116. Da solo nel buco
«Misha, apri, ti prego. Sono venuto qui apposta per te!»
Sono chiuso in bagno da forse mezz'ora. Seduto a terra in mutande e maglietta della salute. Dovrei lavarmi. Ma non ne ho la forza.
Mi sono guardato allo specchio, prima. Ho la barba lunga uno o due centimetri (e non è vero che mi sta bene), i capelli unti e ingarbugliati. Mi hanno lavato, in queste settimane, Daniele e papà. Un paio di volte. Mi hanno trascinato fino alla vasca da bagno e mi ci hanno messo dentro. Ho avuto l'istinto di protestare, di fare resistenza, ma a che pro? Li ho lasciati fare.
Però non è stato sufficiente. Sono sporco. Le mie ascelle puzzano di sudore. Ho qualche brufolo sul viso. E sono anche un po' ingrassato. Ho alzato la maglietta e ho visto che mi sono allargato un po' in vita. Non so come sia possibile, considerando che mangio poco e male.
Non voglio che Ivan mi veda così.
«Misha, non mi saluti? Dai, non essere maleducato!»
Ogni tanto Ivan dice qualcosa. Cerca di essere simpatico. Ma anche se uscissi, non credo troverei la forza né il coraggio di parlare.
«Misha... ti prego... fallo per me. Vieni fuori. Voglio vederti.»
Fallo per me. Non l'aveva ancora mai detto.
Fallo per me.
Prendo un respiro.
Va bene. Se non riesco a farlo per me, lo farò per lui.
Mi laverò.
Per prima cosa i denti.
Mi passo la lingua sugli incisivi. Sono ricoperti da una patina disgustosa.
Distribuisco il dentifricio sullo spazzolino, che ho sciacquato bene, e comincio.
È una sensazione familiare. Mi dà piacere.
Mi rendo conto che mi mancava.
Perché ho smesso di farlo?
«Si sta lavando i denti» sento mormorare fuori dalla porta.
«È un buon segno.» Era mio padre, questo?
Mi prendo tutto il tempo che mi serve, e anche di più. Con la barba lunga è un po' più complicato, ho i baffi tutti bianchi di dentifricio. Tre passate. Filo interdentale. Uso anche lo specillo per togliere la placca dagli interstizi e dai colletti gengivali.
Puliti. Finalmente.
Ora posso lavare il mio corpo.
Sotto la doccia. Acqua caldissima. Strofino tutta la mia pelle con un asciugamano bagnato, grattando via strati e strati di pelle morta.
Mi lavo le ascelle tre volte. Mi faccio tre volte lo sciampo. Lo faccio una volta anche alla barba. Non so come si lava la barba lunga, non ho mai avuto la barba lunga. Ma non l'ho mai lavata, chissà com'è sporca, credo lo sciampo possa andare.
Quando esco, mi sembra di respirare per la prima volta da... quanto tempo sono stato qui? Un mese? Due mesi? È già finito l'anno?
Vorrei radermi. Ma non so come si rade la barba lunga. Dovrei usare delle forbici per accorciarla, forse, non posso passarci subito il rasoio, si impiglierebbe. Alla barba ci penserò dopo.
Esco dalla stanza in accappatoio.
Ivan mi sorride. «Misha, finalmente!»
Ci sono ancora mio padre e Anna, che guardano la scena in silenzio, un po' in disparte.
Per un attimo vorrei sorridere anch'io, ma non ho la forza di farlo.
Ma una cosa riesco a farla. Guardare Ivan negli occhi. Ti ho sentito Ivan. Ti ho sentito.
«Domani devo già partire, vado a Londra. Alle Finals.» Esita. «Vuoi venire anche tu?»
Non mi sono allenato. E non ho voglia di giocare.
«Scusa, era una battuta scema» dice subito lui con un sorrisetto.
Quindi è fine ottobre. Le Finals. Sono ancora il numero uno del mondo? Non mi interessa. Non voglio più giocare a tennis.
«Ho difeso Bercy, sai? Ho giocato pensando a te.» Fa una smorfia. «Scusa, ti rompo. Vuoi cambiarti? Ti lasciamo solo?»
Non rispondo. Vado all'armadio e prendo dei vestiti puliti.
Vado in bagno a cambiarmi, mi vergogno che mi veda nudo e si accorga che sono ingrassato. Se ci fossero solo Anna e mio padre non mi interesserebbe, invece.
Ho fame.
Esco dalla stanza, intenzionato a dire questa frase.
Apro la bocca.
Ma non riesco. Mi si bloccano le parole in gola.
Allora metto una mano sulla pancia, per farmi capire.
«Hai fame?» mi chiede Ivan.
Annuisco.
«Posso preparare qualcosa» dice papà. Sta sorridendo. Sembra quasi commosso.
Scuoto la testa.
Non mi fido di mio padre. Non voglio che metta farmaci nel mio cibo.
La mamma è morta, nonostante i farmaci. O forse è morta proprio per colpa dei farmaci.
«Vuoi che ti preparo qualcosa io?» suggerisce Ivan.
Trovo la forza di annuire. Di Ivan mi fido.
Andiamo di sotto.
In sala da pranzo, seduto al tavolo già in parte imbandito, c'è Daniele. «C'è riuscito. lo sapevo che ci riusciva» lo sento sussurrare.
E con Daniele ci sono anche Maria con la bambina in braccio.
La bambina che si chiama come mia madre.
Da quanto tempo si trovano qui? Non me n'ero accorto.
Mi guarda. Quella stupida bambina mi guarda. È un'altra persona. L'ultima volta che l'ho vista aveva ancora quel tipico aspetto unisex da infante cicciottello, senza capelli, senza denti. Ora si vede che è una bambina. Indossa un vestitino rosso con la gonna, ha un caschetto di ricciolini castani, dei dentini da latte che le spuntano dalla minuscola bocca e due occhioni scuri, che mi guardano, mi fissano. Sembra spaventata.
«Di' ciao allo zio» la esorta Maria.
La bambina si gira verso la madre e nasconde il viso sul suo petto.
«Ma che timidona che sei» scherza Maria.
La bambina fa un piccolo gemito acuto, forse dice una parola, non la capisco.
Mi rendo conto che la sto ancora fissando.
Distolgo lo sguardo e vado a sedermi al tavolo.
Ivan era già andato di là, in cucina. Lo vedo dalla porta aperta. «Che bello, avete una specie di samovar!» esclama. Cosa sta dicendo? Cos'è un samovar? «Ti faccio un cibo completo. Protein, carbo... Hai carne? Pesce? Cosa c'è in refrigeratore?»
Mio padre va in cucina e gli dà una mano. Spero che non metta niente di strano nel cibo. Ma Ivan non glielo lascerebbe fare. Lo so. Mi fido di lui.
Ivan prepara un pasto orrendo: una bistecca troppo cotta, un misto di verdure surgelate ripassato in padella (fagiolini, carote e altra roba che non distinguo) e della pasta. Della pasta in bianco con un filo d'olio sopra che mette a fianco alla bistecca vicino alle verdure come se fosse un altro contorno.
Per giunta la pasta è scotta.
Ma ho tanta fame. E il fatto che l'abbia preparata Ivan mi fa sembrare buonissima questa cena orribile. Mi scalda internamente. Mi fa stare bene.
Sono le prime sensazioni positive che provo da... non ricordo più quanto.
Sono le prime sensazioni, punto.
E sono talmente instabile che mi viene da piangere.
Piango con la bocca piena, con papà, Anna, Daniele, Maria e quella stupida bambina che mi guardano. Perché stanno qui? Andate via!
Per fortuna che c'è Ivan. Anche Ivan mi guarda. Fa passare le altre persone in secondo piano.
Piango e sputo qualche pezzo di pasta. Mi nascondo il viso tra le mani perché mi vergogno, di non essere più nemmeno in grado di mangiare, di avere la barba probabilmente tutta unta, di non riuscire a parlare.
Sento una mano sul braccio. «Misha, posso abbracciarti?»
Annuisco, perché nonostante la vergogna, ne ho bisogno.
Si avvicina a me, mi stringe. Non ho la forza di stringerlo anch'io. Mi sento ancora instupidito, poco reattivo, incapace di comunicare quello che penso e quello che sento.
Percepisco, molto distante, che Anna dice agli altri di lasciarci soli, e quando Ivan smette di abbracciarmi, riapro gli occhi e vedo che siamo davvero finalmente soli.
Ivan mi asciuga le lacrime con la manica della sua felpa, poi mi porge un tovagliolino di carta. Mi ci soffio il naso.
«Misha, adesso ascoltami.» Mi parla quasi sottovoce, in tono calmo. «Tu sei depresso. Sai cosa vuol dire?»
Non lo so di preciso. Non annuisco ma non scuoto nemmeno la testa. Significa che sono triste? Che sto male?
«È un problema brutto. Non puoi venire fuori da solo, adesso.»
No. Questo lo capisco anch'io.
«Devi mettere il problema a posto e non puoi mettere a posto da solo. Tuo papa mi dice che non vuoi curarti con il psichiatrista.»
Scuoto la testa. Non mi piace lo psichiatra. Anche la mamma era stata in cura da uno psichiatra e poi si è tolta la vita, a lei non è servito a niente.
«Sei dentro un buco, adesso, e non ce la fai di uscire.»
Sì. È vero, Ivan, hai usato proprio le parole giuste. Sono dentro un buco. Ma sto alzando la testa.
«Misha, io voglio di nuovo parlare con te. Tu non vuoi parlare con me?»
Non so se voglio qualcosa. Non voglio niente.
O forse sì. Forse vorrei. Vorrei volere qualcosa.
«Parla con il psichiatrista, Misha. Lui ha studiato il tuo problema, lui sa di come aiutarti. Non devi avere paura. Parlare è la cosa più importante. Psicologo, shrink, psichiatrista. Ti fai aiutare.»
Parlare. Mi sembra impossibile riuscirci. Ma il motivo per cui non volevo parlare con lo psichiatrista non era la paura, ma un misto di insostenibile fatica e sensazione di inutilità.
Però potrei provare a farlo, questo sì. E poi vediamo cosa mi dice, questo psichiatrista.
Mi sorprendo ad annuire debolmente.
Ivan mi sorride. «E non ti aiuta solo il dottore. Ti aiuto anche io, Annushka, tuo papa. Non sei solo, Misha.»
No, non è vero che non sono solo. Dentro questo buco ci sono solo io. Da solo.
E anche se la testa l'ho alzata, la semplice idea di dover cominciare a scalare mi fa stare male.
——
Note note note ♫
I problemi di Michele sono molto seri, Ivan prova ad aiutarlo, ma non basterà Ivan e non basteranno nemmeno gli antidepressivi a tirarlo fuori dal buco. Secondo voi cosa potrebbe aiutarlo?
La settimana scorsa non vi ho chiesto le stelline, perché non me la sono sentita, visto il tono del capitolo. Ed era il giorno dell'Epifania, mi sono bruciata una bellissima occasione di sfruttare la stella cometa! Che ne dite, mi lasciate stelline doppie, stavolta, per rimediare al l'occasione sprecata?
Grazie di seguire ancora il povero Misha nel suo percorso di crescita e guarigione, ricordate che questa settimana pubblicherò tre capitoli, quindi ci rileggiamo già mercoledì!
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