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40. La prima finale

Nonostante il mal di schiena, porto da solo il borsone delle racchette, entrambi gli spallacci infilati. In mano ho una seconda borsa, dove metto sempre gli integratori e gli strumenti di igiene orale e personale. Il tunnel di uscita è davanti a me, il vociare intenso dell'Arthur Ashe, il campo centrale degli US Open, lo stadio di tennis più grande del mondo. Alle mie spalle, Molina.

Non mi capita più tanto spesso di avere il mio avversario alle spalle. È una cosa che mi riporta indietro a qualche anno fa, prima che scalassi il ranking: è sempre il giocatore più basso in classifica a entrare per primo. Mi sembra di essere tornato ragazzino, e non è una bella sensazione.

«From Italy, Michele Bressan!»

Lo speaker pronuncia il mio cognome correttamente, l'accento sulla A. Esco e saluto la folla con la mano, sono accolto da applausi, ma si sente qualche fischio, in mezzo alle esultanze. Mentre prendo posto alla mia panchina, lo speaker annuncia Molina, e il boato della folla è quasi assordante. Già lo sapevo che avrebbero fatto il tifo quasi solo per lui, ma non è una sensazione piacevole.

Me la faccio scivolare addosso in fretta. In meno di un minuto sono pronto e vado a rete. Molina saltella, saltello anch'io per scaldarmi, Helena Adish, l'arbitro designato, ci dice le regole, non le ascolto. Nessuno le ascolta mai, ma devono essere dette. «Any questions?» Entrambi scuotiamo la testa. C'è mai stato qualcuno che ha fatto una domanda? Non mi è mai capitato di vederlo. Ma è una specie di rituale. «Rico, head or tails?» Gli arbitri sanno che non devono mai chiedere a me. Molina sceglie tails, esce heads. «R-receive.» Rispondo. «Stay» dice Molina.

E corriamo a fondocampo.

Ci scaldiamo, mentre lo speaker parla di noi. Molina spinge tantissimo anche durante il palleggio di riscaldamento, mi dà un assaggio di ciò che sarà l'incontro.

Il mal di schiena è lì. Quiescente, non troppo intenso, pronto a esplodere dopo i primi scambi. Ho dell'antinfiammatorio in circolo, e un bel po' di medicinali e sostanze che non so cosa siano, alcuni sono stimolanti (legali) per contrastare gli effetti soporiferi dell'analgesico, altri sono antiacidi. Malgrado mi fidi di Ethan, ho il sospetto che sia un cocktail di farmaci a mezzo passo dal doping. Ma non faccio domande. È la finale. Mi fido ciecamente del mio staff.

Durante i servizi di riscaldamento cerco di non spingere, dovrò farlo in partita. I servizi sono la cosa che mi ammazza di più la schiena, spero di non essere costretto a mettere troppe seconde.

Cominciamo.

Ho scelto di ricevere, nella speranza di fare break subito. Ogni tanto capita che Molina entri un po' freddo e si faccia fare break in apertura, soprattutto se l'avversario spinge molto. Poi recupera quasi sempre, ma io ovviamente conto di non farmi recuperare.

La strategia funziona! Gli faccio break, a quindici. Sono partito aggressivo. È l'unico modo in cui posso giocare. Sperare di vincerla in tre set. Impossibile, ma devo crederci.

Ma il mio vantaggio non dura molto. Al quarto game arriva il controbreak, e la folla esplode. Molina mi fa correre, mi ammazza di risposte profonde e piazzate, riprende tutto ciò che gli rimando.

Molina in un incontro qualunque è un giocatore ai limiti dell'impossibile.

Molina in una finale Slam è un incubo. Un incubo vero, a cui si aggiunge il mio mal di schiena.

Quando vado a sedermi sul 2-3 (senza break) guardo il mio angolo. Non lo guardo spesso, perché gli sguardi di papà di solito mi disturbano; quanto a Lazlo, non può darmi indicazioni, se l'arbitro lo sorprende mi dà un warning per coaching. Ma mi sento un po' disperato, e li guardo: la faccia dura e imperscrutabile di papà, quella nervosa di zia Elena, quella concentrata di Lazlo, quelle preoccupate di Ethan e Armando. 

Alzo lo sguardo un po' più su e lo vedo. Lo vedo, e vederlo mi fa dimenticare per un attimo il dolore, perché il mio sistema cardiocircolatorio va in subbuglio. Il mio cervello ricorda una mano dietro la nuca e due occhi da weimaraner che si avvicinano troppo ai miei.

Ivan. 

Coi suoi capelli verde sbiadito. Accanto a lui i capelli biondo scuro di Andrej. Mi sembra che mi stia guardando anche lui, ma da questa distanza non saprei giudicare. Volto la testa, prendo gli integratori. Vorrei mangiare una gomma.

«Time.»

Il match ricomincia. La lotta. 

Il ritmo è inesorabile. La pressione insopportabile. Il mal di schiena sempre più forte mi costringe a spingere un po' meno il servizio. Pochi chilometri all'ora, ma sufficienti a far rispondere Molina con più facilità. E il break arriva sul 4-5. Proprio alla fine del set.

«Game, first set, Molina.»

Vado a sedermi, inglobato in una matassa di puro dolore.

Devo servire in maniera più intelligente e aumentare la percentuale di prime di servizio, che nel primo set è stata pessima - credo sotto al cinquanta per cento. Devo essere più concentrato sul gioco, dimenticarmi del dolore.

«Time» dice Helena Adish.

Comincio in risposta e il suo game di servizio va via rapido.

Servo io e Molina mi fa break altrettanto rapidamente.

A zero. 

Ho messo solo prime, ma lente come seconde. 

Il secondo set è un vero disastro: non ci sono col corpo e non ci sono con la testa. Cerco di concentrarmi, ma il dolore mi blocca i movimenti. Chiamo il fisio al secondo cambio campo, sul quattro a uno. La Adish mi chiede se ho bisogno di un time-out, le dico di no. Per ora solo un massaggio veloce, steso a terra. Qualcuno dal pubblico fischia, probabilmente pensano che stia fingendo, che sia una tattica per confondere Molina.

Il set finisce in soli trentadue minuti, sei uno. Almeno non ho preso un bagel (sei zero), sarebbe stato umiliante. Non che il breadstick sia tanto meglio. 

Mentre il fisio mi massaggia a fine set chiedo finalmente il medical time-out perché non ce la faccio più. 

Dieci minuti di pausa e trattamenti, e fischi dal pubblico. Il fisio è bravo, manipola bene i miei muscoli, li decontrae un po', ma non può fare miracoli. Mi dà anche una compressa di antinfiammatorio. E mentre sono steso a terra, penso a cosa posso fare per girare l'incontro.

C'è una piccola parte di me che vorrebbe perdere. Una non tanto piccola parte, a dire il vero. Mi viene da vomitare all'idea che per vincere io sia costretto giocare un'altra ora e mezza minimo, altri tre set di fila, a questa intensità. Ma il mio orgoglio mi spinge in direzione opposta: io so quanto valgo! So che posso farcela! Se non avessi questo infortunio me la giocherei alla pari. Lo so! 

E allora voglio dimostrarlo. Vada a quel paese il dolore, dovessi poi star fermo tre mesi, voglio dare tutto in questo incontro. Ho promesso che avrei vinto gli US Open. A me stesso. A mio padre. A Ivan. A me stesso. Prima di tutto a me stesso.

Servo io per primo, stavolta.

E Molina mi fa break. 

Subito. A zero. 

Quattro punti ed è quasi come se il medical time-out non ci fosse stato. Mi viene da piangere.

Ma non piango. Ho altri game da giocare, e posso fare un contro-break. Molina non ha un servizio eccezionale: piazza la palla benissimo, ma non supera mai i duecento chilometri orari. Non è impossibile rispondere. Il problema è che poi è impossibile giocare il punto, dopo la risposta. Ti sfianca, ti muove, ti mette in difficoltà con dei top-spin violentissimo. E quando sei tu a cercare di muoverlo, lui riprende tutto. Devi colpire fortissimo, sulle righe, cercare di picchiarlo fuori dal campo. È l'unico modo per batterlo. 

Ci riesco. Accidenti, ci riesco! Lo porto ai vantaggi e dopo tre parità gli faccio break, con l'Arthur Ashe ammutolito. Il mio game di servizio successivo lo tengo bene, lui fa solo un quindici. Ho spinto di più, per poterlo tenere, al diavolo il mal di schiena.

Molina è furioso. Lo sguardo che mi lancia mentre andiamo a sederci è eloquente: non se l'aspettava. 

Ci sediamo e sedendomi mi rendo conto di quanto lo sforzo mi abbia distrutto la schiena. Mi rialzo subito in piedi e vado a stendermi a terra, davanti alla panchina. Cerco di fare stretching. Ma è subito: «Time!» e devo rialzarmi, cercare di vincerla, distruggermi i muscoli ancora di più. Al prossimo cambio chiamo il fisio, almeno mi darà un po' di sollievo mentre sono in pausa. Avviso subito la Adish.

I game procedono combattuti, e questo set che mi sembra infinito finisce. Al tiebreak. Io ho annullato altre due palle break, lui una. Il fisio mi ha massaggiato a ogni cambio campo.

Posso farcela. 

La compressa medicinale e l'adrenalina che ho in corpo stanno attutendo il dolore. Gioco i punti del tie-break in trance, mi sembra quasi di non essere più dentro al mio corpo, di vedere la scena da fuori e manovrarmi con dei fili invisibili come fossi una marionetta. Vinciamo entrambi tutti i punti di servizio.

Tranne uno.

Mi fa un mini-break.

E sul 5-6 è match point per lui.

La mia ultima occasione per riprendere in mano questo incontro. 

Molina serve una prima a uscire. Me l'aspettavo! Rispondo bene, profondo, e decido di attaccare a rete. 

Ma con Molina è quasi impossibile chiudere al primo colpo, con uno scatto sovrumano mi risponde lungolinea in corsa, non so come abbia fatto, è una bomba. Io, già a rete, mi rendo conto che forse è stata una strategia suicida.

Ma di riflesso, mi allungo sul rovescio. Sento la schiena gridare, grido anch'io mentre percepisco la palla colpire le corde della racchetta. È stato un riflesso, il mio corpo ha agito da solo, processo solo in seguito tutte le azioni, processo solo dopo qualche secondo il fatto di esserci riuscito: è una smorzata vincente. 

Sei pari. Cambio campo. Ho salvato un match point.

Lo stadio sta applaudendo. Lo sento solo ora. Sta ancora applaudendo. L'unica cosa che sento con chiarezza è il dolore alla mia schiena.

Serve di nuovo lui, sul vantaggio. Dritto se va sulla T, rovescio se va a uscire. 

Il mio cervello studia, calcola, ragiona, ma sono i miei muscoli a decidere. Un microsecondo prima che il servizio esca dalla racchetta di Molina, i miei muscoli capiscono che non è nessuno dei due. È un servizio al corpo. Mi sposto sul dritto e tiro un anomalo lungolinea.

Risposta vincente. 

7-6 e servo io. Set point per me!

Ed è con un ace che mi assicuro il terzo set. 

Ci sono applausi, dal pubblico. Non stanno tifando per me, sono semplicemente contenti di vedere un quarto set.

Vado a sedermi. 

Più che felice mi sento incredulo. Anzi no: anestetizzato. Non sento niente. Non ho emozioni. Solo dolore. A quello alla schiena si aggiunge un crescente fastidio agli addominali, certamente perché ho sforzato per cercare di controbilanciare. Lo dico al fisio, che mi mette una striscia di kinesio-tape lungo gli obliqui.

Ricominciamo sul servizio di Molina e lui è una belva. Gli rode aver perso quel set, mi uccide con i suoi colpi. 

Allora sul mio primo game di servizio capisco che devo continuare a spingere. Mi reinvento il servizio, tiro di braccio più che di corpo, faccio dei serve and volley, o servizi esterni e colpi a chiudere, devo terminare i punti in fretta. Ci riesco. 

Uno a uno.

Serve ancora lui. Vorrei provarci, a fargli break, ma ci impiega solo cinquanta secondi a chiudere a zero. 

I game vanno avanti così. I suoi servizi sono rapidissimi, i miei sofferti. 

Fino al quattro-cinque. 

Servo per restare nell'incontro.

E lo capisco dal primo punto che sarà uno di quei game infiniti, di quindici in quindici un punto io, uno lui, uno io, uno lui. 

Dopo dieci minuti, alla terza parità, dopo aver sprecato due vantaggi, sento che non ce la faccio più. 

Non riuscirò mai a reggere un altro set e mezzo così. 

E, quasi inaspettato, a causa di un mio errore gratuito, di stanchezza, arriva il secondo match point per Molina.

Servo una prima che sembra una seconda di un incontro femminile. È talmente debole che lui  non se l'aspetta, spara troppo la risposta, che finisce fuori. Lo vedo battersi la fronte in un gesto di stizza.

Ho salvato un match point per fortuna. Non succederà di nuovo.

Quarta parità. Cerco di servire un po' più forte, ma non è sufficiente, mi fa una risposta vincente, vantaggio per lui. 

Terzo match point. 

Vorrei gridare dal dolore e dalla frustrazione. Mentre mi asciugo il sudore alzo lo sguardo, il mio angolo è qui vicino. Ma non è il loro supporto che cerco. La mia testa va un po' più su e cerca Ivan. Ora so che mi sta guardando. Si accorge subito che lo guardo, e i suoi si accendono, lo noto persino da qui, anche se è lontano. 

E comincia a battere le mani. Forza Misha, è il suo grido distante. 

E poi canta.

«Let's go Bressan, let's go!»

Per un attimo ci rimango male. Perché Bressan e non Misha? Ma poi capisco, nel momento in cui altre voci del pubblico si uniscono al coro. Nessuno conosce il nome Misha. Tutti sanno che mi chiamo Bressan.

«Let's go Bressan, let's go!»

Il coro si fa più forte, mentre scelgo la pallina, e insieme al coro partono i fischi. Mi odiano. Ma qualche fan ce l'ho ancora. Qualcuno che vorrebbe vedermi vincere. «Let's go Bressan, let's go!» 

Li sento. Sono i miei fan. Non posso deluderli. Ho sempre disprezzato la debolezza dei tennisti che cercano sostegno nel pubblico, e ora, in uno dei miei momenti di massima debolezza, capisco finalmente cosa significa avere un sostegno quando credi di non potercela più fare. 

«Time violation, warning mister Bressan» mi ammonisce l'arbitro.

È solo il primo. Non sarà un problema. Mi serviva questa pausa un po' più lunga.

Faccio palleggiare ancora un attimo la pallina a terra. Cosa posso fare per neutralizzare Molina? Il mio servizio è talmente debole che tanto varrebbe mi mettessi a servire da sotto. 

Ed è allora che mi balena davanti agli occhi l'immagine di Michael Chang contro Ivan Lendl al Roland Garros del 1989. L'underarm serve. Il servizio da sotto. L'irrisione massima dell'avversario. Anche Chang era in preda al dolore fisico, durante quel match, è stata una delle ragioni per cui l'ha fatto.

E poi l'ha vinto, quell'incontro.

Guardo Molina. Come suo solito, è lontano dalla linea di fondo.

La mia mano agisce da sola. Rapido e di soppiatto il mio polso sventaglia una palla corta, da sotto. È un gesto che non mi appartiene, il mio tennis non è fatto di trucchetti da quattro soldi come questo, ma mentre vedo Molina scattare, sorpreso, verso la rete, e odo il mormorio di sorpresa del pubblico, capisco di aver fatto l'unica cosa possibile per salvare questo match point. Avanzo un po', solo per essere sicuro che Molina non la rimandi di qua, se ci riesce sarà sicuramente corta. Ma non ci riesce nemmeno: la butta in rete. E mi lancia un'occhiata di puro odio. Ti capisco, Rico, mi sarei odiato anch'io.

Chi invece sono sicuro stia adorando tutto ciò è Ivan. Il pubblico è un muro di fischi, ma si sente qualche applauso isolato. Ivan sta applaudendo. Ne sono sicuro prima ancora di voltarmi e vederlo. Si sta spellando le mani, ride, batte un cinque al fratello che è insolitamente divertito anche lui. Devo fare altri due punti per togliermi da questo game.

Come li giocherebbe Ivan?

Ivan, con le sue braccia troppo magre e i colpi leggeri. Sì, accidenti, è questa la risposta al match! Devo giocare come farebbe lui. Palle sporche, variazioni, angoli improbabili. Non devo puntare sulla potenza, non ce la posso fare in queste condizioni. Devo giocare male. Devo giocare sporco. È l'unico modo che ho per vincere.

Comincio dal servizio, non forte ma angolato. Molina la prende, io faccio un chop, un dritto tagliato, lo faccio correre, scendo a rete anch'io, salvo il punto con una volée vincente. Il punto successivo vario con lo slice, e mentre taglio mi tornano in mente le parole di Raffaele, quel giorno in cui mi sono innamorato del suo gesto: lo slice non è roba da salumieri, è roba da artisti. Il mio ancora no. Devo lavorarci, renderlo più bello, meno meccanico. Vario angolo, direzione, altezza, Molina sembra sorpreso, all'improvviso sto giocando in modo strano, in un modo interlocutorio che non mi appartiene. 

Ma Molina non si fa fregare. E mi passa appena scendo a rete.

Di nuovo parità.

Servo male ma la metto dentro, e dopo la risposta gioco di nuovo sporco, ma ormai Molina legge i miei slice come fossero un libro per bambini. Prende comando di uno scambio, comincia a farmi correre, e alla terza corsa accade ciò che era nell'aria accadesse: un mio errore. 

Il quarto match point. 

Non ce la faccio più.

Lancio un'ultima occhiata a Ivan. Canta per me.

Mi ha letto nel pensiero? Non lo so. Fatto sta che comincia a cantare. «Let's go Misha, let's go!» Ha detto Misha, stavolta, l'ho sentito. Alla seconda ripetizione si corregge. «Let's go Bressan, let's go!»

La prima non mi entra. Servo un servizio in kick come seconda, ma Molina è così distante che la prende con facilità, scambiamo sulla diagonale, poi lui comincia a spostarmi, destra, sinistra, destra. A un certo punto tenta un contropiede, ma io ero talmente stanco che sono rimasto fermo. 

La pallina mi arriva addosso. Mi sta per colpire, la sto per perdere. Ma all'ultimo secondo faccio un balzo, allargo le gambe, metto la racchetta dietro la schiena e colpisco un tweener frontale. La folla fa «Oooh» e vedo l'espressione sorpresa di Molina, il colpo da esibizione lo manda per un attimo in confusione. È un istante quasi impercettibile, ma succede. Ne approfitto, facendo ricorso a tutte le energie che ho, quando la pallina torna a me esplodo un dritto all'angolino. Lui la riprende, mi alza un campanile, io mi avvicino alla rete, devo solo schiacciarla, non è difficile, salverò anche questo match point.

La schiaccio.

«Out!»

No.

No no no, non è possibile, no!

«Game, set and...»

«Ch-ch-ch-ch...»

La Adish si ferma e mi guarda. «Do you want to challenge the call?»

Sì, accidenti, sì che voglio il challenge! Scuoto la testa su e giù.

«Mister Bressan is challenging the call, the ball was called out.»

Il pubblico applaude ritmicamente, in attesa dell'immagine video dell'hawkeye. Non può essere uscita, non è possibile! Molina si sta già avvicinando alla rete, scuote la testa facendo una smorfia. Lui l'ha vista, era vicino, l'ha vista fuori? L'applauso del pubblico accelera. L'ho vista fuori anch'io. Ma non è possibile! No! Non lo accetto! Era uno smash facile! Non posso averlo sbagliato, no! Non dopo tutta la lotta e l'impegno, e quel tweener che Ivan ha sicuramente adorato, e...

Il boato della folla. 

Il segno della pallina è fuori di parecchi centimetri.

No. No! No!

«Game, set and match Ricardo Molina!» La voce della Adish è quasi inudibile, nell'esultanza dell'Arthur Ashe. 

Voglio tornare indietro, annullare tutto, rifarlo!

Sono ancora immobile a qualche passo dalla rete, e mi rendo conto che Molina l'ha oltrepassata, sta venendo da me, allarga le braccia. No! Non voglio che mi abbracci, vai via! Voglio rifare lo smash!

«Un grande match, Michele» mi dice, col suo italiano dal forte accento spagnolo. «Non piangere, come on!»

Sto piangendo? Sì, accidenti, sto singhiozzando e non me ne stavo nemmeno rendendo conto.

Molina mi sta ancora stringendo, mi stringe forte, ricambio debolmente l'abbraccio. Dovrei dire qualcosa, fargli i complimenti, non ci riesco, ho perso qualsiasi capacità di formulare frasi.

«Vincerai tanti Slam» mi dice. 

Ma questo l'ho perso.

«You are a great warrior, great match!»

Non mi interessa di essere un lottatore. Lottavo per vincere.

E ho perso.

Ho perso gli US Open 2017.

Note note note

Nnnoooooo! E adesso? Cosa succederà? Misha pagherà ancora la clinica a Raffaele? E rivedremo Ivan prima che i ragazzi partano per tornare alle rispettive case? E ci speravate che lo facevo vincere, eh? Ma dai, ha solo diciannove anni ed era alla prima finale Slam, contro Molina, col mal di schiena. 

A proposito, piccola curiosità: gli US Open 2017 sono stati vinti proprio da Nadal, in finale contro un improbabile Kevin Anderson, in quella che credo sia stata una delle finali Slam più "loffe" di tutta la storia. Molto meglio la mia, modestamente.

Piccolo dizionario tennistico del capitolo (spiego un po' di tecnicismi)

Tie-break: chi di voi gioca o ha giocato a pallavolo forse ha una vaga idea di cosa sia. Il tie-break nel tennis è un game veloce che si gioca se si arriva al punteggio di sei pari. I punti vengono contati singolarmente, uno, due, tre, ecc, e non col tipico punteggio tennistico (quindici, trenta, quaranta). Vince il tie-break giocatore che arriva per primo a 7 con almeno due punti di distacco, o il giocatore che, superati i 7, fa almeno due punti più dell'avversario. Un set vinto al tie-break finisce col punteggio di 7-6. I giocatori giocano, alternandosi, due servizi a testa e si cambia campo ogni sei punti giocati (quindi, ipotizzando che tutti tengano il proprio servizio, sul 3-3, 6-6, 9-9 ecc). Il mini-break è quando un giocatore riesce a far punto sul servizio dell'avversario durante il tie-break (mini perché è una versione "breve" di un break di servizio) ed è necessario farne almeno uno per vincere un tie-break.

Bagel e breadstick: gergo tennistico. Il primo indica un set finito 6-0 (lo zero sembra un bagel), il secondo un set 6-1 (l'1 ricorda un breadstick, un grissino). Se su un forum tennistico leggete qualcuno parlare di "baked goods" (prodotti da forno) sta sicuramente parlando di un bagel o breadstick.

Vantaggio e parità: e parliamo finalmente del punteggio del tennis... perché è così strano? Perché è un gioco antichissimo che si porta dietro usanze antichissime la cui origine non è certa. Si pensa che il punteggio alle origini si tenesse spostando le lancette di un orologio, e vinceva il primo che faceva il giro di un'ora. Quindi il primo punto sul quarto d'ora (quindici), il secondo mezz'ora (trenta)... ma poi perché si va a quaranta e non a quarantacinque? Be', perché il tennis è lo sport in cui vince chi ne fa due di più. Due punti in un game, due game in un set. Cosa succede se entrambi i giocatori fanno tre punti? Se arrivassero e entrambi a quarantacinque, il punto successivo sarebbe già sessanta, ma non va bene! In questo modo vincerebbe semplicemente il primo che ci arriva! Quindi dal trenta si aggiungono solo dieci minuti e si va a quaranta. Il punteggio di quaranta pari viene anche detto parità, o deuce in inglese. E per il punto successivo è come se se ne aggiungessero altri dieci, di minuti/punti, ma non si dice cinquanta, si usa una terminologia un po' speciale che metta in luce la stranezza della situazione: il punto dopo il quaranta è il vantaggio (advantage in inglese). Il giocatore in vantaggio deve fare anche il punto successivo se vuole vincere il game. Se non lo fa, il punteggio scende di nuovo a parità. È come se le lancette dell'orologio venissero tirate avanti e indietro. Perché, ricordate? Sempre due punti in più dell'avversario! E vi assicuro, ci sono game combattuti che possono andare avanti anche dieci, quindici minuti tra vantaggio per uno, parità, vantaggio per l'altro, di nuovo parità... E tu stai lì col fiato sospeso a fare il tifo. Il tennis è davvero uno sport meraviglioso (e se l'ho spiegato di cacca, ditemelo).

Ci rileggiamo mercoledì. Nel frattempo sapete che esaminando la frequenza delle lettere "s" "t" "e" "l" "i" "n" "a" all'interno del capitolo viene fuori che la lettera con minor frequenza è la t, con 815 ripetizioni. La lettera "l" ne ha 891, siccome è doppia dividiamola per due e abbiamo 445 (virgola 5). Potete creare 445 anagrammi della parola stellina da lasciare in cima al capitolo. Se volete superare i 445 andate a pescare un po' di lettere dai capitoli precedenti.

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