121. Un messaggio per Ivan
Andiamo al pignarûl a piedi, tutti insieme: io, papà, Anna, Daniele e Maria. Mio nonno per fortuna resta a casa, insieme alla piccola Elisa.
Ci ingiubottiamo per bene, perché fa freddo. Ma sono sicuro che se ci fosse Ivan mi prenderebbe in giro perché questo non è vero freddo.
Ivan ha proposto a mio padre di farmici andare. So che è stato lui. Ivan pensa che potrebbe farmi bene. Mi fido di Ivan.
Ci sarà molta gente e la cosa mi spaventa. Ma sto cercando di farmi coraggio.
E poi, non posso stare chiuso in casa per sempre, me ne rendo conto anch'io. Ho cominciato con le passeggiate solitarie, in cui mi capita di incontrare solo qualche silenzioso contadino. Stasera andrò a questo evento, con la mia famiglia, una festa di paese a cui parteciperanno per lo più anziani e bambini. Forse non mi romperanno le scatole. Potrebbe essere un buon ritorno graduale alla socialità.
Quando arriviamo, verso le otto, il falò deve ancora essere acceso: c'è una gigantesca catasta di legna. Era gigantesca nei miei ricordi d'infanzia e la trovo gigantesca anche adesso. Ma non c'è la befana, in cima, solo legna. Forse, come diceva Ivan, si sono resi conto che era una cosa "da stronzi."
C'è mezzo paese alla festa. Nell'aria si sente profumo di carne grigliata e di rape acide, e ci sono dei tavolini con bevande e vassoi di dolci e biscotti portati dalla gente del posto. Anche mio padre ha portato qualcosa, delle bottiglie di vino dalla cantina di mio nonno. Non si è sprecato, sono tre casse da sei, una delle quali l'ho trasportata io stesso fino ai tavolini.
L'omaggio è molto gradito dal ragazzo che gestisce il banchetto.
«Ma tu sei Michele!»
Ecco. Riconosciuto dalla prima persona con cui interagisco! Forse non è stata una buona idea venire qui.
«Ti ricordi di me? Eravamo a scuola insieme! Riccardo Spessot!»
Riccardo Spessot è un nome che riemerge da un buco nero della mia memoria, e insieme a quello ne emergono altri: Marta Benci, Michele Bressan, Giulia Cecot, Tommaso Donda, Mascia Kovacic, Roberto Marega, Serena Mreule, Giulia Quaiat, Riccardo Spessot, Sara Zuppel.
L'appello della mia scuola elementare mi scroscia nella testa come una cascata.
Guardo il viso del ragazzo e cerco di ritrovare anche quello nella mia memoria, ma è il viso di un perfetto sconosciuto. Anche i nomi dell'appello non hanno volti abbinati a essi. Chissà, forse ce n'è anche qualcun altro, qui alla festa. Qualcuno che non riconoscerò.
«Dio che roba!» esclama lui. «Ti vedo sempre in tv, sai? Vai in Australia adesso? Quando dico in giro che ero in classe con te alle elementari non mi crede mai nessuno! Possiamo fare un selfie?»
Non dovevo venire. Lo sapevo! Sono qui da meno di un minuto e mi hanno già importunato. Riccardo Spessot mi guarda speranzoso con il cellulare in mano.
«Michele sta poco bene» dice mio padre. «Non se la sente di fare...»
Non so se è più stupito mio padre o se sono più stupito io dal mio stesso gesto.
Non so perché l'ho fatto. Forse ho rivisto qualcosa della mia infanzia perduta negli occhi di questo ragazzo, forse l'ho fatto semplicemente per cercare di superare un limite.
Ma mi sono avvicinato a lui e ho sorriso alla fotocamera del suo cellulare mentre scattava.
«Oh, grazie, ciò. Mi dispiace che stai poco bene» dice Riccardo subito dopo lo scatto.
Faccio spallucce e mi sforzo di continuare a sorridere.
«Volete un dolce? Potete prendere. C'è strucolo, putizza, biscotti col cioccolato, cuguluf...»
«Prima volevamo passare alla grigliata, grazie» dice papà cominciando ad allontanarsi.
«C'è mio padre al pentolone del vin brûlé, se volete!» ci grida dietro Riccardo mentre andiamo via.
«Pesantuccio, il ragazzo» commenta Anna con un sorrisetto, appena siamo abbastanza lontani.
«Rompiballe, altro che pesantuccio!» esclama mio fratello in risposta. Poi si rivolge a me. «Ti ricordavi di lui? Non hai fatto tipo solo un anno di elementari, qua?»
«Due anni» lo corregge papà.
«Dai, andiamo a cena, ho una fame che mi mangerei un maiale intero!» dice Daniele.
«Tu hai sempre fame» lo prende in giro Maria.
«L'appetito è una cosa sana!» ribatte lui massaggiandosi la pancia.
Anche Daniele ha sempre avuto problemi a controllare il proprio peso. Ma tanto, di doppisti sovrappeso ne esistono a volontà, non è un problema per lui avere qualche chilo di troppo. Quasi non si nota, è molto più magro di me.
Arriviamo davanti al banco della grigliata, dove c'è anche un pentolone gigantesco con "brovada e muset", rape acide e cotechino. C'è un listino prezzi scritto a penna su un cartoncino. Il profumo è delizioso e mi mette di buonumore: mi piace mangiare cose buone. A casa si mangia sempre poco saporito, perché mio padre non è capace di cucinare, mentre sia Anna che Daniele e Maria non ne hanno voglia e prendono i take away.
Io mi prendo una porzione di cevapcici, un cotechino con la brovada e anche una fetta di polenta bianca arrostita. Avrò esagerato? Non mi importa. Daniele prende cotechino e brovada e una fetta di frico, Maria pollo, polenta e verdura grigliata. Anna decide che vuole provare il frico e i cevapcici, due piatti che non conosceva. Papà prende solo polenta e verdura grigliata. Non è un pasto molto bilanciato. Guardare il suo piatto vegetariano mi fa tornare in mente il racconto di Raffaele, sull'esperienza terribile che mio nonno gli ha fatto vivere quando lo ha portato a caccia. Mi chiedo se Daniele conosca questa storia, se anche lui sappia perché papà non mangia carne. A volte ho l'impressione di essere sempre all'oscuro di tutto.
Che buona questa cena! Anna è entusiasta del frico e dei cevapcici. Mi ruba un po' di brovada per assaggiarla ma non le piace: troppo acida.
«Mmm» mugola mulinando la mano mentre mastica un boccone di frico. «Se il mio agente mi avesse vista mangiare 'sta botta di formaggio fuso quando facevo la modella mi avrebbe licenziata seduta stante!» Gli altri ridono, Anna mi guarda, sorride anche lei, ma mi sembra un po' malinconica. Il suo agente era Fernando. Ora lei ci scherza, ma ricordo bene quanto ci ha sofferto, per come l'ha trattata.
Mangiamo seduti su delle casse di legno ai margini del falò, che sta venendo acceso con delle grandi torce. Non ci sono tavolini per sedersi, e le poche panchine sono occupate da persone anziane. Gli altri parlano, io ascolto in silenzio. Sono felice di farlo. Sto bene.
E anche il mio timore di essere importunato di nuovo per fortuna non si realizza. Sono tutti troppo impegnati a fare altro: c'è chi mangia, chi chiacchiera, sono tutte persone che si conoscono bene, persone che si conoscono da una vita, mentre io sono un estraneo.
La sterpaglia prende fuoco molto rapidamente, ed è uno spettacolo bellissimo. Ho appena finito di mangiare, erano secoli che non mangiavo brovada, da quando ero bambino, e il suo sapore acidulo e corposo mi riporta all'infanzia. Daniele raccatta i piatti e va a buttarli. Io rimango seduto qui, tra Anna e papà, e guardo le fiamme avvampare, cercando di non fissare gli occhi troppo a lungo sulla luce intensa.
«Vado a prendere un po' di vin brûlé, lo volete anche voi?» ci chiede papà.
Anna accetta con entusiasmo, io rimando a mio padre un'espressione stranita. Vino? Io? Quando mai?
«È vino cotto. L'alcol evapora quasi tutto. È buono. È dolce. Secondo me ti piace.»
Annuisco debolmente, non troppo convinto, e mentre papà è via, Anna mi dice che anche secondo lei mi piacerà.
Papà torna indietro insieme a Daniele e Maria. Portano putizza per tutti e bicchieri di plastica fumanti.
Ne prendo uno, incuriosito. Appena lo avvicino alle labbra, vengo investito da un profumo buonissimo di chiodi di garofano e cannella.
La cannella mi fa venire in mente Ivan, ovviamente.
Lo assaggio. Si sente un po' il sapore del vino, ma è talmente investito di dolce e spezie che lo trovo gradevole. Ne bevo un po'. Mangio un pezzetto di putizza: la pasta morbida, le noci, l'uvetta... si abbina molto bene col vin brûlé.
Credo che a Ivan tutto questo piacerebbe tantissimo.
Sorseggio questa bevanda strana, mentre guardo il fuoco e penso a Ivan e mi sento... forse potrei azzardare un aggettivo: felice.
Avevi proprio ragione, Ivan. Hai fatto bene a raccontare a mio padre del pignarûl.
Vorrei che fossi qui, Ivan. Vorrei mostrarti questo posto, farti assaggiare questo dolce e questo vino, condividere con te questo momento.
Invece Ivan è in Australia, a giocare coi suoi compatrioti una competizione nazionale per squadre. Ne sarà felice, mi sembrava soffrisse il fatto di non essere mai stato convocato in Coppa Davis.
Mi rendo conto, però, che ci sarebbe un modo per essergli più vicino. Per condividere questo momento.
Potrei mandargli una foto. Scrivergli un messaggio.
E se lo facessi?
Poi lui mi risponderebbe. Mi chiederebbe come stai.
L'idea mi angoscia.
È già passato il momento di felicità?
No. Non voglio rovinare il mio benessere con le mie stupide paranoie.
Chiedo a mio padre il telefono. Glielo chiedo a gesti, lui capisce.
Faccio una foto al falò.
Fa schifo.
Provo a scattarne diverse, e mi rendo conto che il fuoco è un elemento che non viene bene in foto, sballa completamente la luminosità e non ci si capisce niente.
Allora chiedo a gesti ad Anna di scattarmi una foto. Mi metto in posa con il bicchiere in mano. Lo sollevo verso l'obiettivo e accenno un sorriso.
«Sei venuto benissimo» commenta lei, ma a me non piace. Il bicchiere di plastica bianca è proprio brutto.
È meglio se lascio perdere. Cancello le foto e restituisco il telefono a mio padre.
«Volevi mandarla a Ivan?» mi chiede Anna. E pronuncia Ivan con l'accento sulla I. Si dice Ivàn. Proprio non se lo vogliono mettere in testa.
Mi stringo nelle spalle e scuoto la testa. Lei per fortuna non insiste con altre domande.
La serata finisce, rincasiamo. C'è parecchia gente che passeggia per le strade di Capriva, tornano tutti alle loro abitazioni. Anna cerca di parlare con me, mi chiede come sto, mi dice di trovarmi sereno e di sentirsi serena anche lei. «Che bella serata, che bella atmosfera raccolta e familiare» commenta tirando su il bavero del cappotto. «Mi piace questa dimensione. Mi fa sentire a casa in un modo un po' strano.»
Non capisco cosa significhi questa frase, quindi guardo Anna aggrottando le sopracciglia.
Anna vede la mia espressione e capisce, prosegue il discorso: «Dico che è strano perché io non ho mai vissuto questa dimensione. Sono nata in città, a Palermo. Ho vissuto sempre in città, tra Palermo, Milano e Roma. Ho viaggiato tanto, ho sempre avuto una vita molto frenetica e i festini a cui sono abituata sono a base di cocaina, luci stroboscopiche e musica da discoteca. Non sono abituata a falò, chiacchiere e vin brûlé. Non sono abituata ai ritmi di paese. Eppure mi sento a casa, qui. Mi è familiare anche se non l'ho mai vissuto. Mi riporta a un'infanzia che non è mai esistita per me. È... è strano.» Si stringe nelle spalle e storce le sopracciglia in modo buffo. «Non so, ha senso quello che ho appena detto? Perché potrebbe non avere senso.»
Mi scappa un accenno di risatina. Anche Anna ride, mi cinge con un braccio all'altezza della vita. La mia vita larga di grasso in eccesso. Cerco di non pensarci. «È così bello vederti sorridere» mi dice.
In tutta risposta la cingo anch'io, per le spalle.
Torniamo a casa così, abbracciati in silenzio, mentre rifletto sulle sue parole, sul sentirsi a casa. Penso a Ivan, e a quando gli ho detto che vorrei che la mia casa fosse anche la sua. Dietro di noi, intanto, papà e Daniele chiacchierano con la gente del paese. Sento qualche parola in friulano, qualche ricordo adolescenziale rievocato, molti "mandi" al momento dei saluti.
Quando arriviamo al cancello di casa, mi fermo a osservare l'insegna: Luc di Zuan.
La casa di Ivan.
Ecco! Ecco la foto che voglio mandargli! Chiedo di nuovo il telefono a papà, inquadro l'insegna e scatto, sotto lo sguardo incuriosito di Anna. Il luc di Zuan. Il flash del telefono illumina la scena con una luce fredda.
Non mi piace.
In questa foto dovrebbe esserci il sole, dei colori caldi. No, no, non va bene.
Ridò il telefono a papà. Ci riproverò domani, magari, se c'è il sole. O il primo giorno in cui ci sarà.
***
C'è stata una settimana di pioggia, e oggi, tredici gennaio, è finalmente spuntato un timido sole. Ma non mi va più di mandare a Ivan quella foto.
È una foto senza senso. Questa non è la casa di Ivan. È la casa di mio nonno. E forse, poi, di mio padre. E forse, poi, mia.
E ora che ci penso ci sono anche le zie.
Era la casa preferita della mamma. Chissà perché le piaceva tanto. Ultimamente penso che le piacesse solo per far dispetto a mio padre.
Ho ripensato ancora alla lettera della mamma, ho ripensato a tutti i problemi che aveva, e al fatto che tutto il mio amore non sia bastato a salvarla. Ho ripensato anche a ciò che mi ha detto papà, e al video bellissimo che mi ha mostrato. Ci ripenso con pena, ma è una pena soffusa di tranquillità. Sono contento che Daniele mi abbia fatto leggere quella lettera e che papà mi abbia spiegato quelle cose. Sono contento di aver finalmente compreso.
Lo psichiatra ha cercato più volte di capire cosa ne penso, di quella lettera. Tutte le volte che me l'ha chiesto, sono rimasto immobile seduto accanto a lui, con la testa bassa, per fargli capire che era un argomento che proprio non volevo venisse sollevato. Ha scritto molte cose, mentre me ne stavo lì, zitto. Non sapevo che dei silenzi potessero essere così eloquenti.
Oggi ho deciso che proverò a parlare, o meglio, a dare un qualche tipo di messaggio a questo dottore che dovrebbe aggiustarmi la testa. L'ho deciso perché comincio a essere frustrato dalla mia incapacità di comunicare.
Nell'ultima settimana ho ritrovato il piacere di stare in compagnia: se posso ceno sempre insieme agli altri, e mi piace sentirli chiacchierare. Ma ancora non riesco a parlare.
Di sera, dopo cena, io e Anna abbiamo preso l'abitudine di guardarci insieme un film o qualche serie tv (sempre d'animazione). Lei mi coinvolge nella scelta e la cosa mi fa piacere: mi propone una decina di titoli, mi spiega a grandi linee le storie e io scelgo quella che preferisco. La presenza del film mi rende meno pesante il fatto che non riesco a parlare e più gradevole starle accanto: mi piace il contatto fisico, e lei a volte si appoggia a me, io a volte trovo il coraggio di abbracciarla. Anna puntella sempre la visione di piccoli commenti, prese in giro, esclamazioni, ma io rimango in silenzio. Anche alla fine cerca di tirarmi fuori qualcosa, qualche parola, anche solo un giudizio: ti è piaciuto? Ma io rispondo solo a cenni.
E questo mio problema mi esaspera.
Ma ciò che mi esaspera di più è non essere in grado di comunicare con Ivan.
Ivan mi manca. Vorrei sentirlo, parlarci come un tempo, ma le nostre conversazioni erano quasi sempre triviali, o personali. Ora non avrei nulla da dirgli, di triviale o personale. Ho fatto questo, ci dicevamo, ho visto quest'altro, mi sono allenato, penso che questa persona sia stupida, penso che quest'altra persona sia simpatica (questi ultimi due argomenti erano ovviamente prerogativa di Ivan, l'unico di noi due ad avere una vera vita sociale).
Viste a posteriori, con occhio distaccato, le interazioni tra me e Ivan, la maggior parte di esse, erano davvero poco interessanti. E allora cos'è che mi manca, di preciso, di quelle conversazioni?
Forse il suo umore positivo. C'era un certo grado di positività, in lui, anche quando era triste o arrabbiato. Voleva sempre fare qualcosa: quando era felice spinto dall'entusiasmo, quando era triste o arrabbiato per superare i propri sentimenti negativi.
O forse, ciò che mi manca di lui sono tutte le volte che mi faceva ridere, o semplicemente stare bene.
Ma la verità è che mi mancano anche tutte le volte che mi faceva arrabbiare. Mi manca essere irritato dai suoi capelli assurdi, mi manca biasimare il suo esibizionismo, mi mancano i suoi fastidiosi eccessi di entusiasmo per le cose più stupide.
Perciò voglio capire come e se posso tornare a comunicare con lui.
Il se è un grosso problema.
Non so se lui ne avrà ancora voglia.
Non so se io ne avrò il coraggio.
Ma anche il come è un ostacolo gigantesco.
Come faccio? Cosa gli dico? Ignoro i messaggi che mi avrà certamente inviato? Faccio un reset e ricomincio da zero? È quello che vorrei fare, perché solo l'idea di dover affrontare una montagna di cose non dette mi fa sentire piccolo e impotente.
E poi sono certo che lui mi chiederebbe dei miei problemi, e io non voglio parlare dei miei problemi.
Voglio parlare di cose triviali, come facevamo un tempo.
E allora eccolo qui, il dottor psichiatra Osvaldo Sfiligoj.
Si siede, come fa sempre, accanto a me sul divano della sala grande, e mi chiede: «Come si sente oggi?»
È la prima domanda che mi fa, ogni volta. Io rispondo quasi sempre con un'alzata di spalle, ma a volte non rispondo proprio. Oggi è uno di quei giorni. Sto cercando di trovare il coraggio di dargli il biglietto che ho scritto pochi minuti fa, prima che arrivasse.
«Che cosa ha fatto ieri come...» Il dottore si interrompe. Osserva la mia mano, e il bigliettino che gli sto porgendo.
Senza dire nulla lo prende, lo apre e lo legge.
Mi guarda.
Sul foglio avevo scritto semplicemente: Ivan. Mi sarebbe piaciuto aggiungere anche qualche specificazione in più. Tipo: come faccio a comunicare con Ivan? Ma non sapevo che parole usare. Quando mi trovo davanti alla necessità di esprimere qualcosa, è come se la mia testa andasse in tilt.
«Immagino che si tratti del suo amico, Ivan Reshetnikov.»
Ovviamente ha pronunciato Ivan con l'accento sulla i. Ma annuisco lo stesso. Non ci voleva molto a capirlo, è l'unico Ivàn che conosco. A parte Ivan Lendl, con cui però avrò parlato sì e no una volta in vita mia.
«Cosa sta cercando di dirmi?»
Mi mordo le labbra. Non so come esprimermi.
«Si sta mordendo le labbra» osserva. «Mordersi le labbra, toccarsi le labbra, sono tutti segnali che hanno a che fare con la comunicazione. Spesso ci tocchiamo o ci mordiamo le labbra quando udiamo qualcosa che non ci piace, o quando pensiamo a qualcosa che non vorremmo dire.»
Punto primo: io non mi tocco mai le labbra perché è antigienico.
Punto secondo: no. È esattamente il contrario. Sto pensando che vorrei disperatamente dire qualcosa che non riesco.
«È in generale un segno della sua difficoltà di comunicazione.»
Ecco!
«Dalla sua espressione deduco che sono sulla strada giusta.»
Mi mordo di nuovo le labbra, ma smetto subito, non voglio dargli segnali sbagliati. Annuisco.
Indico il foglio.
«Mi vuole parlare delle sue difficoltà di comunicazione... con Ivan?»
No! Non voglio parlarne, voglio risolverle! Batto un pugno sulla coscia.
«Vorrebbe parlare con lui?»
Annuisco.
Il dottore scrive qualcosa sulla sua cartella.
«Perché non gli scrive? Lei è riuscito a scrivere questa parola, oggi. È un grande passo, dopo settimane di cenni e gesti.»
Ma che soluzione è? Se ne fossi stato in grado l'avrei già fatto!
Incrocio le braccia e sprofondo nello schienale. Questo dottore non capisce niente!
«Vorrebbe comunicare, ma il suo atteggiamento esprime ostilità e chiusura. C'è in lei una forte ambivalenza.»
Ma va? Pensa che non me ne sia accorto?
Non mi muovo dalla mia posizione. Ma lo guardo negli occhi.
«Vorrebbe sapere la ragione di questa ambivalenza? Io non posso sapere cosa c'è nella sua testa, non ho la presunzione di farlo. Quello che c'è nella sua testa lo sai solo lei. Io posso fare delle ipotesi e aiutarla a farlo emergere.»
E le faccia queste ipotesi, allora!
«La vedo molto spazientito. Anche questo è un passo avanti, perché è una propensione attiva. Una forma di comunicazione attiva. Mi sta parlando col suo viso, con le sue espressioni, con le sue braccia incrociate. Forse lo fa senza una vera consapevolezza, ma, consciamente o inconsciamente, lei mi sta mandando dei messaggi emotivi molto più netti e chiari del solito.»
Non ci avevo pensato. Sto parlando senza parlare. Come quando uso la lingua dei segni?
«Anche i silenzi e le mancate risposte che lei spesso mi dà sono dei messaggi,» continua lui, «ma quei messaggi significano: non voglio parlare. I messaggi che mi sta mandando oggi, invece, dicono: sono frustrato, vorrei fare qualcosa, vorrei risolvere questo problema. Una caratteristica della depressione è proprio la mancanza di stimoli d'azione. Quindi questo suo atteggiamento è una cosa molto positiva.» Accenna un sorriso. È raro che sorrida.
Non so cosa pensare di ciò che mi ha detto. È positivo che voglia fare qualcosa? Ma se non so cosa fare alla fine il risultato è lo stesso! Che non faccio niente.
Il dottore ha altro da dire. Quanto parla, oggi! «Lei deve tenere presente una cosa importante: che è difficile comunicare, per chiunque. Farsi capire è un problema a cui spesso è difficile trovare una soluzione. Lei inizialmente ha risolto questo problema rinunciando del tutto a farsi capire. All'inizio della malattia era completamente chiuso e impermeabile. Ora c'è un desiderio di apertura. Ma è ancora piuttosto unidirezionale. Le spiego in che senso. Lei mi ha consegnato questo foglio con su scritta una singola parola,» lo sventola davanti a sé, «e non ha aggiunto altro. Avrebbe voluto che io capissi cosa lei voleva comunicare da un singolo segnale. E si è arrabbiato di fronte alla mia difficoltà di comprensione. Le chiedo: con chi si è arrabbiato? Con me perché non capivo, o con se stesso perché non riusciva a esprimersi?»
Ci penso. Un po' con entrambi, a dire il vero. Indico me stesso e poi indico anche lui.
Il dottore annuisce. «Con tutti e due. È una risposta saggia, perché lo sforzo comunicativo deve sempre essere bidirezionale. Se entrambe le parti si impegnano l'una a esprimersi al meglio, l'altra a interpretare al meglio, la comunicazione probabilmente funzionerà. Non sarà mai perfetta, perché è praticamente impossibile eliminare tutte le ambiguità. Ma funzionerà.»
Le ambiguità. Ecco. Le ambiguità sono un problema. Qualcosa sta girando nella mia testa. Quello che ha detto mi fa riflettere e mi manda anche un po' in confusione. Come si fa a eliminare le ambiguità? Forse è proprio questo che mi spaventa. Dire qualcosa e non essere capito. Trovare le parole perfette per farmi capire. È impossibile trovarle!
Vorrei che mi parlasse ancora di questo argomento, se approfondisse queste idee forse mi metterebbe sulla strada giusta per risolvere il problema. Ma rimane in silenzio.
Ok, voglio provarci. Indico la sua penna. Riuscirò a scrivere qualcosa? Quando sono in presenza di qualcuno non riesco mai a stringerla, è come se le mie dita perdessero forza.
Lui me la porge, poi estrae un block notes dalla sua borsa e mi porge anche quello. È nuovo, vuoto. L'immensità della sua vuotezza mi spaventa un po'. Ma la penna riesco a stringerla e puntarla sulla prima pagina.
Solo che, come al solito, non so cosa scrivere. Idee e domande si affastellano nella mia testa e mi fanno balbettare il pensiero.
Resto immobile a cercare di pensare a qualcosa per parecchi minuti, e dopo un po' comincia a venirmi l'ansia che stia per finire l'ora e lui se ne vada senza che io riesca a scrivere niente.
Guardo l'orologio che è appeso sopra alla cappa del caminetto ed evidentemente il mio guardare l'orologio è un messaggio per il dottore, che mi dice subito: «Non si preoccupi del tempo. Resto qui anche altre due ore, se è necessario, e ci resto senza sovraprezzo. Anzi, se può farla stare più tranquillo, se non le dispiace ne approfitto per scrivere qualche mail. Mi interromperò non appena sarà pronto.» Così dicendo, estrae dalla sua borsa un laptop sottile, si alza e va a sedersi al grande tavolo che sta alle nostre spalle.
Ok. Questo aiuta. Mi sento meno teso. Mi tranquillizza anche il fatto che non mi stia più guardando.
Ci metto un bel po'. Scrivo cose e le cancello, strappo fogli e li getto nel caminetto.
Alla fine, dopo... accidenti, sono trascorsi quaranta minuti! Dopo quaranta minuti mi alzo e vado da lui.
Appena mi vede chiude il laptop e prende il quaderno che gli porgo.
È impossibile trovare le parole giuste.
È quello che ho scritto.
«Non è impossibile. È solo difficile» mi risponde.
Quello che dice è la prova che è impossibile. Ci ho messo quaranta minuti e non sono riuscito a essere chiaro! Io volevo altre spiegazioni e lui ha solo ripetuto quello che ha detto prima.
«Lei vorrebbe una comprensione totale, istantanea e telepatica? Ecco, quella è una cosa impossibile. Per fortuna. A volte è utile nascondere ciò che pensiamo davvero. A volte la verità ferisce e va rivelata nei tempi e nei modi giusti.»
E quali sono questi modi giusti?
«Mi perdoni, questa era una piccola digressione. Le parole giuste, diceva. È difficile. È difficile trovarle, perché ognuno ha il proprio... chiamiamolo vocabolario. Una parola che ha un dato significato per me può avere un significato un po' diverso per lei. Pensi anche a una parola ovvia come penna» la fa roteare davanti a sé. «Ciò che è di base è chiaro a tutti: uno strumento per scrivere. Ma nello specifico? Se io dico penna penso a questa Bic nera. Lei potrebbe pensare a una penna di forma e marca diversa, magari blu, magari una stilografica, un'altra persona potrebbe pensare a una penna d'oca... E mentre noi parliamo di una penna nella mia mente c'è un'immagine diversa da quella che c'è nella sua. Nel caso di una penna, o di un qualsiasi oggetto concreto, questa differenza non è sostanziale e non influirà sulla nostra reciproca comprensione. Ma ci sono parole per cui trovare un significato condiviso è più difficile. I concetti astratti, ad esempio. E i sentimenti. Le emozioni. I sentimenti e le emozioni sono le cose più difficili da definire.»
Annuisco. Oh sì, accidenti! Finalmente qualcuno che capisce!
«Ci sono definizioni condivise anche qui, le definizioni ci sono sempre, se le parole fossero totalmente arbitrarie perderebbero totalmente di senso e tanto varrebbe abolirle, ma per i sentimenti la variabilità personale è molto più grande e di conseguenza anche la possibile ambiguità.»
E quindi? Come si fa a capirsi?
«L'unico modo per cercare di capirsi l'un l'altro è parlare. Chiedere. Spiegarsi.»
Ma con quali parole?
«Spiegarsi con le parole migliori che riusciamo a trovare. Pensare. Analizzare. Descrivere. E ascoltare, analizzare, chiedere. Chiedere. Chiedere. Una parola alla volta.»
Il dottore parla ancora un po', ribadendo in vari modi questi concetti. Io non dico altro. La seduta finisce. Ha parlato molto più del solito e scritto meno.
Dopo che ci siamo salutati, stringendoci la mano come alla fine di un match, mi sento strano. Mi sembra di capire meglio il punto in cui mi trovo, ma il problema è che si tratta sempre del punto di partenza: due ore fa non sapevo come ricominciare a parlare con Ivan. Due ore dopo ancora non lo so. Una parola alla volta: ma quale?
Rifletto molto, nei giorni successivi, e giungo alla conclusione che se non riesco a trovare le parole potrei provare a ripartire da delle immagini. Proprio come avevo cercato di fare la sera del pignarûl.
Ho scattato delle foto con l'iPad che mi ha regalato papà, quello con cui ascolto la musica.
Non aspiro a diventare un fotografo. Sto semplicemente fotografando cose che mi piacciono e penso potrebbero piacere anche a Ivan. Sto cercando in queste foto il messaggio per lui.
Ad esempio oggi, ventun gennaio, ha nevicato. E io ho fatto delle foto alla neve, immaginando Ivan che commenta dicendo che questa neve è ridicola e dovrei vedere la neve che cade a San Pietroburgo, d'inverno.
Mi piacerebbe vederla. Forse queste foto significano questo. Non so neanch'io cosa significano.
E finché non troverò un significato, non credo nemmeno che riuscirò a trovare il mio messaggio per Ivan.
——
Note note note ♫
Michele in cerca di strategie per uscire dal suo mutismo. Ci sono piccole aperture, piccoli passi avanti, ma non è facile e il traguardo sembra ancora lontano! Secondo voi riuscirà a trovare il messaggio per Ivan? E quale sarà?
Note culinarie friulane. Ho citato in questo capitolo un po' di piatti tipici di questa regione. Ne conoscevate qualcuno? È una cucina poco "italiana", con molti influssi slavi e austroungarici. Il piatto più famoso di tutti è il frico, che è una specie di simbolo del Friuli. È una tortina di formaggio filante (Montasio) e patate, ossia goduria ipercalorica allo stato puro. Poi c'è la brovada col muset, ossia la brovada col cotechino. Ma che caspita è la brovada? Sono rape fatte macerare nelle vinacce, assumono un sapore acido e intenso che si abbina bene alle carni grasse. L'ho fatta assaggiare a diversi non friulani e l'hanno tutti irrimediabilmente detestata (io la adoro). I cevapcici sono delle mini-salsiccette non insaccate di origine slava diffusissime anche in Friuli. Infine la putizza, è un dolce di origine slovena (potica) che si fa in tutte le zone di confine, simile alla gubana: pasta lievitata compatta arrotolata con ripieno di noci e frutta secca.
Poi vengono citati anche i biscotti al cioccolato che in Friuli si fanno di questa forma:
Ahah, no, non è vero, era la solita scusa per chiedervi la stellina!
Nota di servizio: siccome ho rimaneggiato questo capitolo e quello che sarebbe stato il prossimo trasformandoli in una terzina di capitoli, per non perdere colpi questa settimana li pubblicherò tutti e tre!
Quindi appuntamento a mercoledì!
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