110. Laver Cup
Ormai vincere è diventata una routine.
Toronto, Cincinnati e gli US Open. Back to back. Diciotto incontri. Diciotto vittorie di fila, con solo una misera settimana di pausa dopo Cincinnati.
In realtà il mio strike vincente ammonta addirittura a ventisei, perché comprende anche tutte le partite di Wimbledon (e poi non ho più giocato, perché ho saltato Washington). Non è un record (lo detiene da più di trent'anni Guillermo Vilas, con quarantasei vittorie), ma è comunque un risultato straordinario.
Ho vinto due Master mille e uno Slam. Il mio terzo Slam. Me ne manca uno per fare il career slam. A ventun anni.
E sono state le cinque settimane più brutte della mia vita.
Giornate senza equilibrio, in cui sono ripetutamente passato dalla furia agonistica più devastante, a un'apatia che quasi mi impediva di alzarmi dal letto. Sbalzi di umore che mi sorprendevano nello spazio di pochi minuti. Giocavo un incontro, lo vincevo sei zero, sei uno, lottando ogni punto come se da quel punto dipendesse la mia stessa vita, e appena l'arbitro annunciava il mio nome, tutta la tensione si scioglieva nel nulla, lasciandomi in bocca solo un sapore amaro, un'insoddisfazione profonda.
Alcune mattine mi svegliavo, e all'idea di dover prendere una racchetta in mano mi veniva da vomitare. Letteralmente. Ho vomitato più di una volta, la bile acida del digiuno notturno.
Ho avuto anche qualche ricaduta nel mio problema a controllarmi col cibo. Mi sono strafogato ordinando pasti aggiuntivi in camera: mi sentivo giù e avevo voglia di consolarmi con dei dolci. Sono sempre solo e nessuno mi controlla. Sono stato male, mangiando troppo, ma la prospettiva di stare male non mi ha frenato dal ripetere l'errore un paio di volte. Per fortuna Anna se n'è accorta dai conti dell'hotel, me ne ha parlato e abbiamo deciso di bloccare la mia possibilità di chiamare il servizio in camera, per evitare che possa fare altre sciocchezze in momenti di apatia. I frigobar sono già sempre vuoti, da secoli. E di uscire per andare al ristorante da solo non me la sento. Non ne ho la forza.
Anna, mio padre e persino Ivan, che non vedo quasi mai e sento solo al telefono, sono preoccupati per me. Me l'hanno detto esplicitamente, ma io ho sempre cercato di minimizzare dicendo loro che non ho niente e sono solo un po' stressato. In un certo senso è vero, e delle due cose che mi stanno facendo stare male – il matrimonio di Ivan e la morte della mamma – non voglio o non riesco a parlare con nessuno.
Anna, dopo avermi beccato a mangiare di nascosto, ha cercato di convincermi a parlare con uno psichiatra o uno psicologo. Io mi sono rifiutato. Non voglio psicofarmaci e non voglio parlare dei fatti miei con uno sconosciuto. E per quanto riguarda il problema col cibo, non è un vero problema, è solo un mix di tristezza e stress. Se fosse un vero problema, non sarebbe svanito con una soluzione così sciocca come impedirmi di chiamare il servizio in camera; avrei trovato altri modi per aggirarlo, ma non l'ho fatto. Non ne ho alcuna voglia.
Vorrei solo sapere perché la mamma mi ha abbandonato.
Di questo ho provato a parlarne con una persona, con l'unica con cui avrebbe senso parlarne: mio padre.
Ci ho provato, davvero, con tutte le mie forze.
Ma al momento di far uscire la domanda dalle mie labbra, la bocca si inceppava in maniera irreparabile. Non riuscivo ad andare al di là della prima sillaba, e se ci riuscivo, era il mio respiro a strozzarsi in gola. «Michele, vorrei aiutarti» mi ha detto mio padre, al mio ennesimo tentativo. «Scrivimi. Scrivi qui quello che vuoi dirmi.» Un gesto incredibile da parte sua, che è sempre stato profondamente contrario a questa scorciatoia.
Ho preso il cellulare, ma le mani mi tremavano al punto da impedirmi di stringerlo. È scivolato a terra. Allora mio padre mi ha dato una penna e un foglio, ma appena ho appoggiato la punta sulla carta, sono riuscito solo a tracciare linee tremanti, incidendola e strappandola.
«Riguarda la mamma, vero?» mi ha chiesto papà.
Appena l'ha nominata, mi è successa una cosa strana. Sono svenuto, più o meno. Il cuore mi è andato in tachicardia, l'udito si è ovattato, faticavo a respirare. Mi era già successo qualcosa di simile, in passato, in situazioni di forte stress, ma mai con una tale intensità. Mi sembrava quasi di morire.
Dopo quell'episodio né io né lui abbiamo più toccato l'argomento mamma.
Dopo la vittoria agli US Open, sono stato costretto a partecipare a un numero spropositato di interviste e comparsate televisive in canali statunitensi. Avrei voluto rifiutare, ma l'agenzia mi ha costretto minacciandomi di rescindere il contratto, e Anna ha cercato di convincermi che almeno qualche comparsata era giusto che la facessi. «Dopo Wimbledon hai fatto praticamente due mesi di silenzio stampa, devi recuperare un po'» mi ha spiegato. «Purtroppo hai degli obblighi contrattuali.»
Ma non è stata solo qualche comparsata. È stato un braccio di ferro tra lei e l'agenzia e alla fine l'ha avuta vinta l'agenzia. Ne avrò fatte una ventina, di comparsate, spalmate nell'arco di due soli giorni: ne finiva una e ne iniziava un'altra, senza soluzione di continuità. Nei miei ricordi formano una matassa indistinta di facce di plastica e domande noiose.
Solo una di queste interviste si è distinta, un po' in negativo, un po' in positivo. È un'intervista che ho dato in compagnia di Anna e Andrej, in un morning show della Costa Est. Hanno invitato anche loro due perché trovavano interessante la storia di Anna: volevano sapere i trascorsi tra di noi e cosa significa essere la manager di un campione Slam e allo stesso tempo la fidanzata di un altro campione Slam. «È una storia davvero intrigante!» è stato il commento con cui ci ha accolto l'intervistatrice, poco prima dell'inizio della diretta.
Dopo le domande di rito a me e qualche commento di Anna sul suo lavoro e sulle nostre reciproche incomprensioni, l'intervistatrice ha fatto una domanda ad Andrej. «La tua è una storia difficile, di grande coraggio» gli ha detto la donna (nemmeno ricordo il suo nome e poco la sua faccia, solo che era bionda). «Sappiamo che hai perso le gambe in un incidente a sedici anni.»
Andrej è partito subito a raccontare una delle sue storie assurde, su come da ragazzino amasse arrampicarsi sulle gru, e di aver perso le gambe cadendo da venti metri d'altezza.
Ma l'intervistatrice ha preso sul serio la risposta assurda, deve aver pensato che Andrej stesse semplicemente raccontando una frottola e gli e ha ribattuto in tono serio: «Mi risultava fosse un incidente d'auto, in cui ha anche perso la vita un'altra persona, non ce ne vuoi parlare?»
Non ho mai visto Andrej in difficoltà, ma l'espressione che ha fatto dopo quelle parole... Mi ha stretto il cuore. Per un attimo mi è sembrato un bambino a cui un adulto cattivo aveva appena tirato un violento schiaffo.
E qui è entrata in scena Anna, salvando la situazione. «No, ha letto male» ha ribattuto prontamente. «Era un incidente in macchina, sì, ma era una macchina di Formula Uno.»
L'intervistatrice è rimasta per qualche secondo interdetta, con un sorrisetto incredulo in volto, e Anna ne ha approfittato per continuare. «Era uno scapestrato! Ha fatto una scommessa coi suoi amici, è entrato di nascosto di notte nelle scuderie del Gran Premio di Russia, ha rubato una Ferrari e si è schiantato sui teloni.»
«A sedici anni?» ha chiesto l'intervistatrice, poco convinta.
Anna ha annuito gravemente. «Sedici anni. Scapestrato.» Reckless.
L'espressione di Andrej era impareggiabile. Rideva sotto i baffi, ammirando Anna con uno sguardo di una dolcezza infinita, così strano sul suo volto sempre così duro.
L'intervistatrice per fortuna non ha insistito.
Quando poi la diretta è finita, Anna ha litigato con tutta la redazione televisiva. «Avevamo concordato niente domande sull'incidente! Stronzi!»
In taxi verso l'hotel, Andrej l'ha tenuta per mano per tutto il tempo. A un certo punto, nel silenzio del viaggio, ha detto, senza un motivo apparente, all'improvviso: «I love you so much, Annushka.» E la sua voce sembrava quasi commossa.
Non abbiamo più parlato dell'episodio, non so nulla dell'incidente di Andrej, e non ho voluto saperne niente. Rispetto la sua decisione di voler riscrivere la propria storia e non voler parlare di quell'episodio tragico.
L'intervista mi ha dato emozioni contrastanti. È stato bello vedere Anna difendere Andrej. Il loro palese amore, però, mi ha fatto anche stare male, mi ha fatto sentire ancora più vuoto e apatico, nella mia incapacità di provare questi sentimenti.
Per tutti questi motivi, stanchezza, apatia, inadeguatezza, sbalzi d'umore, non volevo venire a Ginevra. Volevo disdire la mia partecipazione alla Laver Cup.
Mi ci hanno praticamente trascinato, fisicamente trascinato. Anna è convinta che mi farà bene, perché è una competizione divertente e c'è una bella atmosfera.
Io non voglio vedere Ivan.
C'è anche Daria. Non voglio vederli insieme. Si sposano. Tra un mese e mezzo si sposano, e dopo il matrimonio nella mia testa c'è il nulla, un vuoto vertiginoso. Lo so che non riguarda me e non dovrebbe interessarmi, ma il futuro è un buco nero.
Ivan mi dà il benvenuto con un abbraccio e dei capelli blu, un blu scuro e intenso. «Hai visto?» mi dice. «Ho fatto i capelli colore Europa!» In effetti è la stessa tonalità delle divise, e mi strappa un sorriso. Mi sembrava quasi di aver dimenticato come si fa a sorridere.
Anche Straussler è molto caloroso nel salutarmi, e sembra felicissimo dell'evento e della squadra. Oltre a lui, a me e Ivan, ci sono anche Molina, Iraklidis e Thaler, e Serrano Martin come riserva. Siamo il numero uno, tre, quattro, cinque, sette e nove del mondo. Non vedo possibilità per la squadra del resto del mondo che ha Ivory (dodici) come giocatore più alto in classifica. Kotzias lo convocano solo per lo spirito di squadra, Glushakov perché quando è in giornata potrebbe battere quasi chiunque, peccato però che non sia quasi mai in giornata. Jeff Stock è specialista di doppio. Ford è decente in tutto e mediocre in tutto. Vinceremo noi, e anche la prospettiva di questa vittoria facile mi deprime. È solo una farsa. Un'esibizione fine a sé stessa.
Dobbiamo vestirci eleganti per le foto di presentazione. Ci sono schermaglie e prese in giro tra le due squadre, e anche all'interno delle squadre stesse. Sorrido ai fotografi. Selfie di gruppo, lo scatta Iraklidis: «Perché ho le braccia lunghe.» Le ho lunghe anch'io, sono alto come lui. Ma non dico niente. Ivan mi sta sempre vicino. È così contento ed emozionato. Ricordo una frase di Raffaele: quando Ivan vince è talmente felice che ti contagia. Ma oggi non riesco a farmi contagiare.
La sera c'è una cerimonia. C'è un palcoscenico, esce un giocatore alla volta, che presenta il giocatore della propria squadra che è classificato prima di lui. Io per fortuna sono l'ultimo. Il numero uno. Il più in alto. Quindi non devo presentare nessuno. Ma Robert Straussler mi dice, pochi minuti prima di uscire sul palco, che sarebbe bello se chiudessi il giro e presentassi Ivan che è il numero nove (quindi il primo a uscire).
«Pensavo lo presentasse Serrano», dico a Robert.
«È più bello se lo presenti tu, che sei il suo rivale numero uno e sei anche suo amico. Le storie di rivalità e amicizia sono sempre molto emozionanti. Come per me e Rico!»
Ho paura. Cosa posso dire di lui?
«C'è l'interprete di lingua dei segni» aggiunge Robert per esortarmi. «Dai, vai. Deciso!»
Deciso? Come sarebbe a dire "deciso"? Non mi lascia possibilità di ribattere.
Esce sul palco lui. Presenta Rico Molina. Il suo rivale di una vita. Una di quelle rivalità leggendarie, che fanno sognare una generazione. Che belle parole, che dice. E quanto parla! Sembra sincero, non sembrano parole di circostanza. Non sono amici come lo siamo io e Ivan, ma c'è un tale rispetto, tra di loro, e una sintonia incredibile. Sembrano fatti l'uno per essere il rivale dell'altro.
Ora è il turno di Rico, che presenta me, parla soprattutto delle mie qualità di gioco, della mia precocità. Il futuro del tennis, dice.
«Michele Bressan!»
Applausi. Esco. Ho i riflettori puntati addosso. C'è pubblico, in questo teatro, ma non vedo nulla oltre al palco, solo buio. I riflettori mi accecano.
Sono solo.
E comincio un discorso che non avevo preparato.
«All'inizio lo odiavo.» Dico, coi segni. «Lo odiavo perché non lo capivo, perché non riuscivo ad accettare che mi battesse col suo tennis totalmente fuori dagli schemi. Gioca a casaccio, dicevo, mi batte solo perché mi fa innervosire. Ci ho messo un po' a capire che il motivo per cui mi batteva è che è un genio. Tatticamente imprevedibile, tecnicamente incomprensibile.» A ogni frase attendo con pazienza che l'interprete traduca. «E conoscendolo come rivale, parallelamente, l'ho conosciuto anche come amico. Ho superato il mio odio per i suoi capelli demenziali. E...»
Fragole, cannella, carote giganti, pelle salmastra, capelli viola, San Pietroburgo, le sue dita al cioccolato nella mia bocca, dentro di me, sorrisi, scherzi, abbracci, un bacio, un bacio che non c'è mai stato. Un bacio che vorrei ma non riuscirò mai a dare.
«Non so cos'altro dire. Non sono bravo a fare discorsi. La persona che vi presento è il mio più grande rivale, e il mio più grande amico, e l'essere umano più straordinario che abbia mai conosciuto. Ivan Reshetnikov.»
Parte un applauso scrosciante, appena l'interprete pronuncia le ultime parole.
Forse ho esagerato. L'essere umano più straordinario. È un aggettivo troppo grande? No. Non lo è. È quello che penso. Ivan fa un inchino al pubblico, poi mi stringe, affiancandosi a me, non un vero abbraccio, una stretta laterale, che dura solo pochi secondi.
***
Ci sono due giornate di allenamento, prima della tre giorni di incontri. A turno palleggio con tutti, ovviamente anche con Ivan. Non ha ancora trovato un nuovo allenatore, dopo la morte di Raffaele, è qui solo col fisio e con il preparatore. E con Daria. Gli chiedo se ha cominciato a cercarlo, l'allenatore nuovo. «Sarà molto difficile sostituire Raf» mi risponde.
C'è Daria, a bordocampo, che ci osserva silenziosa.
Gli incontri sono già tutti quasi decisi. Ivan giocherà solo un singolare il primo giorno. Io giocherò il singolare il secondo e il terzo giorno. Gli avversari ancora non li sappiamo. Ogni giorno successivo le vittorie valgono un punto in più, quindi quelle del primo giorno sono meno importanti di quelle dell'ultimo.
Sono state anche già decise le coppie del doppio: Iraklidis-Straussler il primo giorno, Molina-Thaler il secondo e Molina-Straussler il terzo. Straussler ha cercato di convincermi a giocare il doppio con Molina il secondo giorno, ma io ho rifiutato: non mi sento a mio agio, nel doppio. Quindi Thaler è stato un ripiego.
Anche Ivan ha avuto da dire la sua, sulla questione doppio. «Fai giocare me e Misha il secondo giorno!» Ha chiesto a Straussler.
«Se non voglio giocare con Molina, tantomeno voglio giocare con te» ho risposto. «Poi mi influenzi coi tuoi colpi orribili e mi fai giocare male.» Hanno tutti riso, ma io ero serio.
«Alla presentazione hai detto che sono un giocatore geniale», ha puntualizzato Ivan.
«Geniale ma orribile. Meno ti vedo giocare meglio è.»
«Siete adorabili» ha chiosato Iraklidis, che era presente. «Prendetevi una stanza.»
***
Ci siamo, finalmente. Day one. Quattro incontri da un punto.
Nel diurno giocano Thaler contro Glushakov e Iraklidis contro Ford. Nel serale, Iraklidis-Straussler contro Glushakov-Sock e per finire in bellezza Ivan contro Sock.
Thaler batte facilmente Glushakov, in una bella gara di rovesci a una mano, mentre incredibilmente a Iraklidis tremano le gambe e si fa battere da Ford in tre. La sera, per fortuna, si riscatta nel doppio con Straussler, e arriva infine il turno di Ivan.
Mentre il doppio di Straussler e Iraklidis è alle battute finali, vado in palestra, dove Ivan si sta scaldando, per dargli qualche parola di incoraggiamento: l'ho visto molto teso, oggi pomeriggio.
Lo trovo che fa delle ripetizioni con gli elastici, con l'aiuto del preparatore.
«Quanto manca?» Mi chiede.
«Q-q-quasi finita, stanno per cominciare il t-t-tie-break decisivo. Come stai?»
«Mi sto cagando sotto» dice.
«Eddai, è solo un'esibizione.»
«No! È gioco di squadra! E io non sono abituato! Troppa responsibilità! Non ho mai giocato Davis Cup!»
Le sue parole mi colpiscono molto, perché non ci avevo pensato. Ivan, nonostante sia il giocatore russo col ranking più alto, e nonostante lo sia da parecchio tempo, non è mai stato convocato in Coppa Davis. Ogni volta adducevano una scusa diversa, ma è evidente che la causa fosse sempre la stessa: la sua aperta bisessualità.
Ivan non ha mai giocato per una squadra, e adesso sente la pressione di dover vincere per qualcun altro, oltre che per se stesso.
«Torna fuori e fai il tifo» dice, cupo. «Non va bene che stai qua con me mentre gli altri giocano punti decisivi.»
Obbedisco. Ho l'impressione che voglia stare da solo.
Iraklidis e Straussler vincono, e l'esultanza di gruppo è molto bella. Molina, soprattutto, sembra tenerci tantissimo, esulta come quando è lui stesso a giocare, nessuna differenza, lo stesso fuoco, la stessa passione. Mi piacerebbe riuscire a farmi coinvolgere così, ma mi sento estraneo alla bolla di entusiasmo che sembra avvolgere tutti.
È il turno di Ivan.
Saltella molto, mentre l'arbitro dà le istruzioni ai due giocatori. Stock non vince una partita da più di un anno, ma è stato un ottimo giocatore, in passato, e il fatto di essere stra-favorito potrebbe essere un punto a sfavore di Ivan, potrebbe mettergli ancora più pressione, la pressione di non dover fare una figuraccia.
E la pressione si vede subito. Ha scelto di servire, cosa insolita per lui, che quando vince il sorteggio sceglie quasi sempre di ricevere. Probabilmente l'ha fatto per evitare il rischio di ricevere per il set sul 4-5. Sentiva di essere teso.
Peccato che sia stata una premura inutile. Si fa fare break al primo game. A zero. Non l'ho mai visto tanto contratto, ha colpito tutto pianissimo e Stock ne ha approfittato subito, chiudendo rapidamente i punti col suo orrendo dritto full western.
Sul servizio di Stock Ivan riesce a fare due punti, ma per errori gratuiti dell'altro, non per merito suo.
E nel game successivo, confusione totale. Spinge a casaccio tentando battaglie da fondocampo che sono aliene al gioco di Ivan, tipicamente fatto di angoli e piazzamento. Ma perché lo fa? Sono seduto accanto a Molina, che scuote la testa. «Tensione, tensione» mi dice, in italiano. «Deve mettere a posto la cabeza!» Si batte la tempia con un dito.
«Sta giocando all'opposto di come g-g-gioca di solito» commento.
Sull'ultimo punto, sotto zero quaranta, Ivan fa il disastro peggiore. Capendo, forse, che gli scambi da fondocampo non funzionano, improvvisa un dropshot senza senso quando non dovrebbe, con Sock troppo vicino alla rete. Per giunta lo gioca altissimo, praticamente una palla alzata per invitare Sock a chiudere, che lo fa con facilità.
E anche questo game finisce con un break.
Zero a tre pesante.
Molina e Thaler scattano in piedi appena l'arbitro annuncia il gioco. Li seguo. Molina incoraggia Ivan con parole ferme, battendo le mani per sottolineare le frasi: «Non farti invischiare dal suo gioco! Dai! Tranquillo! Hai tutte le armi per batterlo!» Bjorn Borg, il capitano, resta come sempre in silenzio e annuisce. Non capisco se non sappia cosa dire, o se sia una precisa strategia, quella di lasciar parlare sempre Molina e Straussler, che con le loro personalità carismatiche guidano perfettamente gli altri membri della squadra.
L'arbitro chiama il tempo, do una pacca sulla spalla a Ivan e noto che ha i muscoli troppo duri, contrattissimi. Ci credo che sta giocando male!
Quando torniamo a sederci, è già tornato Straussler dagli spogliatoi, coi capelli ancora umidi di doccia. È stato velocissimo, Iraklidis è ancora a lavarsi. «Cosa sta succedendo?» Ci chiede. Molina gli spiega la situazione. «Il ragazzo è troppo teso» è la conclusione del suo discorso.
«Sembra un soldato» dico. «Si sta sforzando di fare un gioco da fondocampista che non gli appartiene. Lui non è capace di giocare così. L'unico modo in cui può uscirne è trovare la chiave per divertirsi.»
Straussler socchiude gli occhi. «Anche divertirsi troppo è un rischio. Poi rischi di fare il Kotzias di turno e buttare partite vinte per il gusto dello spettacolo.»
Scuoto la testa. «No, voi non conoscete Ivan. Ha una psicologia diversa dalla nostra. Per lui divertirsi è fondamentale. Non ci riesce sempre, e l'ho visto vincere anche in situazioni in cui era teso e non si stava divertendo per niente, ma stasera, oggi, in una partita come questa, è l'unico modo in cui può uscirne. Lo conosco.»
«Mh...» Straussler annuisce, con le sopracciglia aggrottate. Non sembra convinto dalle mie parole.
«Stock è un giocatore che offre molta varietà, ha un buon tocco, scende spesso a rete, è bravo con le volée. Anche a Ivan piace giocare variato. Dovrebbe assecondare la varietà di Stock e lasciare spazio alla sua fantasia per inventarsi soluzioni ancora più varie. È una cosa che non consiglierei a nessun altro giocatore. Ma Ivan è un giocatore diverso.»
«Mh...» ora sono entrambi, sia Straussler che Molina, ad annuire con le sopracciglia aggrottate. Forse pensano che abbia detto qualcosa di stupido? Non sono d'accordo con me? Non riesco a capire cosa pensano.
«Perché non glielo dici?» mi suggerisce Straussler.
«Eh?»
«Sì. A me sembra che lui ti ascolti molto. Vai a dirglielo. Incoraggialo!» aggiunge.
«Ma... le telecamere riprendono tutto. Ci sono i microfoni. E io balbetto.»
«E allora?» Dice Molina, facendo spallucce e la sua tipica smorfia di menefreghismo: angoli della bocca abbassati e sopracciglio sinistro alzato. «Che problema c'è? Balbetti un po'. Ti deve capire Ivan, non le telecamere.»
«Puoi aiutarlo a ribaltare l'incontro» mi esorta Straussler.
Mi batte il cuore. Mi batte il cuore velocissimo. Mi sentiranno balbettare. Mi registreranno. È così imbarazzante!
L'ultima conferenza stampa in cui ho parlato con la mia voce c'era sempre Ivan, di mezzo. Stavo parlando di lui. Mi sono pentito di averlo fatto, quel video mi ha perseguitato, lo hanno trasmesso ovunque. Perché sono così ossessionati dalla mia voce, dal mio problema? Sembra quasi che ci godano, a vedere una persona in difficoltà.
Ma a Ivan potrebbe servire davvero. Posso aiutarlo.
Non devo pensare alle telecamere. Non devo pensare a chi mi ascolta da fuori.
Mi ascolta Ivan, è quello l'importante.
«Posso parlargli in italiano?» chiedo.
«Certo! Perché no? Io a Zadorov parlavo in tedesco, l'anno scorso» dice Straussler.
Annuisco. «Ok. Al cambio campo ci vado.»
Ivan, nel suo game di battuta, fa il suo primo punto sul proprio servizio. Il primo! Ma non riesce a farne altri e si fa breakkare di nuovo. È cinque a zero. Si farà fare un bagel, se non rimediamo subito a questo problema.
Sono già in piedi. Scatto verso di lui appena perde l'ultimo punto. Arrivo alla panchina prima di lui, e quando si accorge di me accelera il passo per tornare a sedersi.
«C-c-c-c-cosa sta-tai fa-fa-facendo?» potevo anche metterci qualche sillaba in più, dato che c'ero. Calma, Michele. Calmati. Ce la puoi fare. Pensa solo a Ivan, non alle telecamere.
«Sto giocando di merda» mi risponde lui.
«Siediti e b-bevi.»
Obbedisce. Mi chino sulla panchina, appoggiandomi coi gomiti allo schienale, e parlo. Lui mi ascolta di spalle, guarda il campo. «Non ti stai d-divertendo.»
«Per niente.»
«Stock è un giocatore d-d-divertente. No?»
«Mmh» mugugna.
«Non ti p-p-piacciono le sue volée? Goditi il suo g-gioco e rispondi di c-co-cooonseguenza!»
Si gira verso di me. «Cioè?»
«Trova la c-c-chiave per divertirti. Non p-p-pensare a vincere, per ora. Pensa a divertirti. E p-p-poi la vittoria aaaarriverà.»
Si morde un labbro. Annuisce. Ma è ancora serio, preoccupato.
«Non puoi fare il fondoc-c-campista alla Thaler! T-t-tu non sei Thaler! Dove sono i tuoi angoli p-p-pazzi? Dove sono i tuoi ooo.. orrendi c-c-chop a d-d-due mani?»
Ha un accenno di risatina. «I miei chop sono bellissimi!»
«Ne voglio vedere almeno uno nel p-p-prossimo game!»
«Time!» chiama l'arbitro.
Batto una mano sulla spalla di Ivan. È meno contratto di prima. «Dai! D-dai!» Batto le mani. «Forza!»
Corre verso il campo, mentre io torno da Straussler e Molina.
«Come è andata?» mi chiede Straussler.
Sospiro. «Vediamo.»
Mi risiedo, alla sinistra di Robert, che ora siede accanto a Rico. Alla mia sinistra c'è Thaler. Iraklidis è ancora fuori.
Serve Stock, per il set.
E sul primo punto già si vede qualcosa di diverso. Ivan comincia a spostarlo. Bravo! Stock è ingrassato, nell'ultimo anno, si vede che è un po' lento negli spostamenti laterali. Il primo scambio è già lunghissimo, e mi sembra di impazzire: vorrei essere lì in campo e risolverla io, ma da qui non posso fare nulla! Mi sento così impotente...
E alla fine il punto lo chiude Ivan, con un rovescio strettissimo.
Salto sulla sedia, letteralmente, gridando. È il primo vincente che fa. Il primo punto in cui detta lui il ritmo. Anche gli altri tre stanno applaudendo. «Let's go!» grida Thaler. «That's my boy!» grida Straussler.
Zero quindici.
È ancora teso. Ma si scioglierà.
Nel secondo punto fa ciò che gli ho chiesto: uno dei suoi orrendi chop a due mani. E funziona!
Applaudo e rido. «Gli ho detto io di farlo!»
Straussler ride. Ivan mi indica dal campo, sorridendo, appena il punto si chiude.
«Non so come li fa, quelli» commenta Thaler, ridacchiando.
«Sono orribili» commento io, facendo di nuovo ridere Straussler.
Il punto successivo lo fa Stock, con un ottimo serve and volley, ma Ivan attacca una seconda debole di Stock sul quindici trenta e ha due palle del controbreak.
La nostra panchina esplode di grida. «Come on!» «Let's go!» Straussler esibisce uno dei suoi: «Chum Jetze!»
Ce la può fare! Ci può riuscire!
Stock serve. Non mette la prima. È un po' teso anche lui, nonostante abbia un vantaggio di tre break. Ha percepito il cambiamento di Ivan, e ha paura.
E fa doppio fallo!
Non sta bene esultare sui doppi falli, ma non riesco a trattenermi. «Non avrei dovuto» dico, dopo aver gridato. «Oh, fuck off!» mi prende in giro Straussler, e mi dà una spintarella ridendo.
Ora serve Ivan. Può andare cinque a due! È ancora aperta, può clamorosamente rimontare e vincere questo set!
Ma non lo fa.
Il game se ne va velocissimo e perde il set. Che finale anticlimatico.
Gli stessi problemi di prima. È come se il controbreak non fosse mai avvenuto, come se avesse resettato il suo stato mentale e fosse tornato ai problemi di prima.
«Game, first set, Team World.»
Corro subito da lui, e mi seguono Molina, Strausller, Thaler, e anche Iraklidis appena tornato dagli spogliatoi.
«It's too much... too much!» si lamenta Ivan.
«Too much what?» gli chiede Straussler.
«Too much responsibility!» dice lui.
Mentre Straussler cerca di consolarlo, facendogli notare le cose buone che ha fatto nel primo set, io rifletto sulle parole che mi ha detto prima, in spogliatoio. Non sono abituato a giocare per una squadra.
Lui non ha mai giocato in Coppa Davis. Non sa com'è! Come posso aiutarlo a superare questo blocco?
E all'improvviso ho un'illuminazione.
«Doubles!» esclamo.
«What?» Ivan si gira a guardarmi.
Anche Straussler si stranisce. «Doubles what?» mi chiede.
«Tu adori il d-d-doppio! You love doubles!»
Ivan annuisce.
«Lo sai benissimo com'è giocare per qualcun altro! G-giochi sempre il doppio! Lo giochi appena puoi!»
Ivan annuisce ancora. Mi sta guardando. È serio. Ma c'è una luce nei suoi occhi.
«Ritrova q-quelle sensazioni! Ripensaci! Immagina tutto questo come una gigantesca partita di doppio, in cui noi siamo i tuoi compagni!»
Ivan spalanca lentamente la bocca, e lentamente la sua espressione si trasforma in un sorriso a bocca aperta. «Misha, sei un genio! Genius! This!» Si batte la fronte. «Adesso mi immagino per tutto il match che sto giocando il doppio con te.»
Ovviamente non ha capito.
«Non solo con me, c-c-con tutti noi!»
«E tra tutti noi c'è anche te.»
«Il p-punto è...»
«Ho capito il punto» mi interrompe. Ora è serio, guarda il campo, annuisce con decisione. «I'm gonna win this set.»
«Come on! That's the spirit!» dice Robert, applaudendo.
L'arbitro chiama «Time», Ivan torna in campo tra le nostre parole di incitamento.
Ce la farà. Lo so! Deve farcela!
Sono teso al punto che mi stanno venendo dei crampi allo stomaco.
Serve Stock per primo. È un game molto combattuto e Ivan sta giocando meglio, rispetto al primo set, ma si vede che è ancora un po' teso, fa un paio di gratuiti non da lui. Sul servizio di Ivan, invece, tutto va abbastanza liscio, e Ivan riesce a dettare gli scambi, scappando dal fango dei colpi centrali che lo ha soffocato nel primo set.
Sul terzo game Ivan ha la sua prima possibilità, la prima palla break.
Ma la fallisce. Stock scende a rete con un attacco non irresistibile, e Ivan cerca di passarlo una prima volta, Stock la riprende, e Ivan tira un secondo colpo potentissimo e angolato per passarlo definitivamente. Ma se c'è una cosa in cui Stock eccelle è il gioco di volo: riesce a riprendere la palla tesa di Ivan con una volée smorzata di puro riflesso.
Quaranta pari. E anche i due punti successivi, che chiudono il game, vanno abbastanza rapidamente a Stock.
Ivan viene verso la panchina con un'espressione furiosa in volto. Agita la mano verso la squadra e grida: «Coach! I need my coach!»
«Penso che stia parlando di te.» Straussler mi dà una spintarella per invitarmi ad alzarmi.
E corro da Ivan.
«Io non lo so come ha fatto a prendere quella volée!» si lagna.
«Non ti lamentare, non è q-questo l'atteggiamento giusto! Hai sbagliato colpo. Lo sai che Stock è bravo a rete. Perché hai cercato di p-passarlo? Dovevi fargli un lob, era molto vicino!»
Ivan annuisce e sospira.
«Non recriminare! Non p-pensare ai pu-puuunti persi. Continua a fare il tuo gioco. Divertiti.»
Ivan sorride.
«E ricordati che noi siamo i t-tuoi compagni di doppio. Ok?»
«Sì» dice lui. «Gioco un doppio bellissimo con Robert, Rico, Demetrios, Derek e Misha.»
«Bravo!» Gli do due pacche sulle spalle, proprio quando l'arbitro chiama «Time».
Lo vedo scattare verso il campo e torno al mio angolo. Si ricomincia.
Serve Ivan. Poi di nuovo Stock. Tengono entrambi il loro turno di battuta, ma Ivan gioca sempre meglio. I tipici scambi combattutissimi che sono diventati un punto caratteristico di tutti i suoi incontri. Mi tengono col fiato sospeso. Su un punto, persino, per scaricare la tensione in eccesso ho afferrato il ginocchio di Robert, senza rendermene conto. Gli ho chiesto scusa, lui ha riso commentando: «Non preoccuparti, ho fatto lo stesso con Rico, pochi minuti fa.»
Vado verso la panchina anche ai due cambi campo successivi, entrambe le volte in compagnia degli altri. Non gli dico nulla di diverso da prima, ed entrambe le volte sono anche Robert e Rico a incoraggiarlo con parole sagge e a dargli qualche consiglio tattico, che Ivan ascolta in silenzio, annuendo.
Sui prossimi due game, a partire dal quattro-cinque, Ivan servirà e riceverà dal nostro lato del campo. Sono due game critici, perché se Ivan serve male potrebbe perderla qui. Il nostro tifo, quindi, si fa sentire come non mai. Esultiamo a ogni punto vinto, ci strappiamo i capelli e facciamo il tifo a ogni punto perso, ma Ivan è bravissimo, tiene il suo servizio a trenta.
E sul turno di Stock arriva una nuova occasione per Ivan. Un'altra palla break. Singola.
«Dai, dai, dai...» mormoro.
Stock, anche stavolta, serve una seconda.
«Attaccala.» Lo fa. «Volée corta. A destra.» La fa. Ma Stock scatta e riesce a riprenderla. «La incrocia! Scatta!» Ivan capisce. Sta succedendo di nuovo. Ci leggiamo nel pensiero. Ivan scatta in anticipo, riprende a una mano la volée lunghissima di Stock, e con un tiro basso a rientrare, oltre al paletto, fa un punto straordinario.
Il palazzetto dello sport esplode, ed esplodiamo anche noi in panchina. «What the fuck!» esclama Iraklidis. «What has he done!» grida Robert, euforico, io intanto sto saltellando gridando e abbracciando qualcuno, chi è? Non mi sono neanche reso conto di chi fosse, ho solo sentito il bisogno di condividere l'esultanza, è Derek Thaler, che grida anche lui, mentre Rico sta spingendo il pugno avanti e indietro, basso sulle ginocchia, in un'esultanza che gli ho visto fare centinaia di volte nei suoi incontri, quando vince un punto particolarmente difficile.
Mollo Derek e corro verso la panchina, perché Ivan sta sbracciando verso di noi. Sento gli altri che mi seguono, ma stavolta sono solo io a parlare.
«Servo per il set» mi dice Ivan, con un'espressione tragica.
«Siediti e bevi» gli ordino. Lui lo fa. «Chiudi gli occhi. Respira. C-c-conta nella testa.» È la mia tecnica di rilassamento. Funzionerà anche con lui?
«Conto cosa?» mi chiede lui.
«Conta i numeri. Ras, dva, tri. A ogni respiro.»
«Che bravo, Misha, parli russo!»
«Zitto! Respira e conta!»
Lo fa. C'è silenzio. Anche gli altri, dietro di me, restano in silenzio.
Il tempo di pausa è quasi finito. «Ci siamo noi sul campo c-con te, ok? Io, Robert, Rico, Demetrios e Derek. Ok?»
«Sì» dice lui. Sempre a occhi chiusi. «La vinco.»
«Time!» chiama l'arbitro.
È il momento.
Serve per il set.
Torniamo all'angolo. Il cuore mi sta uscendo dalla bocca. Non sono mai stato tanto agitato guardando un incontro di tennis. A dire il vero, non ricordo di essere mai stato tanto agitato nemmeno giocando.
Non mette la prima.
«Respira. Conta» sussurro.
Lo vedo chiudere gli occhi e muovere piano la bocca. Sembra quasi abbia sentito il mio suggerimento.
Lancia la pallina.
E fa un ace.
«Ace di seconda!» esclamo. Tutto intorno un coro di «Come on!» e «Let's go!»
Stock allarga le braccia e fa un sorrisetto incredulo. Ottimo! È irritato!
Sul secondo servizio, dopo un breve scambio, Ivan si inventa un colpo sotto le gambe. È un colpo completamente gratuito, avrebbe potuto (e forse dovuto) prenderla in maniera normale. Dio, quanto lo odio quando gioca colpi del genere! Ma questo è Ivan. È Ivan che irride l'avversario. È Ivan che gioca come solo lui sa giocare: divertendosi. «He's crazy» commenta Robert, ridendo.
E il terzo punto va via come il secondo, e il quarto come il terzo, finché l'arbitro non chiama: «Game, second set, team Europe.» Ma io quasi non lo sento, sono troppo impegnato a esultare.
Corriamo alla panchina, ed è tutto pacche sulle spalle e un parlarci uno sull'altro, incitandolo, facendogli i complimenti. Ivan ride. È sicuro, adesso, sa che la vincerà.
Poco prima che l'arbitro chiami il time, però, una crepa nella sua sicurezza. «Non ho un buon record nei tie-break decisivi...» dice, in inglese.
«Non ce l'hai perché parti con un mindset negativo» gli dice Robert.
«Ricorda» aggiungo io, in inglese. «Ci siamo noi sul campo con te. Io, Rico, Robert, Demetrios e Derek!»
Lui annuisce. «È il doppio più bello che abbia mai giocato in vita mia.»
E via di nuovo in campo.
Quello che segue è una nebbia di tensione, cuore in gola, respiro affannato, grida che mi graffiano le corde vocali (sarò senza voce, stasera – poco male). Ivan salva un match point sul suo servizio, con un serve and volley coraggiosissimo ed eseguito alla perfezione.
E quando arriva il suo primo match point, la chiude seccamente, senza discussioni.
Una risposta vincente.
Cos'è questo grido che mi sale dal cuore? Questa gioia che mi pervade ogni fibra muscolare? È così che vorrei sentirmi anche quando vinco io.
L'abbraccio della vittoria è bellissimo. Siamo sette persone (c'è anche Serrano, che è sempre rimasto un po' in disparte) che giocano insieme per la stessa squadra, e non mi sembra più un'esibizione, è una competizione vera, senza punti in palio, ma una competizione a cui tutti teniamo tantissimo.
Sono così felice di essere qui. Anna aveva ragione.
Gli abbracci finiscono, Ivan deve farsi intervistare, noi altri membri della squadra torniamo negli spogliatoi, nella nostra sala comune.
E mentre torniamo, Robert mi prende in disparte. Cosa vuole dirmi?
«Domani giochi il doppio.»
Lo guardo. «Chi sostituisco? Rico o Derek?»
«Nessuno dei due. Cambio di programma: giochi il doppio con Ivan.»
—
Note note note ♫
Ammazza che capitolo chilometrico! Michele, tra apatia, abbuffate e stress, dà seri segni di sbarellamento, ma partecipare alla Laver Cup gli ha fatto bene: ha ritrovato entusiasmo, interesse e il gusto di stare in compagnia. E c'è un doppio con Ivan all'orizzonte! Come andrà a finire la cosa? Michele accetterà? Vi tengo sulle spine.
Ah, e se non l'avete ancora visto, correte sugli extra della storia che c'è un bellissimo ritratto fanart di Vanja di cui io mi sono letteralmente innamorata!
Ora una nota importante sul famigerato (e odiatissimo) capitolo 107 (Ti ho sempre odiato, ecc.). Probabilmente non ne potrete più di sentirmene parlare, ma è un capitolo a cui tengo davvero tanto, forse quello a cui sono più legata dell'intero romanzo, e non avete idea quanto mi siano dispiaciuti i malumori che ha causato tra diversi lettori per com'era strutturato. Ci tengo a restare nel non detto, e non cederò su questo punto. Però rileggendolo con occhi distaccati e cercando di non farmi influenzare dai miei stessi bias e da quello che io so, ho cercato di limare un po' le ambiguità più forti. Ho inserito qualche linea di dialogo in più tra Raf e Nic e una piccola considerazione di Michele alla fine della scena, quando se ne va. Vi avviso, in caso vi vada di rileggerlo. A margine, vorrei ringraziare due lettrici, EvaBIu e grifona8, che con le loro osservazioni intelligenti mi hanno fatto notare alcuni passaggi che appaiono molto più ambigui di quanto sembrasse a me, che lo leggevo e rileggevo con tutto ben chiaro in mente.
Detto ciò, domani è la vigilia di Natale e vi faccio gli auguri in anticipo (tanto ormai è una festa pagana, quindi gli auguri valgono sia per credenti che non credenti)(io faccio parte dell'ultima schiera e lo festeggio ben volentieri)(e se proprio non lo festeggiate, auguri di buon riposo scolastico/lavorativo). Quanti regali avete sotto l'albero? Io un bel po'. E ho usato questa bellissima carta per impacchettarli:
Vi fa venire in mente niente? Tipo una cosa che inizia per stel e finisce per lina da accendere in cima al capitolo?
A lunedì! :)
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