106. La casa di Ivan
Ogni telefonata di Ivan mi aspetto che annunci la morte di Raffaele.
Mi ha chiamato pochi minuti fa, non ho risposto perché mi stavo allenando.
Sono passate tre settimane dalla finale di Wimbledon, e tra poco comincia la trasferta americana. Sono a Capriva, a riposarmi e allenarmi con il mio staff. Anna non c'è, è in vacanza con Andrej, sono andati alle Maldive, hanno pubblicato anche qualche foto su Instagram. Ivan e Raffaele sono entrambi a San Pietroburgo. Io sono qui da solo, col mio numero uno, decine di nuove proposte di sponsorizzazione, tutte in valutazione nelle mani di Anna e della nuova agenzia, centinaia di richieste di interviste, tutte declinate (con grande ira degli sponsor e dell'agenzia).
Vado sul sito dell'ATP, ogni tanto, e guardo la mia foto in homepage. Numero uno. Numero uno del mondo. Ancora fatico a rendermene conto.
Le mie preoccupazioni, in questi giorni, non vanno alla mia classifica, ma a Raffaele. Mi angoscia l'idea che da un giorno all'altro riceverò la notizia che è morto. Quando è morta la mamma è stato improvviso e devastante, e forse una morte annunciata da tempo è meglio, perché hai modo di abituarti all'idea. Allo stesso tempo, lo trovo così angoscioso e stressante. Sono entrambe cose orribili, e non saprei scegliere quale sia la meno orribile delle due.
Raffaele ha scelto di passare i suoi ultimi mesi, le sue ultime settimane, a casa sua, a San Pietroburgo. «Non voglio morire in ospedale» ha detto. Con lui c'è anche mio padre, che a quanto ho capito passa tutte le giornate lì e lo assiste.
Non ho ancora avuto modo di parlare con mio padre, dopo che Raffaele mi ha detto quelle cose su di lui. Vorrei farlo, vorrei cercare di capire, ma allo stesso tempo l'idea di doverlo fare mi mette ansia, soprattutto perché dovrebbe essere una conversazione interamente telefonica; quindi rimando il momento.
Ho avuto a che fare con mio nonno, però, qui a Capriva. Ho cercato di trovare in lui il ritratto che me ne ha fatto Raffaele, ma ho faticato a riconoscerlo. Mi sembra un tipo così innocuo. Un po' burbero, forse, rigido, e so (sapevo già) che in passato aveva osteggiato con forza la scelta di mio padre di giocare a tennis. Ma non pensavo fosse crudele.
Guardo il telefono, la schermata che mi dice: chiamata persa, Ivan.
E quindi è successo? Raffaele non c'è più?
Mi faccio forza e lo chiamo.
E Ivan pronuncia proprio queste parole: «Raffaele non c'è più!»
«Mi d-dispiace» dico, con la testa vuota e il cuore che si contrae nel petto.
«No! No! Non hai capito. È ancora vivo, cioè, credo che è vivo, ma non c'è più! È sparito di casa, Lancia Delta è sparita, lui è sparito, cellulare spento, cellulare di tuo padre spento! Dove è andato? Dov'è?!» Ivan parla velocissimo e grida nel ricevitore.
«Non lo so» rispondo debolmente, cercando di farmi sentire mentre lui continua a ripetere frasi tipo: «dov'è» e «dove è andato», più qualche parola in russo qui e là.
«Hai sentito tuo papà?» mi chiede.
«No.»
Sospira. «È scemo! Idiota! Non ti ho chiamato ieri perché non volevo fare storie prima che ero sicuro, Dasha mi diceva: stai tranquillo Vanja, vedi che è andato solo a fare un giro... ma è sparito da un giorno! Ventiquattro, no anzi, ventiotto ore! Lui ha bisogno di cure e ossigeno e droghe, no, aspetta, come si dice in italiano...»
«Farmaci.»
«Sì, farmaci! Non può andare via di casa e stare via! Un giorno! Come fa!?»
«Forse si è fatto ricoverare? In qualche clinica?» azzardo.
«E perché non mi dice niente? E perché non mi dice dove andato? No, no, lui non vuole andare in clinica. Lui... io ho paura che ha fatto la grandissima cazzata.»
«Quale grandissima c-cazzata?» Penso che sia forse la terza o quarta volta in vita mia che ho pronunciato ad alta voce una parolaccia.
Sospira di nuovo. «Un po' di giorni fa sentivo Raf e tuo papà che parlava. E parlava di quando era giovani, viaggi in macchina, camping... non ho capito bene, ma ho paura che sono andati a fare camping! O viaggio in macchina, dove non so.»
«Ma non è p-possibile, nelle c-condizioni in cui si trova.»
«È p-possibile se sei scemo.» Improvvisamente lo sento piangere. «Non so cosa fare, dove cercare... Tuo papà ha fatto mai camping con te?»
«No» rispondo. «Però...»
«Però?»
Scuoto la testa. «No, no, non è p-possibile.»
«Cosa non è possibile? Dimmi!»
«Pensavo che... a mio papà p-p-piace tanto un posto in Slovenia. Bovec.»
«Bovec! Sì! Raf mi ha parlato tanto di Bovec, è stato lì quando era ragazzo con tuo padre. Tuo papà lo aveva portato lì a disintossicarsi.»
Questa informazione mi lascia completamente spiazzato. Non ne avevo idea. Mio padre non mi aveva mai raccontato nulla del genere.
«Pensi che sono andati lì?» mi chiede.
«N-no» dico, cercando di riprendermi dalla sorpresa. «È assurdo, in macchina da San Pietroburgo alla Slovenia? No. C-ci ho pensato perché abbiamo un appartamento, lì. È in montagna, sull'Isonzo, che è un fiume di queste parti. È un posto immerso nella natura, e ci sono anche campeggi, là. Non so se...»
«È tanto lontano da dove vivi?»
«In macchina ci si m-mette c-c-circa uuuu...»
«Un'ora e mezza, sì.»
«C-c-come fai a saperlo?»
«Ho guardato Google Maps. Quindi prendo volo per Venezia, e poi?»
Cosa? «Eh? Ma... cos... n-n-no!»
«Sì. Poi cosa? Treno? Taxi?»
«No! D-devi p-prendere il volo per Trieste, non per V-Venezia. Ma non p-puoi venire qua! Non devi fare un visto?»
«Visto? Vuoi dire Visa su passport? Ho già Visa per Hamburg che dovevo andare in una settimana. Tutto ok. Allora, Trieste aeroport...»
«M-ma...»
«Fatto. Volo passa per Malpensa Milano e poi Trieste. Poi mi dai indirizzo, prendo taxi. Arrivo stanotte sette e trenta. Ti saluto che perdo l'aereo.»
È impazzito. È completamente impazzito.
***
Ivan è qui. A Capriva. Sta per arrivare.
La cosa mi mette un po' di agitazione. Vedrà il posto dove sono nato e dove ho trascorso i primi anni della mia vita. Ma non è neanche lontanamente bello o interessante come San Pietroburgo. È un paesino minuscolo, dove ci sono solo vigne e campi, campi e vigne. So che non è venuto qui per vedere Capriva, però mi mette comunque a disagio l'idea di ciò che penserà di questo posto.
L'ho sentito di nuovo prima che prendesse l'aereo, ho cercato di convincerlo che stava facendo una sciocchezza, e che era molto più probabile che Raffaele si trovasse ancora in Russia. Ma lui sembrava convinto che fosse andato a Bovec. «Raf diceva sempre che voleva rivedere Bovec, e non è mai andato. È lì, sono sicuro cento per cento che è lì.»
Ho saltato il mio allenamento pomeridiano, per aspettarlo, e salterò sicuramente anche gli allenamenti di domani, perché andremo a Bovec in mattinata.
Lo accolgo all'uscita del taxi, nel cortile di casa. Ha con sé solo un grosso zaino, significa che non ha in programma di fermarsi molto. Vederlo qui, in questo contesto, nel cortile della casa dove ho vissuto, mi crea uno strano disagio alla bocca dello stomaco. Sembra molto scosso, ha le occhiaie, e non si è rifatto la tinta ai capelli, ha ancora in testa il viola di Wimbledon, un po' sbiadito e con un centimetro di ricrescita castana.
«Sono un po' stanco» è la prima cosa che mi dice.
«Non vuoi c-cenare?»
Non fa in tempo a rispondermi. Spunta mio nonno, da non si sa dove. Ha l'aria arrabbiata. «No uli int strane, ca intor!»
Ivan lo guarda, socchiude gli occhi. «Non ho capito» dice.
La frase del nonno mi lascia senza parole. Non voglio gente strana qui intorno. Cosa intende dire? Forse non gli piace Ivan perché ha i capelli colorati?
«È un mio c-collega» gli dico per rassicurarlo. «È mio ospite.»
«Questa è casa mia e qui non ci resta» mi dice in italiano. «Se vuole può dormire in albergo.»
Ivan si indica. «Io... cosa?» Mi guarda.
«Ivan resta. Questa è anche c-c-casa mia» ribatto.
«La cjase l'è me!» grida il nonno, battendosi un pugno sul petto. «E 'o no uli fenôi in cjase!»
Spalanco la bocca per quanto mi stupisce la sua frase. Sono quasi sicuro che fenôi significhi finocchi. Mi ha appena detto che non vuole persone omosessuali a casa sua?
«Che lingua parli?» gli chiede Ivan.
Sento qualcosa bruciare nel petto, una rabbia che non avevo mai provato, una rabbia enorme, che un po' riecheggia anche la storia crudele che mi ha raccontato Raffaele, una rabbia che mi spinge a dire qualcosa che forse non è completamente vero, anzi, sono sicuro che non sia completamente vero, perché io non sono gay e non sono etero, ma mi esce dalla bocca, in una lingua che non avevo mai usato: «Alore no tu ulis neancje me». Allora non vuoi neanche me. Forse è stato l'impegno mentale di dover costruire su due piedi una frase in una lingua che non mi appartiene, forse è stato quello che non mi ha fatto balbettare, o forse la rabbia, ma no, di solito la rabbia mi fa balbettare di più. Ma non ho balbettato.
Io e il nonno ci fissiamo negli occhi per parecchi secondi, lui stringe le labbra scuote la testa con l'aria amareggiata. «Puar frut» dice. Povero bambino.
«Non sono un frut!» grido. «Sono un adulto!»
E sono il numero uno del mondo! Lui cos'è? Solo un vecchio che si fa gestire la propria azienda dalle figlie.
Prendo Ivan per mano. «E adesso io e Ivan andiamo in c-c-casa, nella mia p-p-parte di casa a mangiare qualcosa, e poi lui d-d-do-dooormirà qui. Nella mia parte di casa! E chiama i carabinieri se vuoi cacciarci fuori!»
Trascino via Ivan, che mi chiede incredulo cosa sia appena successo e cosa abbia detto mio nonno.
«Tutta colpa di tuo padre...» sento borbottare mio nonno, in italiano, prima di chiudere la porta alle mie spalle.
Appena siamo dentro, spiego a Ivan cosa è successo, cosa ha detto mio nonno. Sono ancora molto arrabbiato, e le parole mi escono a tentoni, Ivan ha la pazienza di starmi a sentire, senza interrompere.
Mi aspettavo si arrabbiasse anche lui, ma sembra tranquillo, quasi divertito dalla cosa. «I vecchi, tutti uguali! Anche miei nonni fanno finta che non mi conoscono.» Mi sorride. «Sono contento che mi hai preso la mano. Sei proprio un knight in shining armor!» Ride.
«Gli ho anche d-detto che sono gay anch'io.»
Ivan sgrana gli occhi. «Wooow! Il tuo primo coming out!»
«No.» Scuoto la testa. «In realtà era una bugia. Io non sono gay. Gliel'ho detto solo perché mi ha dato molto fa-fa-faaastidio quello che ha detto lui.»
Ivan mi guarda senza commentare. Ma alza un sopracciglio.
«Andiamo, Gwen sta p-preparando la cena, è quasi pronto» gli dico, facendo cenno verso la zona della casa dove si trovano cucina e sala da pranzo.
«Non sei gay?» mi chiede, fissandomi con aria incredula. «Mi pareva di sì.»
Sospiro. «Il f-fatto che abbia avuto un rapporto sessuale c-con te non c-cambia niente. Ho avuto un rapporto anche c-c-con Anna.»
«Infatti io penso che sei bisex, come me.»
«Io non ci penso mai al sesso. Non mi interessa. Mi c-capita di eccitarmi, ma non mi interessa.»
Fa un'espressione che sembra un po' triste. «Non hai mai più pensato a quella sera?» mi chiede, con lo sguardo sfuggente.
Sì. Ci ho pensato. Ci ho pensato molte volte, a dire il vero, e qualche volta mi sono anche masturbato, pensandoci. Ma non è un chiodo fisso. Non è un'esperienza che voglio ripetere. Perché dovrei ripeterla? Sì, probabilmente mi piacerebbe, ma che senso avrebbe? Solo soddisfare un desiderio momentaneo, un desiderio senza futuro, perché Ivan si sposerà a dicembre, e anche se non si sposasse, io non posso e non voglio avere un rapporto sentimentale con lui o con nessun'altra persona. Un rapporto sentimentale è un impegno troppo grande, di cui non capisco e non capirò mai i confini e le implicazioni.
È un discorso troppo lungo da fare, quindi mi limito a dirgli: «Qualche volta.»
Andiamo a cena, finalmente, senza aggiungere altro sull'argomento. Parliamo di Raffaele. Ivan ha provato a chiamarlo di nuovo, ripetutamente, trovando sempre il telefono spento. Temo che il viaggio a Bovec, domani, sarà un viaggio inutile, e che questa visita di Ivan sia stata solo una perdita di soldi e tempo.
Dopo cena, mi aspetto che Ivan voglia andare subito a dormire. Ma mi stupisce chiedendomi se possiamo uscire. «Non riesco a dormire, sono troppo nervoso» mi dice.
«Non c'è niente in questo p-paesino» gli dico. «Solo campi e vigne.»
«Portami a vedere il posto dove facevano il grande fuoco! Voglio solo fare una passeggiata.»
«Non ricordo d-di preciso dove lo facevano. P-però se vuoi posso portarti a fare la p-passeggiata c-che facevo sempre con Sara, dietro al castello di Spessa. C'è un b-bel p-panorama. Solo che, uhm, adesso è buio e il p-panorama non si vede... e p-poi è in mezzo ai c-campi e non ci sono lampioni.» Mi gratto il mento e rifletto: no, non credo sia una buona idea fare quella passeggiata a quest'ora.
Ma Ivan sembra entusiasta. «Non è buio! C'è luna quasi piena! Andiamo!»
Usciamo nel paesino semi-deserto, pochi lampioni a illuminare le strade. È una notte calda e piena di grilli. Si sente qualche voce dai cortili delle case, qualche televisione accesa dalle finestre aperte.
Ci infiliamo quasi subito nelle strade di campo che ho percorso infinite volte sotto al sole, ma mai sotto la luna, e lì il silenzio è quasi completo, rotto solo dal frinire dei grilli. I filari delle vigne hanno un aspetto diverso, di notte, sono dei muri di foglie nere, da cui mi aspetto, non so perché, di veder spuntare qualcuno all'improvviso. Mi rendo conto, razionalmente, che non ha senso, ma ho comunque un po' di paura, e mi avvicino a Ivan per sentirmi più al sicuro.
«San P-pietroburgo è così bella» gli dico dopo qualche minuto di camminata silenziosa. «Qui non c'è niente da vedere.»
«È bellissimo» dice lui. «Mi piace la campagna. Senti che profumo, che bei rumori... Noi abbiamo una dacia, sai? Una casa in campagna, ci andiamo in estate, nei weekend, per relax, per andare fuori di città. Io non ci vado da tanto tempo, da quando ho cominciato a giocare pro. Ma è un posto bello, ti vorrei portare lì, così vedi anche la campagna russa.»
Non so come fa, Ivan, a trovare del bello in tutto ciò che guarda, in tutto ciò che vive. Ma sono felice di condividere con lui questo posto e questa serata. Alza gli occhi in alto. «Guarda che cielo» dice ammirato. «Non si vede questo in città, con la luce. Guarda! Si vede... the milky way, come si dice in italiano?»
Non lo so, non ho mai sentito questa espressione. La cerco sul cellulare e trovo una frase familiare, che risveglia un ricordo dimenticato. «La Via Lattea!» esclamo.
«Lattea...» ripete Ivan. «È una bella parola, lattea.»
«Mi ricordo... Una sera, non ricordo l'anno, ma ero piccolo, era estate, qui, a Capriva, la mamma mi ha p-portato a vedere le stelle cadenti, shooting stars.»
«Che bello» commenta.
«E mi aveva mostrato la Via Lattea e insegnato delle c-costellazioni. Però non ricordo più niente. Ricordo solo che mi era p-piaciuto tanto.»
«Hai chiesto wishes alle stelle cadenti?»
Annuisco. Sì. Avevo desiderato di diventare numero uno del mondo, e di vincere tutti e quattro gli Slam. E nei miei desideri, in quei sogni, c'era la mamma sugli spalti che applaudiva i miei traguardi.
«Sono diventati veri?» mi chiede.
«Quasi...»
«Allora non mi dire cosa hai chiesto. Sennò non diventa vero.»
Non potrà mai diventare realtà. Ma non glielo dico. Mi dispiace guastare il suo ottimismo.
Arriviamo finalmente alla grande quercia e ci stendiamo sull'erba, non sotto le fronde, un po' più in là, illuminati dalla luna e dalle stelle. Gli racconto delle mie passeggiate con Sara, lui ascolta senza dire niente. C'è un'atmosfera così serena, tranquilla. Sono felice di condividere con lui questo luogo e questi ricordi. Mi piacerebbe prendergli la mano, ma penso che sarebbe fuori luogo, perciò non lo faccio.
Dopo qualche minuto di silenzio e grilli, Ivan comincia a cantare. È un canto lento, a volume basso, in russo. E i grilli sembrano quasi un accompagnamento musicale. Ivan sta aggiungendo qualcosa di magico e diverso a questo posto che nei miei ricordi e nelle percezioni è sempre stato identico, da quando sono bambino. Sta ivanizzando con il suo canto anche la campagna della mia infanzia, e sono felice che lo stia facendo.
«Che cos'è?» gli chiedo, quando ha finito.
«Una ninna nanna russa» dice lui.
«Cosa vuol dire... baiubaiu?» È l'unica parola che sono riuscito a cogliere della canzone.
Ivan fa una risatina. «Baiu baiushki. È una parola che c'è in tante ninna nanne. Non vuol dire niente. È tipo un suono.»
«Me la canti d-di nuovo?»
E lui, senza protestare, ricomincia. La sua voce è così bella. Gliela invidio molto. Vorrei restare qui a sentirlo cantare per tutta la notte.
Ma dopo un po' torniamo a casa, e quando arriviamo davanti al cancello, mi ringrazia per la passeggiata. «Mi ha messo relax. Adesso sono meno preoccupato e dormo meglio.»
Prima di rientrare si ferma a leggere l'insegna sulla colonna. «Luc di Zuan» dice, pronunciando male la zeta. La pronuncia come una normale zeta, quando invece va letta come una s dura, come in rosa. Glielo spiego e lo correggo.
«Cosa vuol dire?»
«Signifca...»
Una scossa.
È questa la sensazione che provo. Una specie di scossa al cervello. Un'illuminazione improvvisa. «Due anni...» sussurro.
«Due anni?» ripete lui, perplesso.
«Ti c-co-conosco da due anni...» sorrido. «Da due anni, e non mi sono m-m-mai reso conto di questa cosa! È... è la casa di Ivan!»
«La casa di Ivan?» sorride sorpreso.
«Sì!» Indico la scritta. Indico la parola "luc". «Q-q-questo significa p-posto, o casa.» Indico Zuan. «E questo significa Ivan! È Giovanni in friulano. Ci somiglia, no? Zuan, Ivan... suonano simili!» Rido. Non so perché, questa informazione mi ha reso euforico.
«È bellissimo!» esclama lui, con un sorriso gigantesco. «Non sapevo che il mio nome aveva una traduzione speciale in questa lingua strana! E il tuo nome come si traduce?»
«No, il mio nome resta così. Anche se... ora che ci p-penso quando ero piccolo mio nonno ogni tanto mi chiamava Mighêl.»
«Quello è spagnolo» dice Ivan.
Mi scappa una risatina. «No, non Miguel. Mighêl. È un po' diverso... devi dire la e lunga e stretta... Migheeeel.»
«Mighiiiil» prova a ripetere Ivan, producendo una parola che sembra un incrocio tra il russo e lo spagnolo. Rido e ride anche lui. «Che lingua strana!» esclama.
«G-giacomo, invece, il nome di mio nonno, diventa Iacum.»
«Sembra latino! È bellissimo.»
Per Ivan è sempre tutto bellissimo.
«Vedi?» prosegue lui. «Tu dici sempre a me che noi russi cambiamo i nomi a tutti, ma anche voi qui cambiate i nomi. Non è tanto diverso, no?»
Sorrido.
«Da oggi voglio che mi chiami Zuan!» conclude.
Scuoto la testa. «Ma p-p-perché non vuoi mai essere chiamato col t-tuo vero nome?»
«È bello avere un nome... come si dice... personale... privato... intimato...»
«Intimo» lo correggo. «Ma se t-tutti ti chiamano così, non è più un modo personale.»
«Tutti quelli che mi vuole bene. Amici, famiglia... Cronisti sportivi mi chiama Ivan.»
«E io.»
«E tu.» Mi sorride. «Però tu... è diverso, è vero.»
«In cosa è diverso?»
«Dici il nome in modo diverso. Dici... è più personale. Anche se è solo Ivan.»
Non capisco in che senso. Non rispondo, ma non mi sembra si aspetti una risposta. Sta guardando l'insegna, con un mezzo sorrisetto. «Ok» dice «questa è la mia casa, allora, lo dice cartello. Devo venire con lawyers e prendere questa casa!»
«Non servono gli avvocati» gli rispondo. «Questa è c-casa tua, se vuoi.»
È vero. Vorrei che fosse vero. Per un attimo lo vorrei, anche se mi rendo conto che si tratta di un desiderio strano, irrealizzabile e che razionalmente, forse, non vorrei nemmeno si realizzasse. Ma c'è una parte di me che lo vorrebbe, che questa fosse la casa di Ivan. Mia e di Ivan.
——
Note note note ♫
La casa di Michele e Ivan. Che bel quadretto, eh? Ivan purtroppo non ha scelto il momento migliore per visitare i luoghi dell'infanzia di Michele, ma chissà, forse ci saranno altre occasioni.
Che ne pensate dello pseudo-coming-out col nonno? E della ninna nanna? Ne ho ascoltate diverse di ninne nanne russe tradizionali, alcune segnalatemi da Juiceissweet, altre trovate da sola su YouTube, e sonodd se tutte molto belle. Quella che avevo in mente quando ho scritto il capitolo è questa: non è bellissima?
https://youtu.be/H9wrGmsJMw4
Il richiamo alle stelle in questo capitolo è abbastanza esplicito, si parla di via lattea, costellazioni... Dite che riusciamo a fare una costellazione a forma di Ella con tutte le stelline che accendete? Eh? Ma che forma ha Ella? Non ve lo dico, sappiate solo che per realizzarla accuratamente di stelline ne servono taaante taaaante tante.
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