37. Elemento di disturbo
Per fortuna sono riuscito a convincerlo a non venire. Siamo stati al telefono ancora un po' e la stanchezza mi ha assalito quasi all'improvviso, facendomi crollare in un sonno agitato pochi secondi dopo averlo salutato.
Adesso sono le undici di mattina. Mi sono appena svegliato, steso nella stessa identica posizione in cui mi ero addormentato, e c'è ancora il cellulare sul cuscino accanto a me (dormo sempre in letti a due piazze per stare più comodo).
Ho ancora mal di schiena, l'effetto degli antinfiammatori è scemato, ma sto meno male di ieri. Un pochino meno.
Ivan è un pazzo.
Ieri sera, al telefono, gli ho chiesto cosa diamine gli fosse saltato in mente di tornare a New York dopo una settimana e mezzo. «P-perché non sei rimasto d-direttamente qui? Quanti voli avanti e indietro d-dalla Russia vuoi f-fare?»
«Cosa sapevo che Andriusha faceva finale? Sono qui coi miei e con Raf, sai?» mi ha risposto lui.
«Raffaele?»
«Sì! Anyway, ha deciso miei genitori. Io volevo stare in club per allenarmi per il wildcard, ma mia mamma ha deciso: deviamo vedere finale di Andriusha!»
«D-dobbiamo» l'ho corretto. «Deviamo vuol d-dire una c-cosa diversa.»
«Dobbiamo vedere! Ok, dice papà, tutti a New York! Io pensavo a te che mi dicevi: Vanja... no, tu non mi dici Vanja, scusa. Pensavo a te che mi dicevi: Iiiiivan, allenati! Vai a dormire presto! Riposati! Fai professionista serio!»
Non mi è sfuggito l'accento esagerato sulla i.
«Poi però...» ha proseguito, «finale di Andrjusha! Vorrei tanto vedere live! È importante! E pensavo anche: e finale di Misha? Lui fa finale sicuro! Il mio fratello e il mio grande amico... come posso stare a Piter? Unico problema: Raf. Non volevo lasciare da solo di nuovo.»
«E quindi?»
«Ho chiesto ai miei genitori se pagavano il volo e l'hotel anche a Raf e hanno detto sì! Raf per fortuna aveva già Visa pronta per viaggio in USA. E quindi siamo tutti qui!»
E insomma. Ivan è a New York.
Ma non credo che lo vedrò. Oggi ho una giornata pienissima, tra conferenza stampa, interviste, trattamenti medici e allenamenti (quasi esclusivamente lavoro di scarico). E devo anche discutere e preparare il match di domani. Nel minimo dettaglio. Mi piacerebbe andare a vedere la finale di Andrej, davvero, ma non ne avrò il tempo.
E domani, poi, sarà ancora peggio. Sarò occupato da mattina a sera, ogni minuto. Lui probabilmente se ne andrà prima ancora che possa incontrarlo. Ma l'idea che sia qui, anche se non posso vederlo, non so perché mi mette agitazione. È una specie di minaccia incombente. La minaccia che potrebbe accadere qualcosa, non so nemmeno io cosa.
È un elemento di disturbo. Se lui non fosse stato qui avrei trascorso tutto il tempo che mi separava dalla finale a pensare alla finale (e a dormire male). Ora so che una parte dei miei pensieri sarà rivolta a lui. Sarà una parte piccola e poco rilevante. Ma so che ci sarà. Lo sto facendo in questo stesso momento: sto pensando a lui anziché al match.
E non va bene.
Sarebbe stato meglio se non fosse tornato.
Colazione. Denti. Risveglio muscolare con Ethan. Conferenza. Pranzo leggero. Denti. Tutto è puntellato di messaggi di Ivan, che mi rendono difficile concentrarmi. Decido infine di chiedergli di smetterla: Scusa, ma ho bisogno di concentrazione. Per favore, sentiamoci domani.
Mi risponde con un Ok seguito da un'emoticon sorridente.
Passano le ore, passano gli impegni e la tensione aumenta. La mia prima finale Slam. Oggi sono riuscito a tenere il mal di schiena sotto controllo: sono stato molto cauto con il lavoro fisico. Ho studiato le strategie con Lazlo e papà, anche se contro Molina parlare di strategie è quasi impossibile: prevede ogni tua mossa, riprende ogni tua palla e gioca ogni punto come fosse un match point. Ma l'ho già battuto tre volte: siamo quattro a tre per lui negli head to head, non è una cattiva statistica. È alla mia portata. So che posso batterlo. Lo so.
Due volte l'ho battuto su duro, ma una delle mie tre vittorie è arrivata su terra, quella di cui sono più fiero, perché Molina è il re della terra.
Il cemento di Flushing Meadows è il più lento di tutti, quindi lui ci si trova a suo agio, è un cemento da terraioli. È favorito. Ovvio che lo sia.
Ma posso batterlo.
***
Sono le dieci di sera. Mi sono lavato i denti e mi preparo per andare a letto. Ma già so che non riuscirò a dormire, almeno non subito. Sono sveglissimo, e il mio cervello sta processando informazioni sul match di domani: non faccio altro che immaginare punti, scambi, strategie. Visualizzo possibili incontri, prima che l'incontro vero accada.
Non ho più pensato a Ivan, dall'ultimo messaggio che mi ha scritto. Ci sto ripensando ora per la prima volta.
Sto pensando a suo fratello, a dire il vero, alla sua finale. Chissà se ha vinto? Nel buio della stanza cerco il cellulare a tentoni sul comodino. Eccolo. Cerco il risultato online.
Wow. Ha vinto! È il campione di Wheelchair tennis degli US Open! Ha vinto uno Slam! Mi scopro felicissimo e mi stupisco, considerando che è una persona che conosco a malapena. Scrivo un messaggio a Ivan.
Ho visto solo adesso il risultato di Andrej: fagli le congratulazioni da parte mia.
Tengo il cellulare in mano, aspettandomi una risposta, che infatti arriva dopo circa un minuto.
È una chiamata.
Non faccio nemmeno in tempo a dire pronto, vengo investito da chiasso, musica, voci incomprensibili da cui emerge un: «Mishaaaaa!»
Ma non è la voce di Ivan, è quella di Andrej. Mi sta parlando dal telefono di Ivan, ma non capisco nulla di ciò che sta dicendo perché parla in russo. Poi un vociare concitato, la voce di Ivan in sottofondo, ed ecco che parla finalmente lui.
«Misha, scusa! Andrej è ubriaco.» Ride. Sembra ubriaco anche lui. Glielo chiedo.
«No, no. Io sto a posto! Non ho bevuto!» Poi aggiunge a voce più bassa. «No, in realtà ho bevuto un shot, ahah. Uno solo! Non sono ubriaco.»
In effetti lui è sempre così, un po' su di giri. Non mi pare diverso dal solito. C'è molto chiasso in sottofondo, gli chiedo dove si trova.
«Siamo in locale qui vicino hotel, tutti famiglia, Andriusha, Raf, amici di Andriusha, allenatore di Andriusha, tutti ubriachi, ahah. Mio papà adesso canta canzone russa, senti?»
In sottofondo si sente una voce molto bassa che canta qualcosa, risate, chiasso, grida. E all'improvviso sento di nuovo la voce di Andrej nel ricevitore, vicina. Non capisco quasi nulla di ciò che dice, perché parla di nuovo in russo. Le uniche tre parole che capisco sono "Misha" "Reshetnikov" e "Us Open". Io mi limito a ridere. Non parlo russo, gli dico.
«Ho detto», dice in inglese con la voce un po' impastata, «devi vincere gli US Open. Quest'anno gli US Open devono essere un affare di famiglia Reshetnikov.»
«Stop it!» gli dice Ivan in sottofondo, poi sento la sua voce vicina al microfono: «Scusa Misha. Andriusha mi ruba il telefono.»
«D-digli che non sono il te-teeerzo fratello Reshetnikov.»
«Perché devi essere mio fratello?» chiede lui ridendo.
«No, perché lui p-parlava di family business... affari d-di famiglia...»
«Ahah! Ma no! Tu parte di famiglia Reshetnikov perché sei mio marito, no mio fratello!»
So che è una battuta, che dovrei ribattere qualcosa di divertente, ma non ci riesco. Il mio cervello non è proprio capace di elaborare con prontezza una risposta adeguata, perciò dalla mia bocca escono solo suoni inarticolati tipo: uuu, mmh, eeh.
Ivan forse capisce le mie difficoltà, interrompe i miei balbettii: «Lui scherza, tu non preoccupi, ahah!»
Rido anch'io perché non so cos'altro fare.
«Allora, come va? Sei nervoso?»
In realtà questa domanda mi rilassa. Gli rispondo di sì, che sono teso e che quasi certamente non riuscirò a prendere sonno.
«Hai cambiato idea su ninna nanna?»
Rido di nuovo. «M-me la c-c-canti insieme ai tuoi paaaarenti ubriachi?»
«Sì, che buona idea! Mia mamma è brava di cantare e mi cantava ninna nanna quando ero bambino. Mamaaa!»
«M-ma lasciala in pace, dai!»
«Ah, no, non mi sente. Lei pure ha bevuto un po', adesso bacia mio papa... Aspetta, esco fuori di stanza, non sento niente...»
I rumori in sottofondo si affievoliscono e dopo una manciata di secondi Ivan riprende a parlare: «Eccomi! Dimmi tutto. Dimmi. Cosa pensi? Che emozione hai dentro?»
Che emozione ho? Bella domanda. Tensione. Concentrazione. Impazienza. Ma soprattutto concentrazione. Non riesco a pensare a niente che non sia la finale. Sono pensieri fitti, rapidi, vanno a velocità quadrupla rispetto al normale. Glielo spiego. Cerco di spiegarglielo.
«Dici che non pensi a niente altro, ma hai pensato a finale di Andriusha» osserva lui. «Hai cercato risultato e hai scritto congratulazioni.»
«Sì, è vero... ho p-pensato a lui, e ho pensato a te. P-praticamente t-tu sei l'unica cosa a c-cui ho p-p-pensato a parte la ffffinale.»
Ivan rimane in silenzio, ed è il suo silenzio protratto a farmi capire che forse ho detto qualcosa di sbagliato.
Con quella frase gli ho dato importanza. Ho pensato solo alla finale e a te. Tipo: sei la cosa più importante dopo la finale. Ma non era ciò che intendevo dire! La mia intenzione era, anzi, di dare alla cosa una connotazione negativa, del tipo: pensare a te mi ha distratto, mi ha rotto le scatole, avrei dovuto pensare solo alla finale.
«N-no c-c-cioè io, hm, ihhiiint-t-tendevo, cioè...» Prendo un respiro, e lui ne approfitta per parlare.
«Sono contento che hai pensato a me» dice. «Vuoi che vengo lì?»
Perché me lo chiede? Ha qualche legame col fatto che gli ho detto che ho pensato a lui? Mi tornano in mente, non so perché, le parole di Daria: non illuderlo. Daria che non è più la sua ragazza. Ma non è colpa mia, se non lo è più. Perché ho preso in considerazione l'ipotesi che possa essere colpa mia?
«Stai fffffacendo festa, torna da t-tuo fratello.»
«Ma io sono contento di venire lì...»
Lui insiste un po', io insisto a mia volta e alla fine, per la seconda volta in due sere, riesco a convincerlo a non venire. Aveva ragione Raffaele quando diceva che non si dà per vinto. Mi saluta facendosi promettere che lo chiamerò se tra un'ora ancora non sarò riuscito ad addormentarmi. «Tanto io sto qua a fare festa fino a quattro nella mattina!»
Chiudo la chiamata. Mi stendo. Faccio un po' di rilassamento, tecniche yoga. Conto e respiro.
Alle undici e mezza e sono ancora sveglio.
Avevo promesso a Ivan che l'avrei chiamato, è passata quasi un'ora e mezza da quando l'ho salutato. Ma perché dovrei chiamarlo? Per farlo venire qui? In camera mia? La notte prima dell'incontro più importante (per ora) della mia carriera?
Eppure lo faccio.
«Misha! Lo sapevo che mi chiamavi! Arrivo. Dimmi numero di camera, sono lì in dieci minuti, locale è super vicino di hotel.» In sottofondo si sente il solito chiasso, anzi, è persino più forte di prima.
«C-chi ti ha d-detto che ti ho chiamato p-per invitarti?»
«Ok... perché mi hai chiamato?»
Resto in silenzio per qualche secondo. «T-ti ricordi che... ieri sera volevi leggermi il roooomanzo? Quello... Metrò... c-come si chiamava?»
«Metrò 2023! Che grande idea, sì! Io vengo e ti leggo romanzo... e tu poi dormi. Allora mi dici numero di camera?»
Voglio davvero che venga qui? Perché voglio che venga qui? Cosa spero di ottenere? Spero davvero di addormentarmi e rilassarmi grazie alla sua storia?
Sì. Lo spero davvero. Solo l'idea di ascoltarlo leggere un romanzo d'avventura mi fa ribaltare lo stomaco dall'emozione. Perché mi ricorda la mamma. È per quello.
«Ssssettecentovvvventinove.»
Ivan resta in silenzio.
«Seven two nnnnine.»
«Arrivo.»
E chiude la chiamata.
Verrà qui. E mi leggerà una storia.
L'ultima volta che qualcuno mi ha letto una storia avevo quattordici anni. L'avevo chiesto a mia zia Elena, in un momento di tristezza e nostalgia della mamma, ma è stata una brutta esperienza che non si è più ripetuta. Zia Elena non è una brava lettrice: non interpreta ciò che legge, è frettolosa e distratta. Di quella sera l'unica cosa che ricordo è il disagio nel percepire che lei voleva solo finire al più presto di annoiarsi con me.
E stasera? Cosa succederà? Come andrà? Ivan. Qui. Nella mia camera. Soli. Non so perché, mi torna in mente quella sera che Anna è venuta a trovarmi in camera.
Mi torna in mente la fellatio.
Ma solo per un istante. Domani ho la finale e mi vengono in mente pratiche sessuali? È un pensiero poco opportuno. Sono un professionista e non dovrei pensare a cose del genere, la sera prima del match più importante della mia vita. Dovrei pensare solo al match, come ho fatto per (quasi) tutto il giorno.
Dopo circa quindici minuti arriva. Mi fa uno squillo sul cellulare per avvisarmi e il telefono mi cade inspiegabilmente di mano, sento le dita deboli. Anche le ginocchia sono deboli mentre cammino verso la porta.
E infine la apro.
—
Note note note ♫
Se mi state odiando per questo finale sospeso, sappiate che originariamente questo capitolo era molto più lungo e comprendeva anche il successivo. È stato il beta andreafailla94 a suggerirmi di dividerlo qui, quindi lanciate gli improperi a lui e non a me (come scaricare le responsabilità, una pratica lezione by Ella Snufkin).
Scherzi a parte (e scusa Andrea 😅) che ne pensate? Chi ci sarà dietro quella porta? Davvero Ivan o una sorpresa?
Lo saprete mercoledì, e per ogni sorso di vodka preso da Andrej per festeggiare la sua vittoria, accendete una stellina. Essendo egli un buon russo, sono certa che siano tantissimi!
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