11. Un ragazzino rompiballe
Finalmente si va a casa. A Capriva. Al Luc di Zuan.
Per tre giorni appena. Poi tutti a Stoccarda dove comincerò a prendere confidenza con l'erba in vista di Wimbledon.
Ma per tre giorni, casa! Sono riuscito a convincere papà a non andare a Bovec. Lui, stranamente, ha ceduto.
Papà odia Capriva perché non va molto d'accordo con mio nonno Giacomo (suo padre), che vive ancora lì. Quando papà era ragazzo, per un lunghissimo periodo non si sono parlati, perché il nonno era contrario alla carriera tennistica di papà. Il nonno possiede una grande azienda vinicola, una delle più importanti del Friuli, e avrebbe voluto che papà ne ereditasse la gestione, ma lui ha preferito dedicarsi completamente al tennis. È praticamente scappato di casa per inseguire il suo sogno.
Si sono riconciliati dopo la nascita di Daniele: la mamma e papà erano in difficoltà economiche, perché la mamma aveva dovuto smettere di giocare e papà era ormai da un anno fuori dalla top cento, senza grandi speranze di poterci tornare. Il nonno ha offerto loro di andare a vivere a Capriva, in una metà della sua grande casa rurale, il Luc di Zuan.
Capisco che mio padre provi ancora un po' di astio per lui, ma a me non sembra una persona cattiva. Alla mamma piaceva molto, e al nonno piaceva lei.
Abbiamo da poco portato giù borsoni e valigie nella hall dell'hotel. Poi ci sarà il check-out, taxi, aeroporto, check-in all'aereoporto, volo, scalo a Venezia, altro volo fino a Ronchi dei Legionari, taxi.
Casa.
Poi dopo tre giorni tutto ricomincia da capo: taxi, aereo, hotel, eccetera.
È la mia vita da quando sono piccolo. A volte nelle conferenze stampa i giornalisti locali mi fanno domande sulle città in cui vado a giocare i tornei. Ti piace questo posto? Hai visto questo monumento? A volte do risposte positive generiche, ma per lo più la formula è sempre la stessa: non ho avuto tempo di fare il turista.
Le città sono tutte uguali: Roma, Parigi, Londra, Miami, Melbourne, New York. Sono un hotel e un aeroporto. La strada che va dall'hotel alla sede del torneo, vista dal finestrino della macchina.
Le mie rare uscite cittadine sono quelle organizzate dall'ATP o dagli sponsor: un ricevimento nel salone di qualche lussuoso palazzo, una festa in un locale, una cena al ristorante (dove peraltro mangio sempre gli stessi noiosissimi pasti sani e proteici che mangio ovunque), posti fotocopia dove i miei contratti mi costringono a mostrarmi per un'ora o due, per poi tornare di nuovo in hotel.
Un paio di volte all'anno sono obbligato a partecipare agli eventi che poi finiscono nei video Uncovered sul canale YouTube dell'ATP. Prendono una manciata di giocatori - di solito cercano di mettere insieme amici o persone che si stanno simpatiche, ma quando gli tocca usare me sono sempre il "pesce fuor d'acqua", perché non sono amico di nessuno. Insomma, ci prendono e ci portano da qualche parte, a fare di solito qualche attività divertente (per gli altri), in qualche luogo caratteristico della città che ospita il torneo (si tratta di video promozionali). Sono gli unici momenti in cui vedo qualche posto strano, diverso dal solito, ma non ho tempo per soffermarmi, studiarlo, odiarlo o farmelo piacere, perché ci sono almeno una decina di persone intorno a me, tra cameraman, microfonisti, addetti alle luci e staff vario e chi più ne ha più ne metta. Senza contare l'onnipresente zia Elena che mi accompagna, mi osserva, mi dirige, mi aiuta (parla al posto mio). E senza contare (bis) che sono impegnato a seguire le indicazioni della troupe su cosa devo fare, come devo muovermi.
E quando tutto è finito, subito via, senza il tempo di rilassarsi nemmeno un secondo, di nuovo in hotel, o ad allenarmi.
Adesso sono seduto su una poltroncina della hall in attesa che Rodolfo sbrighi le ultime pratiche del check-out, sotto gli occhi attenti di zia Elena.
Siamo soli, io e Sara, che è accucciata a terra accanto a me e fa uno di quei suoi finti sonnellini in cui ogni tanto muove le orecchie e solleva una palpebra per controllare che intorno a lei tutto sia a posto.
Papà sta parlando al telefono qualche metro più in là. Lazlo, Ethan e Armando sono partiti già ieri. Mio fratello stamattina presto, con sua moglie, per Miami, hanno una casa lì. Tornerà ad Halle, dove è riuscito a convincere un famoso doppista spagnolo a giocare insieme a lui. Sta iniziando a farsi un nome, ne sarà felice. Ora deve solo trovarsi un partner fisso.
Anna l'ho incontrata ieri, dopo la fine del match. Mi ha abbracciato, davanti a papà e zia Elena, che si sono un po' straniti perché era un incontro non concordato. Lei resta qui a Parigi. Mi ha detto che sarà impegnata col suo lavoro fino a Wimbledon, ma che non vede l'ora di incontrarmi a Londra. Spero non le venga in mente di farmi un'altra fellatio, Wimbledon è troppo importante, dovrei rifiutarla, ma potrei rimanere scombussolato dalla prospettiva mancata.
Ecco perché non voglio una ragazza.
E a questo proposito, non so se abbia ancora in mente l'idea dell'altra notte, di essere la mia ragazza, la mia vera ragazza.
Spero di no. Ma il suo atteggiamento è ambiguo, non capisco cosa vuole.
Rinuncio a capire. Rinuncio a pensarci.
Dopo qualche minuto, che ho trascorso a leggere dal cellulare commenti sul torneo, una voce debole e roca attira la mia attenzione: «Michele Bressan.»
Alzo lo sguardo. Sara si mette seduta sull'attenti.
Un uomo decisamente sovrappeso, capelli grigi e spettinati, radi sulle tempie. Il viso è un reticolo di rughe profonde, carnose e cascanti, e capillari rotti sulle guance. Le labbra sono violacee, avvizzite, e quando mi sorride scopre dei denti piccoli e grigiastri. Provo un disgusto istantaneo per lui. Chi è? Cosa vuole? Un autografo?
No. Si siede su una poltrona posta ad angolo retto rispetto alla mia. Ci si lascia cadere, stancamente, appoggia le mani sulla sua pancia, troppo gonfia, sproporzionata rispetto alle braccia secche e abbronzate che spuntano dalle maniche corte di una t-shirt troppo stretta. Sui bicipiti si intuisce del tono muscolare ormai quasi del tutto perduto, e l'avambraccio destro è un po' più grosso del sinistro.
È un ex tennista.
Appena seduto, lancia una breve occhiata ansiosa a mio padre, che però ci sta dando le spalle, impegnato ancora al telefono. «Sono Raffaele Novelli, il coach di Ivan Reshetnikov» dice infine.
Raffaele Novelli.
La leggenda, il fantasma!
Lo osservo meglio. Sara gli sta timidamente annusando una gamba, lui le dà una grattatina sulla testa. Quest'uomo non ha cinquant'anni, cioè due meno di mio padre. Ne ha almeno dieci in più. Sembra vecchio non solo per le rughe e la pelle cascante, non solo per la voce, roca e debole, sembra vecchio anche e soprattutto per la lentezza con cui si muove. I suoi gesti sembrano immersi in un vischioso torpore. La sua postura è curva, stanca.
Mi volto verso papà: se si è stupito tanto solo a sentirlo nominare, come reagirà quando lo vedrà?
Raffaele fa una risatina gorgogliante, attirando di nuovo la mia attenzione. Scopre di nuovo i suoi denti orribilmente grigi, con le gengive scure, e del tartaro depositato alle radici. Sono una delle cose più disgustose che abbia mai visto in vita mia. «Non so se tuo padre mi riconoscerebbe a prima vista. Sono venticinque anni che non mi vede, e in questi venticinque anni sono cambiato molto... troppo...» dice in tono mesto, forse accorgendosi che stavo guardando papà.
Gli chiedo a bassa voce cosa vuole da me, balbettando appena.
«Mi sembra quasi di essere tornato ragazzino... Sono qui per conto di Vanja. Per fargli un favore.»
Vanja. Cioè Ivan. Reshetnikov.
Fisso quest'uomo negli occhi. Sono strani. Tristi e pensosi. Penso che un tempo, forse, possano essere stati belli: sono verdi, chiari e screziati, ma quasi nascosti dalle palpebre pesanti e dalle borse gonfie. Non credo sia necessario dire qualcosa per esortarlo a spiegarsi. Mi limito ad aggrottare le sopracciglia.
Lui lancia un'ultima occhiata a mio padre, e infine apre il borsello che indossava sulla spalla destra. Ne estrae un pacchetto avvolto in carta marrone. «È un regalo. Da parte di Vanja. Mi ha implorato in ginocchio di portartelo.»
Non lo voglio, gli dico, cos'è? Cosa vuole da me?
«Prendilo, aprilo e lo saprai.»
Sono combattuto. Da un lato so che tutto ciò che riguarda Ivan Reshetnikov può portare solo guai e rotture di scatole, dall'altro sono curioso di sapere cos'è.
Raffaele guarda per l'ennesima volta mio padre, poi allunga un braccio e mi appoggia il pacchetto sulle gambe. Sara segue tutta l'operazione con attenzione, scodinzolando. «Mettilo via svelto in borsa, prima che se ne accorga tuo papà. Se vede che te l'ho dato io, te lo leva e me lo ridà con un bel vaffanculo.»
Guardo il pacchetto con sospetto. Poi guardo papà, sempre lontano e di spalle. Perché pensa questo, chiedo a Raffaele.
Lui si stringe nelle spalle. «Perché sono un tipo poco raccomandabile, un pessimo esempio» dice in tono mesto. «Sono uno stronzo, un fallimento... un...» Scrolla la testa. «Eddai, prendilo e mettilo via, muoviti prima che si giri.»
Prendo in mano il pacchetto: è piccolo, mi sta nel palmo. Il mio cuore inizia a battere velocissimo, per paura che mio padre si giri e se ne accorga, perché so che sto per fare una cosa che non dovrei fare. Apro la zip del borsone più vicino (è la sacca delle racchette) e ce lo spingo dentro.
Ci metto pochi secondi. Papà è ancora girato. Non ha visto niente. Sento le vene pulsare nel collo. Sara si avvicina alla sacca e si mette ad annusarla.
Raffaele ridacchia, ma ha lo sguardo triste. Le sue palpebre cascanti e le zampe di gallina rimangono immobili, sta ridendo solo con la bocca, con quella sua bocca orribile.
«Cazzo se sei ansioso... come fai a essere così freddo, invece, in campo? Sembri un'altra persona quando giochi... a parte l'altro giorno, con Vanja.» Fa un'altra risatina.
Il campo è l'unico posto dove le regole le decido io. L'unico posto dove comando. Lo penso e non lo dico.
Quello che gli dico, invece, è che Ivan deve smetterla di darmi fastidio. Lo prego di riferirglielo.
«Il regalo l'hai accettato, intanto...»
Mi coglie in fallo. L'ho accettato per curiosità. E perché mi sono fatto mettere pressione, me l'ha buttato sulle gambe. Ho quasi la tentazione di aprire la sacca e restituirglielo. Ma esito.
Lui fa una smorfia. «Vanja è un rompiballe. Ha fatto la stessa cosa anche con me, sai?»
Aggrotto di nuovo le sopracciglia: uso spesso segni non verbali per esprimere concetti.
«Lavoravo come istruttore al suo circolo di tennis, a San Pietroburgo. Ivan e Andrej sono i figli dei proprietari, sono una famiglia ricca. Vanja passava sui campi tutto il tempo libero che aveva, da quando era piccolo. Sempre a ronzare intorno a tutti, sempre a guardare le lezioni degli altri, a chiedere a ragazzi più grandi se palleggiavano con lui, a sfidare avversari improbabili che lo battevano sei zero sei zero. Non ha mai avuto un coach, voleva fare tutto da solo. Poi un giorno, di punto in bianco, non so perché, quattro anni fa, aveva tredici anni, ha chiesto a me di fargli da coach perché voleva diventare un professionista. Io gli ho detto di no, ché non mi interessava allenare aspiranti professionisti, tantomeno un tipo come lui totalmente privo di disciplina e con quei colpi tutti strani. Be', non mi ha mollato un secondo. E alla fine mi ha preso per sfinimento.»
Con me può provarci anche cent'anni, io non sono gay, gli dico. E non voglio essere nemmeno suo amico, non mi piace.
Lui mi lascia parlare, la mia parlata lenta e stentata. Alla fine sorride a labbra strette. Per fortuna, così non scopre i denti. «Ci metterà parecchio ad arrendersi. Sai... un po' mi sento in colpa... è anche colpa mia se si è fissato con te.»
«C-cioè?»
Raffaele sta per rispondermi, ma alza un'ultima volta lo sguardo verso mio padre e si blocca. Sembra quasi spaventato.
Mi giro anch'io. Con la coda dell'occhio, noto che anche Sara ha smesso di annusare la sacca delle racchette.
Mio padre è ancora al telefono, ma è voltato verso di noi e sta guardando Raffaele, adesso.
Ha il telefono a diversi centimetri dall'orecchio, non sembra stia più ascoltando.
I suoi occhi sono sbarrati, la sua bocca socchiusa, la fronte è tesa, appena corrugata. Il suo respiro affrettato.
«Credo che tuo padre abbia appena avuto uno shock» dice Raffaele. Fa spallucce, come se non gli importasse, ma in realtà sembra scosso anche lui. «Be', prima o poi ci dovevamo incontrare...»
Papà si avvicina. Cammina lentamente. «Ti richiamo dopo» dice al telefono. Cerca di metterlo in tasca, ma manca la fessura e lo fa cadere a terra. Resta immobile parecchi secondi, con lo sguardo fisso su Raffaele, prima di chinarsi a raccoglierlo. Si rialza e prosegue la sua lenta avanzata verso di noi. A ogni passo la sua espressione si fa più sgomenta.
Non dice niente. Scruta Raffaele senza dire niente.
«Ciao, Nic» dice infine Raffaele, quando papà si ferma a un passo da noi.
Papà non risponde. Continua a fissarlo, le sopracciglia inarcate in un'espressione addolorata.
«Fammi indovinare: mammamia come ti sei ridotto?» Raffaele fa un ghigno sarcastico.
«Sei... vivo...» dice invece papà. Ha il fiatone.
«Ancora per poco» risponde l'altro. Poi guarda l'orologio. «Anzi, mi hai appena fatto ricordare che è almeno mezz'ora che non bevo qualcosa, quindi vi saluto.»
Raffaele si alza, fa per andarsene, papà fa uno scatto e lo afferra. La stretta è forte, violenta, lo vedo dal modo in cui si deforma la carne asciutta dell'avambraccio di Raffaele.
«Dove... cos... pe-perchè?» Papà ha appena balbettato. Credo che sia la prima volta in vita mia che lo sento balbettare.
Raffaele scuote lentamente la testa. «Troppe ragioni» dice in tono asciutto, triste.
«Cosa è successo? Dove sei stato?» Gli occhi di mio padre studiano Raffaele, spostandosi freneticamente. Non sbatte le palpebre, corrono su e giù sul suo viso, inumidendosi un po'. Alla fine lascia il suo braccio. Sono rimasti i segni bianchi delle dita sulla pelle scura di Raffaele.
«È stato meglio così. Fidati.»
Non so cosa pensare del comportamento di mio padre. È scosso. È visibilmente scosso. Non l'ho mai visto così scosso nemmeno quando la mamma se n'è andata. Dev'essere molto traumatico rivedere dopo tanto tempo un amico creduto morto.
«Ci vediamo, Nic.» Raffaele fa un cenno con la mano, si volta e inizia ad allontanarsi.
«Perché sei tornato?» gli dice papà.
Raffaele si ferma.
«Di cosa stavi parlando con mio figlio?» insiste papà.
Raffaele si volta. «Un ragazzino rompiballe» risponde.
«Un ragazzino rompiballe... cosa?»
«È la ragione per cui sono tornato. Ed è quello di cui stavo parlando con tuo figlio.»
Raffaele non aggiunge altro. Papà non aggiunge altro.
Ma lo guarda. Lo guarda allontanarsi senza sbattere le palpebre e non dice una parola finché Raffaele non sparisce in un corridoio.
«Cosa ti ha detto?» mi chiede infine, con un filo di voce.
Sara fa un debole guaito.
Ha cercato di difendere i comportamenti di Reshetnikov, gli rispondo. Quasi non balbetto, mentre lo dico. E me ne stupisco, perché è una bugia.
Il pacchetto nella borsa delle racchette mi sembra quasi radioattivo, luminoso. Ho il terrore che per qualche motivo papà apra la zip e lo trovi. Ma non ha ragione di farlo. Non devo preoccuparmi. Lancio un'occhiata a Sara e spero che non si metta di nuovo ad annusarlo.
Papà scuote la testa. Fa una smorfia di disprezzo. «Era solo una scusa» dice. Sembra arrabbiato, ora. «Voleva vedere me. Voleva mostrarmi cosa è diventato.»
«Eravate m-m-molto amici?» gli chiedo.
Papà si volta di scatto e mi fulmina con lo sguardo. «Amico di quel drogato donnaiolo alcolizzato?» Scuote la testa. «Mi faceva pena. Per un periodo ho cercato di aiutarlo, e come me anche altri colleghi. Poi ci abbiamo rinunciato. Abbiamo capito che era una causa persa.»
Deglutisce.
Ho l'impressione che non mi stia raccontando tutta la verità su quell'uomo ripugnante.
Ho l'impressione che tutta la verità non la saprò mai.
--
Note note note ♫
E finalmente conosciamo Raffaele, un uomo distrutto dai suoi stessi problemi. Che ne pensate di lui? E del regalo di Vanja? Secondo voi cosa c'è in quel pacchettino? Lo scoprirete prestissimo!
Nella presentazione della storia che avevo pubblicato prima di cominciare a mettere online i capitoli (e che presto ripubblicherò negli extra), avevo spiegato perché avevo scelto un russo come co-protagonista: perché se penso a tennisti "pazzi" e dalle personalità sopra le righe, i russi sono i primi che mi vengono in mente. Ecco, qualche giorno fa su Reddit è stato pubblicato un estratto da un intervista al tennista Andrej Rublev in cui racconta i coloritissimi incontri col suo collega Daniil Medvedev quando erano due bambini di dieci anni (si sono incontrati ieri notte ai quarti degli Australian Open e ha stravinto Medvedev). Leggete qui sotto e ditemi se non sono due adorabili frugoletti fuori di testa con uno spiccato senso della teatralità ❤️
Al pezzo finale in cui si mette a mangiare la terra sono morta.
E detto questo, ci rileggiamo lunedì, con un nuovo capitolo e il vincitore degli Australian Open, e... non dimenticate la stellina!
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