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117. Like black holes in the sky

Sto facendo delle sedute psichiatriche.

Un giorno sì e uno no, esclusa la domenica.

Non riesco a dire niente, ma per qualche strana ragione che nemmeno io capisco mi fanno stare meglio. Un po' meglio.

Non arriverei a dire che sto bene. Non sono felice. Ma non sono neanche triste. Prima ero talmente intriso di apatia che questa situazione di normalità attiva mi sembra un passo avanti.

È una normalità attiva perché, su indicazione (direi quasi ordine) dello psichiatra, cerco attivamente di fare qualcosa. Oggi ho pulito la mia camera, ad esempio. L'ho pulita da solo, non l'avevo mai fatto in vita mia. C'è una signora delle pulizie che ci pensa, di solito, quindi non era veramente sporca, ma ho voluto fare un lavoro di rifinitura molto meticoloso, occupandomi anche degli scaffali alti, dell'interno degli armadi e di tutti gli angoli più nascosti. Ci ho impiegato tutta la giornata, dalle otto di mattina alle nove di sera, con pause per sgranchirmi e mangiare. Non so se ho fatto un buon lavoro, non so nemmeno se ho impiegato i prodotti giusti.

Lo psichiatra mi ha detto che devo ricominciare a piccoli passi, uno alla volta, pormi degli obiettivi semplici e concreti e realizzarli. Pulire una stanza mi è sembrata un'attività abbastanza semplice e concreta.

Lo psichiatra è sempre lo stesso, quello che mi ha visitato e ha cercato di parlare con me quando ero ancora dentro il buco, il dottor Osvaldo Sfiligoj, un uomo bassetto di mezza età, con la barba e i capelli brizzolati. Viene qui, a casa, una sera sì e una no, ci mettiamo nel soggiorno, da soli, seduti sul divano uno a un'estremità uno a un'altra. E non parlo. Parla solo lui. Poco.

Non riesco a parlare con nessuno. Ancora non ci riesco. 

Alla prima seduta gli ho portato una scatola di medicinale che papà, Daniele e Anna hanno cercato diverse volte di farmi prendere. Avrei voluto chiedergli come e perché avrebbe voluto curarmi con quelle cose che alla mamma hanno fatto solo male. Ma arrivato lì mi sono perso nei miei pensieri, nel tentativo di formulare delle frasi e delle idee che, mi sono reso conto, non erano chiare nella mia testa, e immerse in una paura indefinibile.

E quindi, a inizio seduta, mentre lui parlava dicendo cose che non ho ascoltato, ho estratto la scatola di tasca e l'ho appoggiata sulla seduta vuota del divano, in mezzo a noi, esattamente in centro al cuscino di pelle scura.

«Questo è un antidepressivo» mi ha detto. «So che l'ha rifiutato diverse volte, intuisco che voglia qualche chiarimento.»

Ho avuto la forza di annuire. Un cenno della testa talmente leggero che non ero certo lui fosse riuscito a percepire. Ma l'ha percepito, perché ha continuato. Mi ha spiegato come funzionava, che effetti avrebbe avuto e quale sarebbe stata la posologia. Nella mia testa c'erano domande: perché? Perché alla mamma non è servito? Perché a me dovrebbe servire? Chi mi assicura che funzioni? Chi mi assicura che non dovrò prenderlo per tutta la vita? Non vorrei prendere medicinali tutta la vita. È davvero necessario? Cosa succederebbe se continuassi a non prenderlo? Erano talmente tante che non sapevo da quale cominciare.

«Cosa ne pensa?» mi ha chiesto, dopo credo parecchi minuti di silenzio.

La mia marea di domande si è trasformata in un singolo gesto: ho scosso la testa.

«La cura la spaventa.» Era un'affermazione, non una domanda.

Ho annuito, in maniera più decisa della prima volta.

«Io non posso obbligarla a prendere questo farmaco, ma penso che le sarebbe molto utile, oserei dire necessario. Ho avuto pazienti a cui non esito a dire ha salvato la vita. Lei ha una forma di depressione grave e per giunta difficoltà comunicative che rendono molto complicata, quasi impossibile una psicoterapia classica.»

Non ho risposto. Non mi sono mosso. Non sono neanche certo di aver capito bene cosa voleva dire.

«Ma ha fatto un passo avanti gigantesco accettando di vedermi.»

Ho annuito. È l'unica cosa che riesco a fare, rispondere con cenni della testa.

Lui ha fatto un piccolo sospiro, si è messo a scrivere qualcosa su un foglio, poi me l'ha dato. «Questa è la posologia. Io tornerò qui domani sera, stessa ora. Se vuol farmi sapere se ha deciso di prenderlo o no, mi porti questa scatola. Io la aprirò e lo scoprirò.»

Ho preso il foglio, l'ho letto, piegato e messo in tasca.

La sera dopo è tornato — è stata l'unica volta in cui abbiamo fatto due sedute in due giorni successivi. Io gli ho portato la scatola e ho fatto la stessa cosa del giorno prima, l'ho appoggiata sul divano, appena ci siamo seduti, prima ancora che iniziasse a parlare. Lui l'ha presa, l'ha aperta. Ho percepito delusione, sul suo viso, quando si è accorto che i blister di compresse non erano stati toccati, e ho percepito anche che ha cercato di mascherarla, quella delusione. Di solito non sono bravo a leggere i volti delle persone, le loro intenzioni; ma questa volta sono stato molto attento, lo stavo osservando perché volevo capire cosa ne pensasse.

«C'è molto stigma nei confronti degli psicofarmaci, e non è uno stigma completamente ingiustificato. Sono farmaci che vengono spesso abusati e spesso prescritti con leggerezza.»

Ha fatto una pausa, durante la quale non mi sono mosso.

«Io non sono un medico che li prescrive con leggerezza. Se posso non li prescrivo e indirizzo i miei pazienti a terapie alternative.»

Ho continuato a non parlare.

«Come sta, Michele? Le sembra di stare meglio?»

Ho scosso la testa.

«Peggio?»

Ho scosso la testa di nuovo.

«Mi risponda sinceramente: lei non hai preso lo psicofarmaco che le ho prescritto perché ha paura...» ha alzato l'indice della mano destra, «...o perché sente di non averne bisogno?» ha alzato la sinistra.

È rimasto lì con gli indici alzati. Io l'ho guardato e non so dire quanto tempo siamo rimasti così. 

Parecchio. Diversi minuti. Non stavo guardando l'orologio, ma sono certo siano stati diversi minuti, forse persino un quarto d'ora. E ogni minuto speravo che le abbassasse, quelle mani, ma lui non le abbassava, e aspettava. E quell'attesa l'ho percepita come una specie di sfida, come su un campo da tennis, un servizio a cui dovevo rispondere, altrimenti avrei preso un warning per mancanza d'impegno.

E io non sono mai stato un giocatore che si tira indietro, soprattutto non davanti a un altro giocatore che mi rispetta al punto da proseguire una sfida a cui vorrei sottrarmi.

Allora ho alzato un dito, e lentamente l'ho mosso verso la sua mano destra, la mano della paura. Poi però, dopo aver indicato la paura, l'ho spostato verso il centro. Non ho raggiunto la mano sinistra, perché non potevo dire con certezza di non averne bisogno, ma una piccola parte di me crede che posso farcela anche da solo.

Lui ha atteso qualche altro secondo, ha atteso finché io, dopo essere rimasto immobile a indicargli il cuore, ho abbassato la mia mano.

La mia risposta al suo servizio era finita. La palla di nuovo a lui.

«Lei hai paura, ma un po' pensa anche di non averne bisogno. Ho capito bene quello che voleva dire?»

Ho accennato un assenso.

«Le faccio solo una domanda, Michele, e di nuovo la prego di rispondermi sinceramente. Le giuro che non giudicherò né lei né suo tuo padre: è stato suo padre a dirle che non ne ha bisogno?»

Ho scosso la testa con decisione.

«È un'idea... un'idea incerta, diciamo, che lei si è fatto da solo.»

Ho annuito.

Ha annuito anche lui. Ha fatto roteare la penna tra le dita, guardando il vuoto. «Io non sono solito assecondare le delusioni dei miei pazienti. Preferisco affrontarli e metterli in discussione, a costo di perderli. E sarò sincero con lei: ho il forte sospetto che questa sua impressione, l'idea di non aver bisogno dei farmaci, sia una delusione. Cioè, una falsa impressione, un errore di giudizio. Che in realtà sia solo la paura a guidarla.»

Non ho detto nulla. Ma qualcosa avrei voluto dirla. Non so neanch'io cosa. Avrei voluto protestare in qualche modo.

Ma lui non aveva finito. «Però penso anche un'altra cosa di lei, della sua situazione. Che una delle cause principali dei suoi problemi sia che nessuno, nella sua vita, l'ha mai trattata da adulto. Nessuno le ha mai dato delle responsabilità. Allora io oggi voglio fare questo: darle una responsabilità. Dare credito alla sua propriocezione. Ho deciso di crederle, Michele. La prescrizione ce l'ha, giudichi lei, con la sua testa, se pensa che le serva. Giudichi se si sentirà meglio, o se le sembrerà di essere in stallo, o persino di peggiorare. Ho fiducia nelle sue capacità di giudizio.»

Quello che ha detto ha smosso il riflesso del pianto. Lo chiamo riflesso perché non sono riuscito ad associarlo a una precisa emozione. È scattato così, inspiegabile, come se avesse premuto un interruttore. Mi è uscita qualche lacrima, e qualche singhiozzo. Non avevo fazzoletti quindi mi sono alzato per andare a prendere un tovagliolo di carta in cucina e soffiarmi il naso.

Quando sono tornato, il dottore stava scrivendo sul suo taccuino. Mi ha guardato e per fargli capire che era tutto ok gli ho fatto un cenno di assenso. Penso abbia capito perché mi ha risposto con un sorriso.

***

E quindi è iniziata la "psicoterapia", definizione del dottore. A ogni seduta gli porto la scatola di psicofarmaci e la appoggio sul divano. Per ora di sedute ne abbiamo fatte sei e la scatola è ancora piena. Lui dice che è un buon segno che li porti, perché significa che accetto l'idea di poterli prendere, in futuro. «Se li avesse rifiutati, li avrebbe buttati. La sua apertura nei confronti di un possibile cambio di terapia è incoraggiante sia per me che per lei.»

Il dottore dice di avere una specializzazione in psicoterapia cognitivo comportamentale, che mi sembra un nome altisonante per consigli che forse avrei potuto darmi anche da solo. O forse no. A volte mi sforzo di andare a queste sedute pensando che Ivan vorrebbe che ci andassi, e mi sembra una perdita di tempo. Altre volte ho l'impressione che mi stia facendo bene. Ma tutto sommato ho deciso di dare fiducia al dottore, come lui l'ha data a me.

Alla terza seduta mi ha dato un test che prevedeva risposte da zero a tre. Avrei dovuto compilarlo a penna, cerchiando le risposte sul foglio. Ma non sono riuscito a tenere la penna in mano. Ci ho provato, ma le dita si sono fatte tanto deboli che mi era impossibile stringerla.

Allora lui mi ha fatto le domande a voce dicendomi di rispondere facendo i numeri con le dita.

Non è stato facile.

Già alla prima domanda mi sono incagliato, chiedeva di definire quanto sono triste da zero (mai) a tre (sempre). Io, però, non so se sia corretto definirmi triste. La parola che userei è apatico. Sono rimasto a pensarci su per parecchi minuti e alla fine, per semplicità, ho deciso di mostrargli un tre con le dita, anche se mi sembrava un'approssimazione.

Altre domande non avevano la risposta che avrei voluto dare o erano imprecise. Una, ad esempio, parlava dell'interesse nei confronti delle altre persone, se l'avessi perso rispetto al passato. Be', la verità è che io non ho mai avuto interesse per le altre persone in primo luogo, tranne per alcune, per cui ce l'ho ancora. Come potevo rispondere? Non ho saputo rispondere, ho scosso la testa e lui per fortuna è passato avanti.

La domanda più sgradevole è stata quella che mi chiedeva se mi sentissi un fallimento. Il mio primo istinto è stato quello di rispondere no, sono stato il numero uno del mondo, forse lo sono ancora. Ma il semplice pensare al tennis mi ha chiuso la gola, il mio respiro ha iniziato a farsi stretto stretto e ho iniziato a vederci male, come se fossi sul punto di svenire. Il dottore se n'è accorto. «Non è obbligato a rispondere, passiamo alla prossima.» Ma siccome la risposta alla domanda mi sembrava ovvia, ho scosso la testa e gli ho mostrato il pugno, a indicare che la risposta era zero: non posso oggettivamente dire di essere un fallimento.

Alla fine del test ha dato delle interpretazioni. Ha insistito parecchio su due risposte, questa sul fallimento e un'altra che mi chiedeva se mi sentissi in colpa e a cui ho risposto di no: di cosa mai dovrei sentirmi in colpa? Ha detto che secondo lui queste risposte negative potrebbero essere un segno del fatto che la mia depressione ha origini fisiologiche, oppure che gli aspetti su cui si concentrano i miei pensieri negativi sono poco ovvi. 

Le terapie (le chiama proprio così) che mi dà sono consigli di natura pratica: fare cose. Le prime due volte mi ha detto lui cosa: il primo giorno mi ha suggerito un elenco di attività sportive di bassa intensità, finché non ne ha trovata una che ho accettato di fare — le prime che aveva ideato prevedevano che uscissi di casa, figuriamoci! La seconda volta mi ha detto: «Domani, a pranzo, si prepari una pasta al pomodoro, concentrandosi bene su tutti i passaggi, e poi la mangi.» Io non avevo idea di come si prepari una pasta al pomodoro, non volevo cercarlo su internet, internet mi spaventa, perciò mi sono inventato la procedura, ripetendo azioni che ho visto fare a mio padre. Il risultato è stato molto, molto deludente e la cosa mi ha lasciato addosso una forte frustrazione, che mi ha fatto pensare che lo psichiatra fosse un idiota.

A letto, di sera, ci ho ripensato, con la rabbia per la cattiva riuscita del piatto che mi faceva girare e rigirare tra le lenzuola, e a un certo punto, però, mi sono ritrovato a pensare: meglio arrabbiato che apatico. E mi è successa di nuovo quella cosa che mi è successa il primo giorno, quando il dottore mi ha detto di aver fiducia nelle mie capacità e mi è partito un inspiegabile pianto. Di nuovo è scattato un interruttore che mi ha portato alle lacrime, senza che ne capissi la ragione. Ho pianto per un po', poi mi sono addormentato senza accorgermene.

La volta successiva mi ha detto di decidere autonomamente cosa volevo fare e poi farla. Non avevo la minima idea di cosa potessi fare, quindi ho copiato un suo suggerimento: attività fisica. Mi sono posto l'obiettivo di fare cento flessioni. Una volta ci riuscivo, ma sono fuori allenamento e arrivato a venti già annaspavo, a trenta sono crollato.

Sono rimasto steso a terra per credo due o tre ore, rannicchiato, apatico come lo sono stato prima che tornasse Ivan, con l'idea che qualsiasi cosa al mondo fosse impossibile, per me, e non sarei mai uscito da questa situazione, e sarei rimasto lì immobile fino a sera, se non fosse entrato in palestra mio padre, che, preoccupato, ha iniziato a chiedermi se mi fossi fatto male e cosa avessi. Non sono riuscito a parlargli, ma vederlo preoccupato mi ha fatto tornare in mente Ivan. Ivan che mi dice di curarmi e vedere lo psichiatra. E questa attività è una cura. Allora mi sono rimesso a fare le flessioni. Ok, cento di fila è impossibile. Ne avevo fatte trenta? Ne avrei fatte altre dieci, e pausa. E poi altre dieci, e pausa. E sono andato avanti così finché non sono arrivato a cento, e arrivato a cento mi è venuto di nuovo da piangere. Mio padre, che era rimasto a guardarmi e probabilmente non ha capito niente né del perché stessi facendo delle flessioni, né del perché stessi piangendo, mi ha accarezzato la schiena e mi ha detto bravo. La mano sulla schiena mi ha fatto piacere, ci ho ripensato anche a letto. L'acido lattico mi ha fatto dolere le braccia per due giorni, ma ogni volta che percepivo quel dolore mi sembrava di stare meglio, era una testimonianza del fatto che ci ero riuscito.

Quando lo psichiatra, il giorno dopo, mi ha chiesto se avessi trovato l'attività da fare ho annuito. «Ed è riuscito a portarla a termine?» Ho annuito di nuovo. «Riesce a dirmi che attività fosse?» Ho fatto dieci flessioni davanti a lui. «Bravo, l'attività fisica è molto importante perché rilascia endorfine, che sono ormoni che fanno bene all'umore. Era proprio una delle cose che volevo dirle di fare ogni giorno. Anche in modesta entità. Ogni giorno dovrà dedicare almeno mezz'ora a un'attività fisica aerobica: lei è uno sportivo e sa bene di cosa si tratta.» Sì, lo so.

Da quella volta in poi mi ha detto che avrei dovuto scegliere sempre io, quale fosse l'attività da fare (in aggiunta a quella aerobica), e poteva essere qualsiasi cosa, meglio se concreta, anche molto semplice come fare un puzzle, sistemare qualcosa. È per quello che ho scelto di pulire la camera.

Queste attività servono a... tenermi attivo. La cosa più importante, dice il dottore, sarà capire l'origine di questi miei famigerati pensieri negativi per «uscire dal circolo vizioso.» Ripete spesso questa espressione.

Mi fa molte domande a cui non rispondo. Mi dà qualche suggerimento. Ogni tanto mi mostra delle foto, delle immagini, cerca delle reazioni. Scrive molto.

Non è il solo che cerca di comunicare con me. Ci provano tutti. Papà, Anna. Persino il nonno ha provato a dirmi qualcosa. Daniele è alle Finals (si è qualificato in doppio), ma se fosse qui, di sicuro proverebbe a parlarmi anche lui.

Mi danno dei fogli per farmi scrivere, ma non riesco a stringere la penna in mano. Mi danno il cellulare, ma il cellulare mi spaventa. Ogni volta che me lo mostrano scappo via. Rispondo solo con qualche gesto e tanti cenni della testa, è tutto ciò che riesco a fare. E non ci riesco sempre. Il dottor Sfiligoj è quello con cui comunico di più. Le parole non mi escono ancora, mi sembra quasi di aver dimenticato come si fa a parlare.

È come se qualcosa mi bloccasse. Un senso di angoscia interno. L'idea che se rispondo a una prima domanda, poi dovrò rispondere anche a una seconda, e a una terza.

Con la mamma parlerei, con la lingua dei segni. Mio padre ci ha provato. Mi ha chiesto: «Come stai?» con la lingua dei segni americana. Gli ho risposto. Gli ho risposto con una frase molto complicata che ovviamente non ha capito. Lui avrà imparato come si dice "bene" o "male". Io gli ho detto: «Le giornate sono lunghe e stancanti, vorrei che finissero all'alba.» 

È stato un errore. Lui ha pensato che fosse un passo avanti e ci ha riprovato, portandosi un interprete, la seconda volta. Per fargli capire che non avevo alcuna intenzione di parlare con gente sconosciuta (gli estranei mi angosciano), appena si e presentato in camera mia insieme a questo tizio, sono andato in bagno e mi ci sono chiuso dentro. Spero che il messaggio fosse abbastanza forte: voglio essere lasciato in pace. È successo due giorni fa, e non ci ha più riprovato.

***

Le giornate sono lunghe e stancanti, vorrei che finissero all'alba. È la verità. Il dottor Sfiligoj mi ha detto che la situazione non si smuoverà, se non capiamo quali sono le origini del mio malessere e che il fine ultimo sarà quello di indirizzare la mia vita a uno scopo.

Il problema è che uno scopo io non ce l'ho. Mi sveglio e non so cosa fare. Non ho voglia di fare niente. Ho voglia di provare a fare qualcosa, questo sì. Ma cosa? Non lo so. Faccio le stupide attività fisiche che mi suggerisce lo psichiatra, ma cominciano a sembrarmi sempre più fini a se stesse.

Ho passato la mia intera vita a giocare a tennis, da che ne ho memoria. La mia intera vita è stata proiettata su quella traiettoria, diventare un campione, diventare il numero uno, diventare il più grande tennista di tutti i tempi. Non lo voglio più, e il vuoto lasciato dal tennis è una voragine impossibile da riempire. Non ho interessi, non ho pulsioni, non ho desideri.

Quando ho pulito la camera, l'altro ieri, ho pensato che mi sarebbe piaciuto decorarla, come ha fatto Ivan con la sua, ma poi mi sono reso conto di non sapere come decorarla. Non voglio appendere foto di tennisti. Non ho idoli. Non ho passioni. Non ho nemmeno un colore preferito con cui ritinteggiare le pareti.

Vorrei vedere Ivan. Ma non è un desiderio che può dare uno scopo alla mia vita. È come diceva Anna, tanto tempo fa, quando ha accettato di diventare la mia manager e abbandonare la carriera di modella: voglio trovare una realizzazione personale. Io sono allo sbando, non so come realizzarmi. Forse dovrei, molto semplicemente, ricominciare a giocare, ad allenarmi. È l'unica cosa che so fare.

Ma solo l'idea di prendere in mano una racchetta mi fa vomitare.

Letteralmente. Qualche giorno fa ho aperto il borsone, ho preso in mano la racchetta, ho visualizzato le sessioni di allenamento nella mia testa, e ho inaspettatamente vomitato. L'ho riposta e non ho intenzione di prenderla in mano di nuovo.

Vorrei capire perché la mamma si è uccisa. Questo è un altro desiderio che ho, ed è un altro desiderio che non ha nulla a che fare con la mia realizzazione personale.

In questo momento si sta giocando la finale di singolare a Londra, tra Ivan e Demetrios Iraklidis. Lo so perché me l'ha detto mio padre, non perché abbia seguito il torneo. Non voglio guardare tornei, non voglio guardare tennis. E mi spaventa l'idea di vedere Ivan in TV, non so perché.

Sta giocando, in questo momento. Forse è già finita, chissà. Sto cercando di pensare a come mi sento all'idea che sarei dovuto essere lì e non ci sono. È una cosa nei confronti della quale provo un vago senso di angoscia, un disagio che mi fa desiderare di non pensarci. Non voglio più giocare a tennis.

***

«Michele, devi vedere una cosa.» Mio padre è entrato in camera mia. Io ero già a letto, ma non dormivo. La luce sul comodino era accesa, ero steso a pancia in su e guardavo il soffitto, pensando alla mamma.

Non rispondo a papà. Credo si stia riferendo all'incontro di Ivan, a cos'altro, a quest'ora? Forse è finito, vuole farmi vedere un punto, uno scambio. Forse vuole farmi riappassionare al tennis.

«So che il cellulare ti mette ansia, ma vorrei mostrarti una cosa. Ivan ti ha parlato. O meglio... credo... credo fosse un messaggio per te. Sono quasi sicuro fosse un messaggio per te.»

Ciò che dice risveglia la mia attenzione. Un messaggio per me?

«Vuoi guardarlo? Ha perso la finale. Lo ha detto nel discorso di ringraziamento. Ti faccio sentire solo quella frase.» Mi mostra il cellulare.

È il cellulare di mio padre, che mi angoscia meno del mio, perché so che non vedrò spuntare notifiche di messaggi rivolti a me. È un cellulare che, però, contiene un messaggio per me. Un messaggio di Ivan. Un messaggio che ha detto pubblicamente, davanti a milioni di persone. Il solito esibizionista. Odio il suo esibizionismo. Quante cose odio di lui.

«Posso farlo partire?» mi chiede. Sullo schermo c'è un fermo immagine, Ivan sudato, i capelli verdeazzurri che gli ho visto una settimana e mezza fa, qui a casa nostra.

Annuisco.

Mio padre clicca su play.

«...e c'è un'ultima cosa che vorrei dire, per una persona che non è qui in questo momento. Ma questa persona lo sa che parlo con lei, se mi sente.»

Si schiarisce la voce, io sento il mio cuore battere più veloce, una sensazione a cui non ero più abituato.

E quindi Ivan recita, non canta, recita le parole di una canzone che conosco bene. «Ricordi, quando eri giovane brillavi come il sole. Ora i tuoi occhi hanno un'espressione, come buchi neri nel cielo. Continua a brillare, diamante pazzo.»

La sua voce si incrina un po', alla fine, la gente applaude, forse senza capire perché, e mi accorgo di provare un'emozione strana, che non provavo da tanto tempo. Una specie di calore al petto, una tensione positiva alla base dello stomaco, un impulso, un desiderio.

Voglio ascoltare quella canzone.

Tra tutti i (pochissimi) desideri che ho avuto in questi giorni, è forse il più stupido, il più frivolo, ma nessun altro mi ha dato una gioia simile. Una parvenza di gioia.

Non posso usare il mio telefono, però, ancora non ne ho il coraggio.

Allora uso quello di mio padre.

Lui non ha la app di Spotify, perciò vado su YouTube. Cerco il titolo: Shine on you crazy diamond. La trovo. Digitare delle parole mi ha fatto tremare un po' le dita. Non ho ancora comunicato con nessuno, a parole, è la prima volta che lo faccio da quando sono tornato a casa da Pechino. È la prima volta che scrivo qualcosa, e mi fa sentire strano, anche se è un messaggio che ho mandato a un computer e non a una persona.

Faccio partire il video.

Mio padre resta qui con me. Mi sta bene. Voglio solo ascoltare questa canzone così bella, e se la ascolta anche lui a me non cambia niente.

Resta qui, seduto sulla sedia girevole che sta davanti alla mia scrivania – quella su cui facevo i compiti da piccolo – ma rivolto verso di me. Resta qui per tutti i tredici minuti di durata della canzone, mi sembra stia piacendo anche a lui, anche se lui odia la musica persino più di quanto la odiassi io prima di conoscere Ivan. Fissa il soffitto con un'aria in apparenza serena.

Quando la canzone finisce, guardo mio padre. Quanto mi era sembrata strana l'immagine di lui che ascoltava musica, quando avevo scoperto che da giovane aveva avuto anche lui una canzone preferita.

E così, senza rifletterci troppo, decido di far partire anche quella canzone. Ricordo ancora il titolo: Un'emozione da poco. Lo ricordo per via di quello sciocco errore di Ivan, che aveva interpretato "da poco" in senso temporale.

Appena comincia la musica, mio padre drizza la schiena.

Mi guarda, occhi spalancati, sopracciglia inarcate.

Non gli avevo mai chiesto nulla di questa canzone. Quante domande mi ero fatto. Ivan non aveva voluto dirmi niente, Raffaele nemmeno. Solo ora capisco perché.

E a mio padre, a lui, non avrei mai avuto il coraggio di chiederlo. E ora, però, la stiamo ascoltando insieme. Sto forse cercando di comunicare? Forse. Il respiro mi si chiude nella gola. Ho paura. Mi tremano le mani, devo appoggiare il telefono sul comodino. 

Ma non fermo la canzone.

Non riesco più a guardare mio padre. Non ne ho il coraggio. Mi giro su un fianco e gli do le spalle. A cosa starà pensando? A Raffaele? A quando era giovane e ascoltava questa canzone?

E io? Perché l'ho fatta partire? Cosa succederà adesso? E cosa volevo dire? Non lo so neanch'io.

«Come fai a conoscere questa vecchia canzone?» mi chiede.

Ovviamente non rispondo.

Ma vorrei chiedergli qualcosa. Vorrei provare. Provare ad avere un contatto. Qualcosa. Non so cosa.

Ho paura.

«Quante cose sa Ivan di me?»

Di nuovo, non rispondo.

Mi giro.

Lo guardo.

Mi sembra di sprofondare nel materasso.

«Cosa vuoi dirmi?» mi chiede.

Non lo so.

Prendo il cellulare.

Non lo so.

Mi tremano le mani.

Non lo so. Non lo so. 

Ho aperto l'applicazione delle note di testo.

Mio padre resta in silenzio. Sento il suo respiro nel vuoto della stanza.

Digitare le parole sullo schermo è una delle cose più difficili che abbia mai fatto in vita mia. E ci impiego circa dieci minuti, perché mi tremano e mi sudano le mani.

Gli do il cellulare, e mi giro di spalle, di nuovo, perché non ho il coraggio di guardarlo.

Ho il fiato corto. Respira, Michele, respira. Respira a fondo.

Ti manca? avevo scritto.

«Sempre» mi risponde in un sussurro.

Sento una mano sulla spalla. 

Anche il suo respiro è affaticato. 

La sua mano è calda. Non riesco a muovermi. Forse dovrei prendergliela. Accarezzarla. Toccarla. Qualcosa.

Non ci riesco.

«Puoi tenere il cellulare, se vuoi ascoltare altra musica» sussurra.

Esce dalla stanza.

Domani. 

Domani ascolterò qualche altra canzone.

——

Note note note

Ritorna Shine on, you crazy diamond. Vi ricordate la prima volta in cui era apparsa questa canzone? Era il capitolo 46 (Cosa voglio da Ivan) in cui Vanja la consiglia a Misha e gli racconta la storia del "diamante pazzo" originale, Syd Barret, il primo cantante dei Pink Floyd che ha lasciato il gruppo per problemi di schizofrenia. E poi Michele la ascolta per la prima volta nel capitolo 49 (Abitudini) e si perde nei suoni e nel testo, immedesimandovisi sin troppo. Vi riporto un passaggio di quel capitolo, perché è passato molto tempo da quando l'ho pubblicato e suppongo non lo ricordi più quasi nessuno:

[Estratto del cap. 49] Now there's a look in your eyes, like black holes in the sky. È un'immagine terrificante. Forse per semplice assonanza, mi torna in mente la canzone russa che mi aveva cantato Ivan: occhi neri. Ora quegli occhi li immagino così: come buchi neri nel cielo. Sono i miei occhi, due voragini nel mio viso. [...]

Come vedete mi piace piantare parecchi semi lungo i capitoli. E se volete ascoltarla, vi lascio anche un video con la canzone (parti I-V).

https://youtu.be/54W8kktFE_o

E insomma, Michele finalmente è in cura da un professionista, ma fatica a comunicare, e non solo con lui. Ma c'è speranza: Ivan trova un modo per mandargli un messaggio, e alla fine c'è un contatto tra Michele e Nic. Che ne pensate, è un buon segno?

Una piccola nota sulla cura antidepressiva farmacologica di Michele: mi sono documentata molto sull'argomento, e sono stata tentata di entrare più nel dettaglio e usare veri riferimenti a farmaci e posologie che vengono prescritti per la cura della depressione. Poi però ho pensato che non sono un medico, non sono uno psichiatra e non ho una vera conoscenza approfondita e specialistica sull'argomento. Ho preferito quindi lasciare solo dei riferimenti vaghi. Dal punto di vista narrativo tutto è perfettamente chiaro e verosimile, e non rischio di dare dettagli medici che possono essere errati, fuorvianti se non persino pericolosi. Spero apprezzerete la mia scelta.

Seconda nota, settembre 2024: dopo lunghissime riflessioni durate quasi un anno, ho deciso di cambiare la terapia di Michele e NON fargli prendere psicofarmaci. Non sono contraria al loro uso tout court, ma sono convinta che sia sin troppo facile finire per abusarne. Non voglio correre nemmeno il più vago rischio di suggestionare qualcuno suggerendo che siano un farmaco che si possa iniziare e smettere alla leggera, perciò ho scelto di far percorrere a Michele un percorso psicoterapeutico cognitivo-comportamentale secondo l'approccio di Aaron Beck. Mi sono documentata per mesi per riscrivere questa parte e spero di aver fatto un buon lavoro.

A proposito del titolo, sapete cosa sono i buchi neri? Sono dei corpi celesti con un campo gravitazionale talmente grande che non lascia sfuggire niente, nemmeno la luce. È formato dalla massa di miliardi di miliardi di stelle... dite che se accendete abbastanza stelline in cima al capitolo riusciamo a creare un buco nero e risucchiare tutto Wattpad?

Ci rileggiamo venerdì, per il terzo capitolo di questa settimana!

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