd post Syd Barret piace solo a due tipo di persona: vecchi e ragazzi piccoli.»

Non capisco il senso di questa osservazione. «C-cosa significa?»

«Significa che piace a vecchi perché sono gruppo di quando erano giovani, e piace a ragazzi piccoli perché sembrano cool e strani. Poi ascolti più musica e trovi altri gruppi più cool e più strani e i Pink Floyd sembrano roba per... come si dice... amateurs

L'osservazione mi offende un po', abbasso la testa e mi abbraccio le ginocchia. Ascolto roba da amateurs? «Quindi nnnnon sono un bel gruppo?»

«Ma no, scherzi? Sono un grande gruppo! Mio papa è un po' snob. Ha collezione giga di dischi LP, di quelli grandi neri, capito? Ascolta roba difficile. Ma io sono un ragazzo piccolo, comunque, e Pink Floyd mi piace. Forse tra tre anni non sono più ragazzo piccolo e non mi piace più.» Ride.

«Io non sono un ragazzino» obietto.

«Hai diciannove anni, da?»

«Non sono un ragazzino, sssssono un uomo. Ho i peli sul petto.»

Ride ancora. «Tu chiami peli quella roba poco che hai lì? Dovevi vedere mio primo boyfriend, allora. Avevamo quindici anni e aveva più peli di te.» Si gratta il mento. «Voglio sapere come è diventato adesso che ha diciassette, secondo me è trasformato in werewolf.»

Mi rendo conto di aver usato un argomento sciocco. «Sono adulto. C-c-compio vent'anni a febbraio e...»

«E dormi in camera con tuo papa.»

Sbuffo. Non si può ragionare con lui.

«Now that I mention him...» Si toglie la chitarra dalla petto, la appoggia al lato del letto, poi si butta a pancia in giù e sporge il busto un po' fuori dal materasso, affiancandosi con la testa alla mia: vedo i suoi capelli azzurri con la coda dell'occhio. «Lui sa che sono qua? Dove è andato?»

«Lo sa. Ci ha lasciati soli ap-p-p-posta.»

Lo guardo. Il suo viso e a poco meno di un metro di distanza. Sembra sorpreso. «Ma lui... mi odia!»

«Sì, ma pe-peeensa anc-c-cora che tu sia il mmmmmmio rr-rar-r-r-rrrr...» non riesco a dire ragazzo. «B-b-boyfriend.»

«Però mi odia» obietta. «Come possibile che ti lascia vedere me se pensa questa cosa?»

«Infatti nnnnon gli piace, ma ha detto che ne ho b-b-b-isogno, per sfogarmi. È p-per quello che ci ha lasciati soli.»

Socchiude gli occhi. «Bisogno... in che senso?»

Prendo un grande respiro, prima di parlare. «Mi ha detto: batti Balducci e stasera fai sesso con Ivan.» Non riesco a capire come sia possibile che non abbia balbettato questa frase, e solo dopo averla terminata mi rendo conto che forse non avrei dovuto dirla.

Percepisco che mi sta guardando. «Ti ha detto questo?» sussurra.

Annuisco. Ho un nodo in gola. Sento il bisogno di parlare di questo argomento. «Stamattina mio p-p-papà mi ha trovato che abbracciavo la tua carota... mi ero addormentato abbracciandola.»

«Oooh, che cute...» dice.

Io scuoto la testa. Lui mi guarda, io continuo a fissarmi le ginocchia. «No. La abbracciavo perché... mi manca Sara, la mia cagnolina. Sono abituato a d-d-dormire con lei, capisci?»

«Da...» sussurra.

«Però quando mio p-p-padre mi ha visto con la carota mi ha detto... mi ha detto che stavo abbracciando un simbolo fallico.» Mi giro finalmente a guardarlo. «D-d-dimmi la verità, mi hai regalato la carota perché è un ssssimbolo fallico?»

Ivan fissa i suoi occhi da weimaraner nei miei per diversi secondi, prima di dire: «Cosa significa: simbolo fallico?»

«Che è a forma di p-p-pene.»

Ivan trattiene per qualche secondo una risata nel naso, poi si rotola sulla schiena ed esplode in un sonoro Ahahah! al soffitto. «Sei scemo» mi dice indicando la carota, che ora giace su una poltroncina. «Ti sembra che sia a forma di pene quella cosa?»

«Quando ti avevo d-d-detto che mi piace la c-caaarota mi hai ammonito a n-n-non dire frasi compromettenti. Ora capisco perché . È comp-p-promettente perché la carota ha una forma che ricorda quella di un p-p-pene, giusto?»

Lui rovescia la testa all'indietro, oltre al bordo del letto, e la volta verso di me. Alza un sopracciglio. «Sì... sì, ma ti giuro la carota peluche non c'entra niente, te l'ho regalata perché mi sembra simpatica. Non è simpatica? Tu mangi tanta verdura e io ti regalo verdura di peluche! Fa ridere!» Tira su il collo e lo massaggia. «Ahi, posizione inconfortabile!»

Sorrido, infine. «Sì... sì, è una carota molto simpatica.»

Ivan si ribalta per l'ennesima volta (non sta mai fermo!), si arrampica fuori dal letto, mette le mani a terra e fa una capriola per scendere. Ride. Rido anch'io. Poi viene a sedersi proprio accanto a me, il braccio praticamente a contatto col mio. «E quindi tuo padre pensa che io ti regalo cose a forma di pene? E pensa che tu le abbracci perché ti manca cazzo? Ho capito bene?»

Annuisco, guardando avanti a me. «Sai... mi ha chiesto... mi ha chiesto quando è stata l'ultima volta c-c-c-che mi sono mmmmasturbato. Mi ha d-detto che dovrei farlo più spesso.» Non riesco a decidere se sia una di quelle volte in cui ho parlato troppo e raccontato cose troppo intime. Come quella sera in chat. No, non pensare alla chat.

Lo sento respirare.

«Mi dà molto fastidio che me lo d-d-dica» aggiungo. Poi trovo il coraggio di guardarlo.

Ivan ha gli occhi sgranati, le sopracciglia basse, un'espressione intensa, turbata, forse. «Da! Certo ti dà fastidio!» Dice infine. E dicendolo sembra sollevato. 

E mi sento sollevato anch'io. Avevo il bisogno di chiederlo a qualcuno, di chiedere: «È normale?»

«Cosa, che tuo papa ti dice di fare le seghe? No! Che embarazzo!»

«Mio padre mi d-d-dice che non dovrei imbarazzarmi, perché sono c-c-cose naturali. Tuo padre non ti p-p-parla mai di queeeeste cose?»

«Mio papa: mai. Mia mama... mmm... una volta quando ero piccolo mi aveva fatto discorso tipo... sai come funziona intercorso sessuale? Grande embarazzo. Poi una volta, più grande, mi ha detto: mi raccomando Vanja, usa sempre condom! E basta.»

Annuisco.

«I mean... nu, sono cose naturale, sì, ma anche privato, privacy! Sono cazzi tuoi quando fai le seghe e scopi, ok? Non... ugh!» Fa un'espressione disgustata. «Come fai? Non gli dici niente?»

Scuoto la testa. «È difficile p-p-parlare con mio papà.»

«E quindi lui pensa che adesso io e te siamo qua che scopiamo?» Ride.

Vorrei ridere anch'io, ma mi imbarazza l'idea che mio padre stia pensando questo. Lo sta pensando davvero.

«E quindi?» Dice. «Visto che ci siamo...» Alza un sopracciglio e mi tira una gomitata e io mi irrigidisco.

Lui ride di nuovo. «Ma dai, scherzo!»

Mi alzo di scatto. «Devo andare in bagno.»

Ride di nuovo. «Dove vai? A fare una sega?»

Stupido! Stupido invadente cretino insensibile!

Entro in bagno e sbatto la porta dietro di me. Mi ci appoggio. Il pene mi pulsa in mezzo alle gambe. Sono mezzo eccitato. Perché è successo? Mi rendo conto che sto ansimando. Forse dovrei davvero masturbarmi. Forse mio padre aveva ragione, ho bisogno di sfogarmi.

Dopo qualche secondo sento la porta vibrare con tre rintocchi. «Misha?» La voce debole di Ivan. «Misha, scusami. Sono stupido. Scusami.» Il suo tono sembra davvero dispiaciuto. Mi calma. Mi calma anche l'eccitazione. Prendo un respiro, apro ed esco. «No, scusa tu.»

Mi guarda un po' imbronciato. Il suo labbro inferiore è umido. 

Mi sto eccitando di nuovo. Dannazione, perché? Con un paio di lunghe falcate lo oltrepasso. Sono al centro della stanza. Al centro di questa grande suite. Gli do le spalle. «Ivàn, posso essere sincero con te?»

«Sì, certo.»

«Adesso ti dico una c-c-cosa, però, p-p-p-p-per piacere, mi p-p-prometti che non fai niente?»

Impiega qualche secondo a rispondere. «Cosa devo... dovrei fare?»

«Niente.»

«Se dici questo sono... mmm... come si dice... preoccupato.»

Giro un po' la testa verso di lui, ma continuo a dargli le spalle. «Prometti.»

Sospira. «Ok.» 

Perché il suo labbro è così umido? E liscio. Sembra liscio. Vorrei toccarlo con il dito. Dovrei fronteggiarlo e avvicinarmi un po', per toccarlo. Solo qualche passo. Ma resto immobile. Anzi giro di nuovo la testa, perché non ho il coraggio di vedere come reagirà.

«Sono eccitato.»

Qualche secondo di silenzio. «In che senso?»

«Aroused. I don't know why.» Sospiro. Dio, perché ho sentito il bisogno di dirlo?

Dopo qualche secondo, sento la sua mano sul mio braccio nudo. La sua pelle ruvida e callosa.

Stiamo entrambi in silenzio per qualche secondo, e infine è lui che parla. «Cosa vuoi, Misha?» È un sussurro. Mi sembra che anche lui stia un po' ansimando, come me.

«Non lo so.»

«Sì, mi hai già detto questa cosa. Non so cosa voglio, mi dicevi, la sera di finale US Open. Ma tu vuoi qualche cosa. Cosa? Cosa vuoi?»

«Voglio vincere gli Australian Open.»

«No!» Sbotta. La sua mano stringe il mio braccio con più forza. «Cosa vuoi da me

Resto in silenzio per qualche secondo. «Voglio batterti. Voglio giocare di nuovo contro di te e vincere, e farti vedere che sono io il migliore.»

«Anch'io voglio batterti di nuovo, sai? E farti vedere come sono diventato meglio e che non era un caso che ho vinto.»

Annuisco. «Allora b-b-batti Moryakov», gli dico. «E poi provaci.»

«E voglio giocare doppio con te», aggiunge, senza rispondere alla provocazione.

«Io no», ribatto. «Giochi in modo troppo brutto, mi rovina i colpi, guardarti giocare.» Sono sollevato che la discussione si sia spostata sul tennis.

Fa una risatina. «Ok. E poi? Cosa vuoi da me?»

Silenzio. Un lungo silenzio. Mi sembrava troppo bello che il discorso fosse finito lì. 

«A parte per il tennis. Cosa vuoi?» insiste.

Ancora silenzio. Il cuore che batte. Lui stringe il mio braccio, è più mi stringe più il mio pene si inturgidisce, dopo che quasi mi ero calmato.

«Io so cosa voglio da te» dice. «Voglio essere il tuo amico. Voglio conoscerti. Voglio parlarti. Voglio capirti, perché sei strano e mi piace le persone strane. Ma non solo questo. Voglio altre cose. Voglio lo stesso che volevo a settembre.» Il suo respiro è pesante. «Voglio baciarti. E quando mi hai detto che non hai mai baciato voglio baciarti anche di più. E voglio fare sesso con te, perché mi piaci. Voglio metterti steso su quel letto e mettere il cazzo nel tuo culo, scusa se parlo brutto, quando imparo meglio italiano te lo dico più gentile. E se tu non vuoi cazzo in culo, ok, mi va bene anche il contrario. Voglio baciare tutto il tuo corpo dalla testa ai piedi, voglio... lick, come si dice in italiano? Lick it, taste it, kiss it. Voglio abbracciarti. Voglio tenerti... tight... forte... stretto... voglio... voglio stare con te.»

Non oso muovermi.

«E tu? Tu cosa vuoi da me?» insiste.

Non riesco più a respirare.

«Non vuoi niente? Niente di questo?»

C'è una piccola parte di me che vorrebbe buttarsi sul letto, togliersi le mutande e dirgli: succhiami il pene. Ma una parte più grande vede gli occhi di mio padre che osservano la scena e mi esortano a farlo, ad avere qualche tipo di rapporto sessuale con lui. Mi pare quasi di sentire la voce di mio padre che mi chiede quanti orgasmi ho avuto, e mi fa provare vergogna, imbarazzo e fastidio. E non riesco nemmeno a capire se la piccola parte di me che vuole avere quel tipo di contatto con Ivan sono proprio io o è mio padre che si insinua nella mia testa.

E allora no. Non lo voglio. Voglio essere sicuro di essere io, a volerlo. Senza sguardi paterni che mi spingono e mi approvano.

Ma c'è qualcosa che voglio. Che sono sicuro di volere io. E fa parte dell'elenco che lui mi ha appena fatto.

«Voglio... solo una c-cosa, solo una... voglio abbracciarti» gli dico. 

E non ho nemmeno finito di dirlo che lo fa. 

Le sue braccia mi cingono, sento la sua testa appoggiata alla mia schiena, i capelli che mi solleticano il collo. Metto una mano sulla sua e tengo le sue braccia premute al mio petto.

No, non mi piace così.

Gli apro le braccia, mi allontano un po', gli prendo una mano e lo tiro verso il letto, lo invito a stendersi con un gesto. «Solo abbracciarti» ripeto. Non voglio che fraintenda, non voglio fare sesso. 

Lui si stende, mi guarda un po' titubante. Allora mi stendo anch'io, accanto a lui, gli faccio segno di stare un po' più su, più vicino alla testiera, lo giro su un fianco, verso di me, lui non dice una parola, una sillaba, lo fa, senza chiedermi niente. 

Io striscio un po' più in basso, piego le gambe, altrimenti i piedi mi escono dal materasso, e con il cuore che mi esplode nel petto e il fiato corto, mi avvicino a lui, appoggio la fronte al suo petto. Non è la più comoda delle posizioni, ma voglio che mi stringa così. Voglio essere abbracciato. Lui è un po' più basso di me, e se stiamo in piedi la mia testa svetta di cinque centimetri sulla sua.

Non so se capisce, ma mi stringe, la sua mano mi accarezza la nuca e mi preme la fronte contro il suo petto, che si muove al ritmo del suo respiro. Io me ne sto lì rannicchiato, con le braccia raccolte contro il petto, le ginocchia piegate, e mi ricordo quando era la mamma a stringermi così nel letto, sensazioni che pensavo non avrei provato mai più.

Sto bene. 

Non mi ricordo l'ultima volta in cui sono stato così bene.

--

Note note note

Ma perché deve sempre essere tutto così awkward     tra questi due? Awkward, ma anche tenero, a suo modo. O no? Be', a poco a poco Misha prende confidenza sia con Ivan che con le proprie emozioni.

Ci rileggiamo mercoledì, e vi chiedo scusa perché quest'oggi non ho avuto modo di inventarmi un modo simpatico di chiedervi la stellina: me la accendete lo stesso? 

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