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118. La prima parola

Di musica ne sto ascoltando davvero tanta.

È la mia attività principale, ascoltare musica. È qualcosa.

Il giorno dopo la finale, dopo che abbiamo ascoltato insieme quelle due canzoni, mio padre mi ha regalato un iPad. «È pulito» mi ha detto. «È registrato su un account email vuoto e c'è una sim nuova dentro, il numero non ce l'ha nessuno. Non ti arriveranno mail o messaggi. Puoi usarlo per ascoltare musica, se vuoi.»

Non so come facesse a sapere che ciò che mi spaventa del cellulare sono i messaggi che mi possono arrivare. Forse gliel'ha detto lo psichiatra. Forse gliel'ha detto quella mezza psicologa di Anna, che ha passato ore e ore insieme a me a cercare di parlarmi, e due giorni fa è partita per San Pietroburgo, per andare a trovare Andrej. Ma mi ha promesso che tornerà presto.

A ogni modo, ho scaricato la app di Spotify, e ho fatto login sul mio account, quello che mi ha creato Ivan ormai quasi tre anni fa, e ho navigato un po' tra le playlist di Ivan. 

Ogni giorno ne ascolto una diversa; cerco di ascoltarle per intero, ma a volte non riesco a finirne una in una singola giornata, perché faccio delle pause e spesso alcune canzoni le ascolto anche due o tre volte. Seguo i titoli un po' a caso, scegliendo quelli che mi sembra possano contenere canzoni belle. Lo so che nel mondo non esistono solo le playlist di Ivan e le canzoni che piacciono a Ivan, ma il mondo è un posto troppo grande, e da qualche parte dovrò pur ricominciare a esplorarlo. 

E poi voglio trovare la canzone preferita di Ivan, e quella canzone si deve trovare tra queste playlist. Ascolto le canzoni con attenzione, seguendone il testo, che spesso cerco online, perché è ovvio che il testo debba avere un'importanza fondamentale. Altrimenti non mi avrebbe mai detto che potevo trovarla anch'io. Ancora non l'ho trovata, però. Non so se per scarsa comprensione o semplicemente perché non l'ho ancora sentita. Forse Ivan sovrastima le mie capacità.

Chissà se Ivan riceve una notifica quando qualcuno ascolta una sua playlist, e se sa chi ascolta le sue playlist. Ho riflettuto su questa eventualità e ho deciso che non mi interessa. O meglio: mi spaventa un po', ma cerco di non pensarci.

Ho riascoltato alcune playlist che avevo già sentito in passato. Ad esempio, ho dato una seconda possibilità a quella "vintage pop" che avevo smesso di ascoltare  alla terza canzone, e l'ho trovata piuttosto divertente. Al secondo ascolto mi sono piaciute persino le prime due canzoni, Dancing Queen e I will survive, che al primo ascolto mi erano sembrate molto stupide. Be', non le ho trovate particolarmente intelligenti nemmeno stavolta, ma ne capisco il senso, ora. Il loro senso non è quello di dire cose intelligenti, è quello di regalarti un momento di spensieratezza, e mi sembra che riescano nel loro intento.

Di playlist che contengono musica di questo tipo Ivan ne ha create diverse, e le ho ormai sentite tutte. Penso che facciano bene al mio umore.

Ho deciso di fare una mia playlist, sul mio profilo. L'ho intitolata "roba che piace a Misha", ricordando il titolo della playlist in cui Ivan aveva messo la "roba che piace a Raf" (esiste ancora, quella playlist, e non ha cambiato il titolo: il verbo è ancora al presente).

Per ora non ci sono molte canzoni, perché anche se esistono diverse cose che trovo gradevoli o interessanti, voglio metterci solo cose che mi piacciono davvero, che mi colpiscono, mi emozionano in qualche modo, o a cui sono legato. E quindi ci ho messo Shine on you crazy diamond e Brain Damage dei Pink Floyd, Atomic dei Blondie e Ruby Tuesday dei Rolling Stones.

Poi ho cercato, trovato e inserito anche la canzone che mi piaceva da piccolo, Il pescatore di Fabrizio De Andrè. 

Avrei voluto metterci anche quella canzone russa che mi aveva cantato Ivan la prima sera con la chitarra. Non ricordavo il titolo russo, ma ricordavo che parlava di occhi neri, e quindi ho cercato "occhi neri canzone russa" su Google. E l'ho trovata subito. Oči čёrnye. Su wikipedia c'era il testo. Il testo che mi piaceva immaginare avesse significati avventurosi o misteriosi. Non ho resistito alla curiosità e l'ho letto. Ce ne sono due versioni, a dire il vero, non so quale delle due mi abbia cantato Ivan. Il senso è simile, comunque. Poesie d'amore dai testi tragici, strazianti, che mi hanno turbato al punto che ho rinunciato a cercarne una versione su Spotify. 

A ogni modo, sono sicuro che non mi sarebbe piaciuta. Mi piaceva come la cantava Ivan.

***

Anna se n'è andata, ma è tornato Daniele. È tornato da Londra con un infortunio. Probabilmente non partirà per l'Australia, a gennaio.

Non so perché sia venuto qui e non sia andato a Miami, nella casa che ormai è la sua residenza principale. È qui con Maria e con la bambina di cui non voglio pronunciare il nome.

Ogni tanto la vedo, quella bambina. Gira per casa camminando in modo incerto.

Anche lei è una tipa silenziosa, almeno con me. Mi guarda per qualche secondo e poi si va a nascondere da sua madre.

Non voglio vedere quella bambina. Mi fa pensare alla mamma.

Mi ci fa pensare per diverse ragioni. La prima è che si chiama come lei, e sento Maria e Daniele pronunciare quel nome.

La seconda è che vedo il modo in cui lei e Maria interagiscono, ma anche il modo in cui interagisce con Daniele, e ripenso alle mie interazioni con la mamma.

Vorrei che la mamma fosse qui e mi abbracciasse, mi tenesse la mano, giocasse con me, proprio come Maria e Daniele fanno con quella bambina.

Devo saperlo. Devo sapere perché la mamma mi ha abbandonato.

È il primo dicembre. Lo so perché Maria sta addobbando l'albero di Natale, nella sala grande. Daniele ha portato fuori la bambina, perché stava rompendo le scatole a sua madre impedendole di lavorare.

Eccoli qui davanti a me. Io sono uscito in cortile per prendere un po' d'aria e di sole, lo psichiatra mi ha detto che il sole fa bene all'umore, e che mi farebbe bene fare anche qualche passeggiata. Ma non ho il coraggio di uscire dal cortile di casa, non voglio incontrare estranei. Però continuo a fare un po' di attività fisica, anche se non mi va. Mi sforzo di farla, fa parte della terapia. Corro un po' sul tapis roulant a bassa velocità, faccio un po' di cyclette leggera. Ma non più di mezz'ora al giorno, è il massimo che riesco a sopportare.

Mi rendo conto che mi sto muovendo troppo poco. Sono ingrassato ancora perché ora ho più appetito, ho sin troppo appetito, e mi vergogno di me stesso, ma non ho la forza né la voglia di muovermi più di quanto stia facendo. Per la prima volta da quando ho quattro anni non c'è vero sport nella mia vita, non posso chiamare sport le passeggiate sul tapis roulant.

In cortile, però, ogni tanto ci vengo. Il cortile di mio nonno è molto grande, perché tanto tempo fa ci teneva le galline. Ci sono anche degli appezzamenti di terreno sul retro della casa, dove potrei camminare. Ma non sono recintati, confinano con altri campi, e lì ci potrebbe essere il rischio di incontrare qualcuno.

Daniele e la bambina sono qui che giocano con una specie di triciclo motorizzato. La bambina ride mentre fa delle brevi corsette sulla ghiaia.

«Di' ciao allo zio» le fa Daniele.

Perché ci tengono tanto che mi saluti?

Ma la bambina mi stupisce. Per la prima volta instaura una comunicazione con me.

Alza la manina e la sventola.

Mi sta salutando.

E mi sorprendo a sollevare la mano e rispondere al saluto.

Non ho paura. Non ho paura di questo saluto e non ho paura di lei, perché so che l'interazione si fermerà qui. Se salutassi Daniele, Daniele poi vorrebbe chiedermi come sto, vorrebbe parlare, vorrebbe...

Daniele mi sta guardando.

Sembra stupito.

Sì, certo che è stupito, sto salutando anche lui.

Ho cominciato a farlo senza rendermene conto. Sto agitando la mano verso di lui. Che stupido! Perché l'ho fatto?

«Ciao Michele» mi dice.

Ora mi chiederà come stai.

Non lo fa.

Ci guardiamo.

Mamma.

Ci ho già provato una volta. Quel giorno, a letto, quando era venuto a parlarmi e io stavo sprofondando dentro il buco da cui ora sto uscendo.

Sto percorrendo la direzione opposta, forse stavolta riesco a dire quella parola. Riesco a fargli capire cosa voglio sapere.

Apro la bocca. Appoggio le labbra una sull'altra. Devo solo far uscire la voce e pronuncerò una M.

Ma produco solo fiato muto. Un sibilo, che si strozza sempre di più nella mia gola.

Ce la posso fare. Ce la posso fare.

«Mh...»

Per un attimo, le mie corde vocali hanno vibrato.

«M?» dice Daniele.

Annuisco.

Mamma. È la prima parola. La prima parola che dicono i bambini, la prima parola che vorrei riuscire a pronunciare.

Daniele, che era ancora accucciato accanto a sua figlia, si alza in piedi, mi viene davanti, mette una mano sulla mia spalla. «Dimmi. Non aver paura.»

«Mh...»

Non riesco ad andare più in là.

«M... ma?» prova lui.

Annuisco. Come ha fatto a capirlo? Poi mi rendo conto che sta semplicemente dicendo le lettere in ordine alfabetico, perché dopo prova. «Mab... mac... mad...» Faccio no con la testa. È ridicolo. È un metodo di comunicazione ridicolo! Batto un piede a terra. Perché non riesco a parlare?

No. Non ha senso che continui.

E poi come faccio a fargli capire cosa voglio sapere? Mamma è solo la prima parola. Il concetto che voglio esprimere è troppo complesso. Perché la mamma si è uccisa? Ha lasciato scritto qualcosa? Perché non mi ha detto addio?

E non sono sicuro nemmeno di voler davvero sapere la risposta. Mi spaventa.

Mi giro e me ne vado.

Ma Daniele mi insegue. Mi afferra per un braccio.

«Vuoi scrivere?» mi chiede.

Scuoto la testa, cerco di divincolarmi.

«Papà...» È la bambina ad aver parlato. La sua voce mi blocca.

«Aspetta, tesoro, sto parlando con lo zio.»

Mi giro verso di lei e la indico.

«Cosa c'è?» mi chiede Daniele. «Vuoi parlare con lei?»

Scuoto la testa. No! Perché dovrei voler parlare con una bambina? I bambini sono stupidi, non capiscono niente, non ci si può parlare!

«Elisa?»

Non posso sentire quel nome. Mi metto le mani sulle orecchie e chiudo anche gli occhi. Ora me ne vado. Però, non so perché, non riesco a muovermi.

Purtroppo anche con le mani così, riesco a sentire quello che sta dicendo Daniele. «Ti dà tanto fastidio che si chiami come...?» 

Si è interrotto. Apro gli occhi. Mi guarda con la bocca semiaperta. Ha la bocca uguale a quella di papà, un po' sottile, stretta. «Mamma?» dice. «Stavi cercando di dire mamma?»

Mi manca il respiro. La vista mi si appanna.

Voglio tornare dentro.

Voglio chiudermi in camera e non uscire.

«E no, cazzo!» sbotta Daniele. «Aspetta! Fermati!» grida. Poi, a voce più bassa: «Eli, vieni in braccio al papà.»

Sono dentro. Passo davanti a Maria alle prese con l'abete, mi dirigo verso le scale, per andare al piano di sopra, in camera mia. Il mio passo è pesante. Lento. Mi sento come in uno di quei sogni in cui cerco di scappare all'infinito, senza riuscire a muovermi. 

«Aspettami! Fermati!» mi grida dietro Daniele. «Tienimela un attimo...» sussurra.

«Ma poi non riesco a fare un cavolo!» protesta Maria.

«Dieci minuti, cazzo!»

«Non dire parolacce davanti all'Elisa!»

Elisa, Elisa, Elisa, sempre quel nome! 

Apro la porta della camera, sento i passi rapidi di Daniele dietro di me, sta correndo veloce, ci sono, sono dentro, chiudo!

No.

C'è il piede di Daniele che tiene la porta aperta.

«Mi fai correre col tendine appena operato, stronzo» mi dice.

È lui che ha scelto di correre.

Cerco di chiudergli la porta addosso, ma sono davvero scandalosamente fuori forma, Daniele spinge più forte e riesce a entrare di prepotenza. 

Si chiude la porta alle spalle.

«Lo psichiatra ci dice sempre di andarci piano, con te, ma tu te ne stai approfittando, cazzo!»

È arrabbiato. Mi spaventa. Cosa vuole da me? Mi metto le mani sulle orecchie.

«Smettila di fare la scimmietta! Finiscila!» lo sento gridare. E poi le sue mani sono strette intorno ai miei polsi, mi allarga le braccia, non riesco a opporre resistenza. Mi sta facendo paura, il cuore mi martella velocissimo nel petto. 

«Parlami, cazzo!» Sembra quasi stia per mettersi a piangere. «Possibile che non riesci a pronunciare una cazzo di parola?!»

Perché non possono semplicemente lasciarmi in pace se mi vedono in difficoltà?

«E non guardarmi con quell'aria da cane bastonato! Tu non mi hai mai guardato così! Mai!»

Fa un sospiro, chiude gli occhi. Ho ancora paura. Vorrei spegnere all'istante tutti i miei canali percettivi.

«Scusami. Non cambio mai. Sono uno stronzo.» Il suo tono di voce è più calmo. «Se non te la senti, non importa.»

Daniele mi lascia le mani. Sto ritrovando il respiro, e il battito del mio cuore si normalizza.

«Non ce la faccio proprio a non essere stronzo con te, eh?»

C'è una lunga pausa di silenzio, durante la quale mi siedo sul letto. Lui resta in piedi.

«Da quando siamo piccoli non ho fatto altro che prenderti per il culo e pungolarti, ma...» Sbuffa. «Non so, forse ero anche un po' invidioso. E forse ricomincerò a prenderti per il culo appena starai un po' meglio.»

Perché mi sta dicendo queste cose?

«No, scusa, non dovrei dirti queste cose.»

Ecco, appunto.

«Dovrei dirti semplicemente che ti voglio bene. Forse mi sono accorto di volerti bene solo adesso che ti vedo stare così male.»

Io non gli voglio bene, invece. Non sono mai stato legato a lui. È quasi come un estraneo. Un estraneo con cui ogni tanto sono stato costretto ad avere a che fare.

«È complicato, il rapporto che ci può essere tra genitori, figli, fratelli...»

Però non è un vero estraneo. La mia mamma era anche la sua mamma.

«Sai come si dice, che la famiglia non te la scegli, ci nasci dentro, e te la devi tenere così com'è, con tutti i difetti.»

Ma perché dovrebbe sapere qualcosa di lei, della sua morte? Del perché si è uccisa? Perché lui e non io? Io che... che ero...

«E anche con la mamma, non avevo un bel rapporto. Lei...»

...il suo figlio preferito.

«Sei sempre stato tu il suo figlio preferito, lo sai.»

Alzo la testa e lo guardo. Mi hai letto nel pensiero, Daniele?

Mi guarda negli occhi. «Certo che lo sai. Non so neanche se ha senso parlare di figlio preferito, a me semplicemente non mi ha mai cagato.» Stringe le labbra. «Scusa, è più forte di me. È il risentimento che parla. Non dovrei dirti cose simili, messo come stai.» Abbassa gli occhi e scuote la testa. «Il mio punto era... che anche se i rapporti sono complicati, io sono cresciuto con te e con la mamma, e anche se a volte ti ho odiato, e odiavo anche lei, io vi voglio anche bene. Ho sofferto tanto anch'io, quando è morta, sai, anche se cercavo di non darlo a vedere. Guarda.»

Si infila la mano in tasca, tira fuori il portafogli. Ne estrae delle foto. Ne ha una di Maria, un paio della bambina... e una della mamma. «Questa me la porto sempre dietro, perché anche a me manca, anche se non siamo mai stati vicini.»

Allungo la mano. La prendo.

È una piccola foto a mezzobusto, ma non è una fototessera. Sembra ritagliata da una foto più grande, si trova in un ambiente casalingo. Era piuttosto giovane, credo risalga a quando io avevo quattro o cinque anni. Sorride debolmente, senza mostrare i denti, come faceva sempre. La accarezzo con un dito.

«Vuoi tenerla?» mi chiede.

Lo guardo. Non ho nemmeno il coraggio di annuire. 

«Puoi tenerla, se vuoi, tanto l'ho stampata da un file, me la stampo di nuovo.» Si stringe nelle spalle. «Mi piace questa foto perché sembra serena. Sembra buona. Sembra... sembra quasi una mamma buona...»

Lei era una mamma buona. Lo è sempre stata, per me.

«Se trovi la forza di dirmi quello che vuoi dirmi, vienimi a rompere le palle quando vuoi. Quando vuoi, davvero. Anche nel cuore della notte, bussi, svegliami. Quando vuoi.»

Esce, finalmente, e finalmente mi lascia solo. Torna da Maria e dalla sua bambina. La famiglia non si sceglie? Non è sempre vero. Lui e Maria si sono scelti, e infatti sembrano felici insieme. La bambina, ecco, lei non ha scelto i propri genitori. Come io non ho scelto mia madre e mio padre. Ma se avessi potuto scegliere, sono sicuro che la mamma l'avrei scelta un milione di volte.

Guardo la foto. Parlami, mamma. Se solo potessi parlarmi. Dirmi cosa è successo.

Vado alla scrivania, che non uso da quando a sette anni sono partito per l'accademia negli Stati Uniti. Com'è bassa, rispetto alla sedia. Apro il cassettone, so che dentro c'è un po' di cancelleria, c'è il vecchissimo astuccio che usavo alle elementari: è un astuccio dei Pokemon. Scelgo una penna rossa e faccio una cosa molto stupida: disegno un fumetto vicino alla testa della mamma.

Non so perché lo faccio. Mi aspetto quasi che si riempia di lettere, un messaggio da parte sua.

Che cosa stupida.

Lascio la foto sulla scrivania e vado a stendermi a letto.

***

Non so di preciso che giorno sia, ma manca poco a Natale, quando Daniele viene da me, con una busta in mano. Sono seduto sul divano, nella sala grande, accanto all'albero di Natale addobbato da Maria. 

Fino a poco fa ho percepito che papà e Daniele litigavano, di là, in sala da pranzo, ma non ho sentito cosa si sono detti, stavo (e sto ancora) ascoltando una playlist: New wave. Una playlist che mi sta piacendo molto. 

In particolare la canzone che sto ascoltando adesso. Capisco finalmente il senso della frase in quella vecchia lettera di Ivan, non la ricordo precisamente, qualcosa tipo: le canzoni ti parlano, ti fanno capire meglio come ti senti esprimendo i tuoi sentimenti con parole che tu non sapresti trovare.

Ecco. Questa canzone sembra parlare di me. Descrive uno stato d'animo che mi è molto familiare. Si intitola: Mad World, dei Tears for Fears.

Daniele cerca di richiamare la mia attenzione mentre nelle orecchie risuonano le parole: And I find it kind of funny, I find it kind of sad, the dreams in which I'm dying are the best I've ever had. È proprio come mi sentivo al culmine della depressione: lo trovo in un certo senso divertente, in un certo senso triste, i sogni in cui muoio sono i migliori che abbia mai avuto. Era proprio così: pensare alla mia morte mi dava uno strano senso di sollievo. E anche se non mi è più capitato di avere pensieri simili, ascoltare questa canzone mi dà conforto, l'idea che qualcun altro abbia provato le stesse cose che ho provato io mi fa sentire meno solo.

Daniele mi sta chiamando. Che noia.

Ma mi sento in dovere di spegnere il player. Credo proprio che questa canzone finirà nella mia playlist di preferite.

«Daniele, no!» grida mio padre, trattenendo Daniele per un braccio.

Ma Daniele non ci bada. Mi parla. «Michele, ho visto la foto della mamma. La foto che hai lasciato sulla scrivania. Me l'ha portata Sebastiana.»

La signora delle pulizie.

«Sebastiana che verrà licenziata perché non si fa i cazzi suoi» aggiunge mio padre digrignando i denti.

Perché Daniele mi dice queste cose? E perché mio padre è così arrabbiato? Il mio respiro si fa affannato.

«Senti, forse ho fatto un salto mentale esagerato, e forse...»

«Stai facendo una cazzata, basta!» Papà cerca di togliere di mano la busta a Daniele, ma Daniele sguscia via. 

«Vaffanculo, papà! Lo capisci o no che non può stare così?»

«Gli vuoi dare il colpo di grazia?!» Papà sta gridando, segno che è davvero molto arrabbiato o molto preoccupato.

«Deve superare questo lutto! È da quando ha tredici anni che sta messo così! Non l'ha ancora accettato! Ed è anche colpa tua, cazzo!»

«Non adesso! Proprio adesso che sta cominciando a guarire!»

Cosa sta succedendo? Non voglio assistere a questa scena. Mi alzo.

«No! Michele stai qui. Lo sai cosa c'è qui dentro?» dice Daniele in tono pacato.

Un'idea si forma subito nella mia testa. Un'idea terribile, la realizzazione del desiderio più spaventoso del mondo.

Daniele prosegue: «Ce l'ha mandata zia Elena, e devi ringraziare Anna che è riuscita a convincerla litigandoci al telefono.»

Una fitta di adrenalina mi paralizza il cuore per un attimo, e poi lo fa esplodere nella tachicardia più angosciante.

E ciò che dice Daniele realizza i miei timori. «Sono le ultime parole della mamma. È la sua lettera d'addio.»

——

Note note note

E finalmente è arrivato il momento. Il confronto con il lutto che Michele non ha mai affrontato. Avviene in modo un po' brutale, più per colpa di Nic che di Daniele, ma comunque Daniele non è che ci sia andato cauto, col povero Michele. Però lui è un tipo così, un po' brutale, poco gentile, molto duro. È un ragazzo che non ha avuto una vita facile e sapremo qualcosa di molto interessante sul suo passato proprio nel prossimo capitolo.

Una nota sulla canzone del capitolo: Mad World. La conoscete? Sono sicura che molti di voi conoscano la cover di Gary Jules. Ecco, perdonatemi, so che è una cover molto amata da molte persone, ma... (ocio che mi sta per partire l'embolo) IO LA DETESTOH CON OGNI FIBRA DEL MIO CUOREH (fiamme dell'inferno che divampano intorno a me)! Considero un affronto personale e un insulto alla musa Euterpe il fatto che se scrivi Mad World su YouTube il primo risultato è quella minestra lagnosa sciapa banale di Gary Jules e un affronto ancora più grande il fatto che abbia 162 milioni di visualizzazioni contro i 22 milioni dell'originale. Io non sono una sostenitrice de "l'originale è sempre meglio", eh, ci sono vagonate di cover che equivalgono o superano l'originale, ma in questo caso NO. La canzone dei Tears for Fears è un capolavoro in cui musica, cantato e arrangiamento interpretano alla perfezione l'alienazione e la follia del testo. La canzone di Gary Jules è una piacionata totalmente priva di ispirazione. Tornate sulla retta via, o voi empi sostenitori del Gary Jules, e apprezzate il Vero Capolavoro™!

https://youtu.be/u1ZvPSpLxCg

Oppure, se continuate a preferire Gary Jules, mandatemi pure a fanculo che è sempre un'attività catartica, mandare a fanculo la gente.

E se preferite Gary Jules lasciatemi una stellina per consolare il mio immenso dolore. Se vi ho convinti coi Tears for Fears, lasciatemi una stellina per ringraziarmi della scoperta. Se già conoscevate i Tears For Fears e preferivate anche voi la loro versione, lasciatemi una stellina come pacchetta d'intesa sulla spalla.

La prossima settimana torno a due capitoli (lunedì e giovedì) perché sono entrambi belli penzi e di tempo per la revisione ne ho poco, perdonatemi. A lunedì!

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