27. Mutismo
«Innanzitutto, congratulazioni a Georgi e al suo team per questa fantastica settimana e per tutta la stagione.»
Aspetto che l'interprete traduca in inglese dalla lingua dei segni americana. Stoyanov abbozza un sorriso. So che mi sta odiando, in questo momento. Mi odierei anch'io, al posto suo.
«È stato un incontro fantastico e sono sicuro che non sarà l'ultima finale in cui ci affronteremo.»
Il discorso di ringraziamento procede, quasi identico agli altri dieci che ho già fatto.
Non sono mai brillanti, i miei discorsi di ringraziamento. Non ho senso dell'umorismo, non sono capace di improvvisare, perciò dico sempre le stesse cose, con piccole varianti a seconda dell'occasione.
Eppure ne avrei di cose diverse da dire. Oggi, ad esempio, mi piacerebbe sottolineare che Stoyanov ha avuto un tabellone molto più facile del mio, ma farei la figura del gradasso; e vorrei dire al pubblico di Cincinnati che li odio, perché mi hanno fischiato tutta la settimana. Mi hanno fischiato anche a Washington, dal primo all'ultimo dei tre giorni che ho giocato lì, e a Montréal, fino alla semifinale che ho raggiunto, perché hanno creduto alla versione di Anna, non al mio comunicato stampa. Vorrei dir loro che non sono un molestatore, che Anna mi odia e si è vendicata di un'offesa che crede io le abbia fatto. Vorrei dir loro che oggi ho vinto il secondo Master Mille della mia carriera nonostante i loro fischi, perché sono il più forte, e anzi, i loro fischi mi hanno caricato, a ogni fischio il mio desiderio era quello di fargliela vedere, di rimediare con una vittoria a un'ingiustizia. Per la prima volta in vita mia capisco cosa deve provare Grković, odiato da buona parte dei tifosi e ugualmente vittorioso, forse GOAT definitivo, Greatest Of All Time. Finirò per essere così anch'io?
Vorrei dire tutte queste cose, ma invece dico: «Grazie al pubblico che mi ha supportato, e a tutti quelli che mi hanno fischiato vorrei dire: spero di avervi fatto ricredere e perdonatemi se ho avuto qualche reazione insofferente.» Una frase concordata con la zia in modo da non suonare né ipocrita né provocatorio. La frase è accolta da applausi, con qualche fischio isolato.
Questa storia di Anna mi ha creato un sacco di problemi, anche finanziari.
Sono stato mollato da qualcuno dei miei sponsor. I due più grossi: Barilla e Nike. Fernando è riuscito a evitare comunicati stampa da parte loro, ma sono stati ritirati tutti i miei spot televisivi in cui mangiavo gustosamente piatti di pasta al pomodoro, e mi è stato gentilmente richiesto di smettere di indossare prodotti Nike. Così, da Montréal, indosso magliette e pantaloncini senza logo, e scarpe Nike completamente colorate di nero per nascondere il logo. Per ora tutte le offerte di nuove sponsorizzazioni sono penose (marche minori, tipo Hydrogen e simili), quindi Fernando ha deciso di aspettare che la storia si sgonfi per scucire un buon contratto a una casa maggiore.
Comunque non è questa la cosa che mi preoccupa maggiormente, ora come ora.
Più tardi, in conferenza stampa, dovrò parlare. Con la mia voce.
Ho rimandato il momento di fare una dichiarazione ufficiale, sperando che la storia di Anna si sgonfiasse, ma non si è sgonfiata.
Ho più paura di questa conferenza stampa di quanta ne avessi, due ore fa, di giocare la finale.
Zia Elena ha preparato la dichiarazione più o meno all'inizio del torneo, l'ha sottoposta a Fernando (che secondo me l'ha approvata senza nemmeno leggerla, perché si fida ciecamente della zia) e io ho cominciato a studiarla con l'intento di enunciarla nella conferenza pre torneo degli US Open, quindi tra circa una settimana.
Ma quando ieri ho vinto la semi di Cincinnati contro Grković, contro pronostico, la zia e Fernando hanno deciso di anticiparla a oggi, nel caso avessi vinto il torneo. Un bel modo per motivarmi! (Sono ironico)
Sollevo finalmente l'orrendo vaso di ceramica (credo sia ceramica) che è il trofeo di Cincinnati, e vengo sommerso da un'esplosione di coriandoli argentati. Che sia bello o brutto non mi interessa: sollevare un trofeo, soprattutto uno di questa importanza, è sempre una grande soddisfazione. Vincere qui, tirare quel vincente di dritto sul match point, è stato per ora ciò che più si avvicina a ciò che ho sempre sognato da bambino. È stata la gioia più grande che abbia mai provato, un senso di liberazione, una rabbia buona, il desiderio di saltare e gridare per sfogare le emozioni.
Quando ero piccolo, sognavo la mia prima vittoria nel circuito maggiore. Sognavo il mio primo Mille, il mio primo Slam. E mi immaginavo sempre allo stesso modo: steso sulla schiena, travolto dalla felicità, con le grida del pubblico che mi riempivano il cuore di orgoglio.
La realtà è stata molto diversa.
Il primo torneo l'ho vinto a sedici anni e sette mesi: San Pietroburgo. Il match point è stata una risposta mandata in rete da Damir Dzeko. Mi sono buttato a terra, come avevo tante volte sognato da bambino, ma nel mio cuore non stavo provando niente. Avevo appena vinto un incontro in modo facile. Ero lì a terra che recitavo la mia felicità, con le mani a nascondermi il viso, e pensavo: sei il secondo più giovane tennista ad aver vinto un titolo del circuito maggiore. Hai vinto il tuo primo titolo ATP. Ma tutto ciò che il mio cervello mi rispondeva era: è solo un Duecentocinquanta. Puoi fare di meglio. E la finale è stata orrenda. E il match point un gratuito dell'avversario (il mio servizio era una seconda, non troppo brillante). E che dire della volgarissima cerimonia di presentazione? Con quelle ragazze truccatissime e scosciate che agitavano dei finti telai di racchetta fatti di luci al neon, mentre io e Dzeko entravamo in campo. Le stesse ballerine, poi, sono venute a dimenarsi intorno a me mentre aspettavo la premiazione, seduto in panchina, al ritmo di una canzone pop russa eseguita da una band live. Io ero imbarazzatissimo e dentro di me cresceva l'insoddisfazione di aver vinto un torneo con cerimoniali tanto pacchiani.
Trovavo tutti i motivi possibili per smorzare la mia soddisfazione.
E allora, mentre alzavo la coppa di San Pietroburgo al cielo, ho pensato: il prossimo sarà diverso. Devo vincere di nuovo.
Ma al torneo successivo, Buenos Aires, è andata allo stesso modo (senza cerimonie pacchiane, per fortuna). Allora ho pensato che fosse perché erano Duecentocinquanta, tornei minori, fuori stagione, poco frequentati e spesso preda di tennisti di livello più basso, e mi sono ripromesso di alzare l'asticella dei miei obiettivi, che il mio nuovo scopo era vincere un Cinquecento.
Ma quando ho vinto il mio primo Cinquecento, Vienna, a diciassette anni e otto mesi, mi sono reso conto di avere sempre sulla lingua quello stesso sapore di insoddisfazione, di non aver fatto abbastanza, la sensazione di volere di più, di volere lo Slam, e che qualsiasi cosa meno dello Slam sarebbe stato solo una piccola tacca aggiunta al mio totale di tornei, una stupida statistica, poco più che una semplice vittoria in un match. Ed è così che è sempre andata, anche al mio primo Mille, Madrid, quest'anno: baciavo lo scettro ed ero felice, non posso dire che fossi triste, ma dentro di me già pensavo: adesso devo vincere anche Roma e fare doppietta. Allora sì che potrò dire di aver fatto una bella impresa. Ma al pensiero di vincere Roma, una seconda parte di me mi ammoniva: alla tua età Molina aveva già vinto il Roland Garros!
Ma oggi è stato diverso. Non so bene perché: forse perché vengo da mesi di cattivi risultati e sento di aver finalmente ritrovato il mio tennis; forse perché sento di aver vinto anche contro il pubblico, e non solo contro i miei avversari; forse perché considero Stoyanov un rivale degno; forse perché ho vinto nonostante abbia ancora in testa la preoccupazione per le malattie che potrei aver contratto durante il mio rapporto sessuale con Anna. Dovrò aspettare la fine degli US Open, prima di poter fare il test definitivo, ma affronterò l'ultimo Slam dell'anno con la consapevolezza che posso farcela. Posso vincere.
È il momento delle foto. Stoyanov si mette accanto a me, sorride. Prima di allontanarsi mi sussurra qualche parola in inglese: «Mi spiace per i fischi, non te li meriti.» Lo ringrazio. Mi fa le congratulazioni e mi augura buona fortuna per gli US Open. «Se ci incontriamo lì ti batto» mi dice. Provaci, gli rispondo. Fa un sorrisetto, mentre si allontana e mi lascia il palco per le foto in solitaria, le foto del vincitore.
Prima di un mese fa questa interazione tra noi non ci sarebbe mai stata. Non posso dire che siamo diventati amici, ma dopo quella sera, dopo le confessioni private sul gruppo, per qualche motivo tutti i miei colleghi, anche quelli che non partecipano alla chat (Stoyanov non è iscritto al gruppo, ha quasi trent'anni) mi trattano in maniera più amichevole. Ogni tanto interagisco in quella chat, scrivo qualche commento, qualche congratulazione agli altri per i buoni risultati.
Pensavo mi avrebbero preso in giro, ho detto cose personali, imbarazzanti. Forse parlano male di me alle mie spalle, ma non lo so e non mi interessa. Sono contento che mi salutino, che mi chiedano come va.
Doccia.
Stoyanov ha già finito, quando arrivo. Sono solo. Papà si congratula con me, mi dice che ho giocato bene. Mentre io penso a cosa avrei potuto fare ancora meglio. E ci penso per non pensare alla conferenza stampa che mi aspetta.
La dichiarazione vocale.
Arrivo infine in sala stampa.
Il trofeo è sul tavolo davanti a me, sulla destra, come da tradizione. Mi siedo. L'interprete alla mia sinistra.
Le prime domande sono di rito, sul match: come ho giocato io, come ha giocato lui, come mi sento ad aver vinto il mio secondo Mille a soli diciannove anni.
E dopo qualche minuto arriva.
L'inviato di un giornale sportivo italiano mi dice, ovviamente in inglese: «Si è parlato molto delle dichiarazioni fatte dalla tua ex ragazza, e penso che buona parte dei fischi che hai ricevuto in questa settimana sia dovuta alle accuse di molestia che ti sono state fatte. Hai fatto un comunicato sui social in cui negavi le accuse, ma poi non hai mai voluto aggiungere altro... Te la senti di dare qualche spiegazione?»
Mentre l'inviato formula la domanda, gli altri giornalisti mormorano, vedo le loro facce inquiete. Non sanno che la domanda è concordata e la reputano forse troppo audace.
Faccio un sospiro. È arrivato il momento di rispondere. L'interprete mi guarda.
Lancio un'occhiata rapida a papà e zia, seduti in un angolo della stanza.
Le mani mi sudano.
Tremano un po', un tremore che investe tutti i miei muscoli, mi fa battere il cuore. O forse è il contrario, è il battito accelerato che mi fa tremare.
Tutti mi sentiranno balbettare. Devo impegnarmi e cercare di non essere troppo lento.
Faccio un cenno di diniego all'interprete e avvicino il microfono alla mia bocca. Alcuni giornalisti fanno una faccia stupita.
Apro la bocca.
Inspiro a fatica.
E quando l'aria esce dalla mia bocca non accompagna alcun suono.
Sono completamente muto.
Faccio un altro sospiro.
Devo riuscirci. Devo!
«A-hhhhhhai...»
Mi fermo. Voleva essere un I, io. Ma qualche giornalista mi risponde: «Hi!» Ciao.
Mi passo la mano sulla fronte. Apro di nuovo la bocca.
E, completamente inaspettate, mi salgono delle lacrime agli occhi e scoppio a piangere.
Non piango spesso. Non ricordo l'ultima volta che l'ho fatto. Sono singhiozzi incontrollabili, mi scuotono tutto, mi alzo e scappo fuori dalla stanza, col viso in fiamme.
Che disastro. Che disastro! Ma cosa mi è preso? Mi sta mancando l'aria.
Devo sedermi. Mi siedo a terra. Mi slaccio la zip della felpa.
Dopo pochi secondi escono, insieme, la responsabile della sala stampa e l'interprete, entrambe donne.
«Tutto ok?» mi chiede l'interprete in inglese, posandomi una mano sulla spalla. È gentile, ma vorrei si allontanasse, il suo tocco mi mette ancora più ansia. Ha una bocca molto piccola, in centro a un viso dalle mandibole larghe.
Le lacrime, comunque, si stanno fermando.
Ora parla la responsabile, vuole sapere se e quando rientrerò in sala, cosa deve dire ai giornalisti che aspettano.
La presenza dell'interprete mi torna utile, non sarei riuscito a spiccicare parola. Chiedi loro scusa e se possono aspettare cinque minuti, dico coi segni.
Proprio mentre parlo a gesti, arriva la zia, e subito dietro di lei il papà, che mi rivolge uno sguardo d'accusa.
L'interprete traduce prontamente, la responsabile annuisce e torna dentro.
Ne parleranno tutti, della sceneggiata che ho appena fatto.
«Michele, cosa ti è preso? Ti sei dimenticato cosa dovevi dire?» mi chiede la zia, preoccupata.
«Posso fare altro per te?» dice l'interprete. Le sue guance larghe sono un po' arrossate, di un rossore naturale, e la sua piccola bocca ha un aspetto molto morbido. È una ragazza nuova, non l'ho mai vista.
Scuoto la testa sorridendole. Mi tocco il mento con la mano destra e porto la mano in avanti: è il segno per dire grazie.
Di niente, mi risponde, agitando la mano verso il basso.
«La finisci di parlare come un handicappato?» sbotta papà. Per fortuna non credo che l'interprete capisca l'italiano, e sta già rientrando in sala.
«Allora, Michi? Mi dici o no cos'è successo?» insiste la zia.
Apro la bocca per rispondere, ma non mi escono le parole. È come se la mia gola fosse ostruita.
«Si è cagato sotto» commenta papà.
Annuisco perché è vero. Stringo le mascelle. Vorrei che l'interprete fosse di nuovo qui, per spiegarmi con lui.
«Mi chiedo come verrà interpretato questo sfogo emotivo» riflette ad alta voce la zia. «Se susciterà simpatia nel pubblico, o verrà preso come un'ammissione di colpevolezza.»
Papà scrolla la testa. «Non lo so. So soltanto che...» Alza gli occhi verso di me ed emette un sospiro. «Ero così fiero di te, fino a dieci minuti fa!»
È come se mi si aprisse un buco nel petto.
«Ma come cazzo è possibile?» prosegue. «Hai appena vinto un Mille! Il secondo della tua carriera, e hai solo diciannove anni! A Stoyanov l'hai dominato dall'inizio alla fine del match, sembravi un Dio onnipotente, in campo. Dovresti avere tanta sicurezza da spaccare i muri di quella sala stampa, e invece ti metti a piangere come un bambino per paura di dire due paroline! Io non capisco come cazzo sia possibile!»
Il volume della sua voce è leggermente più alto del normale, che per papà significa quasi urlare. È arrabbiato e deluso.
Apro la bocca. Vorrei dire qualcosa. Vorrei dirgli che non so nemmeno io perché mi è venuto da piangere, vorrei dirgli che mi sto impegnando con tutto me stesso per tirare fuori delle parole dalla bocca, ma non escono, la apro e si sente solo un gemito flebile. È come se le mie corde vocali avessero improvvisamente smesso di funzionare.
Allora prendo il telefono che ho in tasca. Gli ho dato una rapidissima occhiata, prima, appena ho finito di rivestirmi dopo la doccia, e ci sono parecchie notifiche. Chissà se sono i miei colleghi? Chissà se si congratulano con me? Chissà se mi ha scritto Reshetnikov?
Ma non controllo i messaggi.
Apro l'editor di testo e comincio a scrivere.
«Cosa stai facendo?» mi chiede papà.
Gli indico lo schermo su cui sono già riuscito a scrivere: scusa, non so perché.
«Smettila» mi dice.
Apro la bocca.
«Parla, cazzo! Di' qualcosa! Siamo arrivati al mutismo?»
Mi mordo il labbro, sospiro. Apro la bocca.
Ci provo. Ci provo con tutto me stesso.
Non riesco più a parlare. Ho il cuore, in gola, al posto delle corde vocali.
Papà scuote la testa. E se ne va.
Senza aggiungere altro.
Sento un debole conato di vomito, che riesco a trattenere.
Una mano sulla spalla. La mano della zia, che si è chinata davanti a me.
«Michele. Scusami. Non sapevo che ti avrebbe causato tanta ansia l'idea di parlare in pubblico.»
Annuisco.
«Non parlare. Non serve che parli. Ce la fai a tornare dentro e dire le cose che dovresti dire coi segni?»
Annuisco di nuovo. Prendo il telefono e scrivo: mi lasci solo per un minuto? Torna dentro e di' ai giornalisti che rientro tra un minuto.
La zia mi sorride. «Va bene. Vuoi un po' d'acqua?»
Scuoto la testa.
«Forza e coraggio» dice rientrando.
Prendo un po' di respiri. Conto mentalmente: u-no, du-e. Sento i muscoli che si rilassano. L'idea di non dover parlare mi rende già più tranquillo.
Prendo il telefono e apro i messaggi.
Ho ricevuto messaggi privati da parte di diversi giocatori, e messaggi sul gruppo. Mi fanno i complimenti. Prendono un po' in giro Stoyanov. Mi rendo conto solo dopo qualche secondo che li sto leggendo con il sorriso.
Per ultimo, apro il messaggio di Reshetnikov. Il suo numero è ancora salvato come Rompi, in rubrica. Ma non posso più dire che sia vero. Non del tutto. Continuo a trovarlo un tipo un po' invadente, ma tutto sommato mi fa piacere ricevere i suoi messaggi, così come quelli degli altri miei colleghi.
Congratulazioni Misha!!!!!!!! 💪🎾👊🔥
Che partita meravigliosa! 😍
Mi alzo in piedi.
Risponderò dopo agli altri messaggi. Ma a quello di Reshetnikov rispondo subito.
Sono fuori dalla sala stampa.
Stasera vedrai la conferenza e la figuraccia che ho fatto... se vuoi poi ti spiego.
Mi sento un po' sottosopra.
Ma sono felice di aver vinto.
Grazie.
Esito un po'. Ho quasi la tentazione di mettere un'emoticon. Un'emoticon sorridente.
Ma non lo faccio. Non mi piacciono le emoticon.
Chiudo il telefono e rientro. Devo terminare l'intervista.
Devo rispondere alle domande su Anna.
E probabilmente non servirà a niente.
—
Note note note ♫
Nicolò è stato molto pesante con Michele, qui. Che ne pensate? Lo odiate? Vi capisco se lo odiate. Intanto Misha si fa consolare da Vanja, per fortuna.
Detto ciò, una piccola nota sul torneo di San Pietroburgo. Le racchette al neon, le ballerine trash... sì, succede davvero! E succede solo a San Pietroburgo, il torneo più esagerato che esista. Non ho mai visto cerimonie tanto coatte in nessun altro torneo, ma personalmente lo adoro anche per questo. Qui sotto una foto di Zverev quando ha vinto il torneo nel 2016, con le ballerine catarifrangenti che gli fanno festa intorno illuminandolo con dei faretti (cringe!)
E qui sotto potete ammirare l'entrata in scena dei giocatori per la finale. Sono riuscita a trovare solo un video della finale di doppio di qualche anno fa, ma per il singolare la cerimonia è identica: tunnel buio, ballerine con le racchette di neon, giocatori che entrano in scena pensando: WTF? Se volete andare alla parte clou del video, all'inizio c'è musica con sbandieramenti vari, l'ingresso dei giocatori comincia circa al minuto 1:19.
https://youtu.be/rNmMb5cq77U
Ci rileggiamo lunedì prossimo! Intanto, staccate tutte le placchette catarifrangenti delle ballerine di San Pietroburgo e trasformatele in tante stelline!
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