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104. Everything under the sun is in tune...

Siamo di nuovo qui. If you can meet with triumph and disaster.

Siamo qui sotto la scritta, come l'anno scorso, solo che stavolta in gioco c'è il titolo.

Non arrivo all'incontro ben preparato. Ho trascorso due notti e una giornata orribili.

Le parole di mio fratello, che ero riuscito a rimuovere mentre guardavo l'incontro di Ivan con Grković, sono tornate con prepotenza  nella mia testa, a tormentarmi.

Ho cercato di concentrarmi sul match, di prepararmi al meglio, allenandomi, rifinendo le tattiche, guardando punti su punti, giocate su giocate dei più recenti incontri di Ivan. Ma c'era sempre qualcosa, qualche particolare, qualche inezia che in qualche modo mi faceva tornare in mente Daniele, o mio padre, o mia madre.

La cosa più terribile è che non sono riuscito a togliermi dalla testa un'idea, un tarlo. 

Che le parole di Daniele fossero vere. 

Ho sempre creduto a mio padre, a Nicolò. Ho sempre creduto che la mamma fosse morta per errore, e che Daniele raccontasse quella storia orribile perché lui la mamma la odiava. Non hanno mai avuto un rapporto molto stretto, Daniele e la mamma. Daniele la trattava sempre male. Le dava della superficiale, della stupida. Non faceva che criticare lo stretto rapporto che lei aveva con me. Era invidioso, geloso. E quindi, dopo la morte, ha cominciato a raccontare brutte storie su di lei, a parlare di suicidio. Perché la odiava.

Ma se fosse stato mio padre a raccontarmi una bugia, invece?

Mi torna in mente quell'inciampo di papà. Quella volta che aveva accennato al suicidio, un paio di anni fa, a New York. Aveva accennato, e poi ha ritrattato. Mi torna in mente ora. E se mi avesse sempre mentito?

No. Non è possibile. La mamma non mi avrebbe mai abbandonato.

Ma se invece l'avesse fatto? 

Mi dico di no. La parte razionale del mio cervello mi dice che non è possibile, ma c'è una minuscola parte di me che inizia solo ora, e non so perché proprio ora, ad avere un dubbio, ed è un dubbio che mi perfora il cuore, che mi corrode lo stomaco, mi fa sudare di notte e riempie la mia testa di incubi.

Sto per giocarmi la finale, e ho questi pensieri in testa. Come posso vincerla?

Devo onorare questa sfida. Se Ivan vincesse oggi, avrebbe un altro record in cui non potrò mai più superarlo: io ho vinto il mio primo Slam a diciannove anni e undici mesi. Lui lo vincerebbe a diciannove anni e tre mesi. Non posso lasciarlo vincere.

Mi ripeto queste cose, senza sentire una vera motivazione dentro di me.

Annunciano i nostri nomi. Scendiamo in campo. Il centrale di Wimbledon, gremito. La next generation del tennis. Il passaggio di consegne. La nuova era. Frasi che ho letto sulla stampa.

I capelli di Ivan sono più viola che mai.

Sistemo le borse. Levo la felpa, indosso il frontalino. Il frontalino che si è inventata Anna ed è diventato una specie di trademark del mio stile. C'è stato un boom nella vendita dei frontalini, da quando lo uso. Ogni tanto mi spavento, quando penso all'influenza che possono avere le mie azioni, anche quando sono azioni così stupide, come indossare un accessorio di abbigliamento.

La mamma indossava sempre gonne bianche, quando giocava. Quello era il suo trademark. Gonne bianche che mettevano in risalto le sue bellissime gambe affusolate da ballerina.

Non pensare alla mamma. Pensa al match. Concentrati. Rendi onore a Ivan. E a Raffaele, che sta forse guardando la sua ultima partita di uno Slam.

Anche Raffaele morirà, come la mamma.

Perché c'è solo morte intorno a me? Non voglio questi pensieri cupi.

Voglio solo bianco, e verde, e viola. Erba e gesso. Ivan con i suoi capelli, il suo completo e la sua racchetta che, lo noto solo ora, ha delle striature verdi. È in perfetta armonia con questo luogo bellissimo.

Alla mamma sarebbe piaciuto. Lei amava l'armonia e la bellezza.

No, non pensare alla mamma.

Il sorteggio. Vinco io. Scelgo di servire. Il riscaldamento.

«First set. Michele Bressan to serve.»

Ci mettiamo in posizione.

«Ready? Play.»

Ho la testa vuota e silenziosa, come religiosamente silenzioso è il campo in questo momento. La pallina emette dei rumori soffici, quando la faccio rimbalzare sull'erba. E poi uno schiocco secco, quando impatta per la prima volta sulla mia racchetta.

I punti procedono, e la mia testa pian piano si svuota sempre più.

Gioco in una specie di bolla di apatia. Mi sento spento. Solo silenzio dentro di me. Non sento nemmeno il clamore del pubblico, gli applausi dopo i punti.

Non vedo niente, anche Ivan è una macchia sfocata, là davanti a me.

Vedo la mamma, un fantasma, il suo braccio che ondeggia, bilanciato, elegante, il sorriso che rivolgeva solo a me. Vedo i suoi capelli lunghi, castano scuro come i miei, ma i suoi erano tinti, era sempre preoccupata che si vedesse la ricrescita grigia. «Ero così giovane, quando hanno cominciato a spuntarmi i primi capelli bianchi» diceva sempre con amarezza.

Ivan mi fa break.

La mamma non parlava più, gli ultimi mesi prima dell'intervento. Prima che morisse.

Non voleva più parlare con Nicolò. C'era dell'astio, tra di loro, c'è sempre stato conflitto, da quando ero piccolo, ma nonostante tutto non si sono mai lasciati. Però negli ultimi tempi la mamma aveva smesso di parlare. Ogni tanto qualche sillaba. Ogni tanto, di notte, dalla loro camera, le rare notti che trascorreva con lui, sentivo la voce della mamma, ma erano sempre frasi molto brevi, e non distinguevo le parole.

Non parlava con Daniele. Con lui nemmeno monosillabi. Daniele la trattava male, era cattivo con lei, aveva sempre e solo parole dure nei suoi confronti, e lei alla fine ha smesso di rispondergli o di rivolgersi a lui.

Ma con me, sì, con me ha sempre continuato a parlare. Mi parlava con la lingua dei segni. Veniva di sera, poco dopo che mi ero coricato, la aspettavo sempre con trepidazione. Quando non veniva ci rimanevo male. Veniva e si infilava nel mio letto, portava con sé il cellulare e accendeva lo schermo per fare luce. Facevamo una specie di tenda sotto le coperte, era bello, lei mi parlava. All'inizio usava la lingua dei segni solo per non farsi sentire. Ma alla fine, i mesi prima della sua morte, se ci ripenso, mi sembra quasi che non conoscesse altro modo di esprimersi.

Mi diceva sempre cose belle, che mi voleva bene, che sarei diventato un grande campione, e lei mi sarebbe stata sempre accanto, mi avrebbe sempre sostenuto.

No, non può essersi uccisa. Lei mi aveva promesso che mi sarebbe stata sempre accanto!

Daniele è cattivo. Cattivo e invidioso del rapporto che avevo con lei, e dice quelle cose per rovinare i miei ricordi.

Il primo set è finito. L'ho perso con due break. 

È lo sguardo di Ivan a risvegliarmi. È uno sguardo d'odio, che mi dice: cosa stai facendo? Perché giochi così male?

Già. Perché? C'è in gioco un record, e uno Slam che non ho mai vinto, e il numero uno del mondo.

Se vinco, oggi, divento numero uno del mondo. La mamma mi diceva sempre che sarei diventato il numero uno. Sarai fortissimo e bellissimo, mi diceva. L'ho sempre desiderato, è per quello che gioco a tennis, per diventare il numero uno. Per diventare una leggenda.

Ma all'improvviso mi sembra tutto così irreale. Così insignificante. Diventerò numero uno. E allora? Vincerò uno Slam. Perché? Cosa cambia nel mondo e nella mia vita? Un trofeo in più in bacheca, il mio nome negli annali, il terzo mattoncino di una leggenda che è ancora ben lontana dal realizzarsi. Se non vincessi più, a partire da domani, all'improvviso, il mio nome verrebbe dimenticato. Si ricorderà di me qualche giornalista, qualche appassionato, ah, quel Bressan, quanto potenziale sprecato! Te lo ricordi che bel rovescio che aveva?

La leggenda è lontana. Forse vincerò, oggi. Ma per solidificarla devo vincere di nuovo, e di nuovo, e ancora, ancora, ancora, senza fermarmi mai, e a pensarci mi sento stanco, stremato, mi viene da vomitare, è troppo, troppo, troppo! Non mi va. Non lo voglio, questo numero uno, non lo voglio, questo Slam. Non voglio più niente.

«Time!»

Però c'è un'altra cosa che non voglio. Che non voglio ancora meno di questa. Non voglio che Ivan mi guardi in quel modo.

Non voglio mancare di rispetto a questa sfida così importante per lui e così importante per Raffaele. Ivan è il mio rivale, il mio rivale numero uno. Ci pensavo ieri: cosa mi resta oltre la sua rivalità? La sua amicizia sarà troppo dolorosa, dopo il matrimonio. L'amicizia di Anna scemerà, perché c'è Andrej, adesso, nella sua vita, e forse si sposeranno anche loro, formeranno una famiglia.

E io resterò solo.

Cosa mi prende? Il tennis è sempre stata la mia unica ragione di vita. Lo sarà ancora. Deve esserlo!

Ma in questo momento non ho più certezze. Mi sento sull'orlo della follia.

Ho fatto un game di servizio perfetto, non so nemmeno io come.

I punti proseguono, i game si susseguono, e non so perché, mi viene in mente quella canzone dei Pink Floyd, quella che fa: The lunatic is on the grass...

Il pazzo è sul prato.

Sono io. Sono io il pazzo sul prato, su questo prato consumato del Centrale di Wimbledon.

Ci sto riuscendo. Con la testa vuota e completamente fuori dal gioco, sto riprendendo questo incontro. Gli faccio break. The lunatic is on the grass... Come andava avanti? Non ricordo le parole.

«Game, second set Bressan.»

Ci sono. Devo rientrare. Non posso vincerla di solo talento. Questo atteggiamento può andare bene per un set, non può durare tutto l'incontro.

Devo metterci concentrazione, intelligenza, ma soprattutto devo metterci passione.

Ripenso all'altroieri sera. Ripenso alle sensazioni che ho provato mentre guardavo l'incontro di Ivan. Cerco di ritrovarle, di ritrovare quell'entusiasmo.

Quando comincia il terzo set, Ivan mi fa capire subito che dovrò metterci qualcosa in più, se voglio vincere. Sei il mio rivale, Ivan. Sei il mio rivale e ti batterò.

Continuo a ripetermi questo mantra nella testa. Sei il mio rivale e ti batterò. È meglio dei pensieri cupi che stavo facendo prima, ma non è ancora abbastanza. 

Intelligenza, strategia, motivazione. 

Ivan mi mette in difficoltà durante il primo turno di battuta, ma lottiamo, sotto un sole che scalda parecchio e rende la pallina più veloce. Scambi brevi, secchi, un punto a lui, uno a me. Palla break, e la salvo con un ace. Vantaggio interno, e me lo annulla con un chip and charge efficace. Ma al secondo tentativo ci riesco ed è uno a zero per me.

Ci sono. Sto rientrando. Sto pian piano riprendendo possesso della realtà.

Il suo game va via veloce. Come serve bene! Solo ora, che sto provando sul serio a rispondergli, me ne rendo conto. Non ha più il servizio moscio degli inizi. Certo, non sarà mai un big server. Ma è regolare, la piazza benissimo, ha percentuali altissime di prime e una seconda all'altezza della prima. 

I miei game di servizio sono più combattuti dei suoi, per assurdo, considerando che il mio servizio è molto più potente, e alla fine mi fa break sul quattro pari: anziché andare cinque quattro, il punteggio va quattro cinque, e dopo il cambio campo lui servirà per il set.

Se vince sono un set a due. Se fosse al meglio dei tre l'incontro finirebbe adesso.

Ma non siamo al meglio dei tre e non ha ancora vinto il set.

Non glielo lascerò vincere.

Mi alzo dalla sedia prima che l'arbitro chiami Time. Lo fa anche Ivan. Quando l'arbitro parla, siamo già entrambi in posizione, in attesa di ricominciare.

Sbaglia la prima. 

Sbaglia anche la seconda. Gli rivolgo uno sguardo rabbioso: non permetterti di perdere il game con errori cretini!

Cambio lato. Stavolta la prima la mette, io la riprendo in allungo, ma lui la chiude facile di dritto. 

Quindici pari. Un servizio al corpo, sono pronto, impatto benissimo di rovescio, lunga, profonda, lui la prende in controbalzo, ma io già lo sto attaccando, e con uno schiaffo al volo gli faccio un vincente sull'angolino, si vede lo sbuffo di gesso quando la palla tocca la riga.

Quindici trenta. Ti riprendo, Ivan, ti riprendo!

Servizio esterno, molto angolato, la impatto e sono già in posizione, ma pronto a scattare all'indietro. Lo sapevo! Lo sapevo che avrebbe tentato un contropiede! Non mi freghi, Ivan, la rimetto bene, prendo comando dello scambio, lo sposto di qua, e poi di là, e infine lo butto fuori dal campo con uno sventaglio angolatissimo.

Quindici quaranta, due palle break.

In posizione. Schiena bassa, occhi su di lui. Muscoli in tensione, pronti a scattare nello spazio di un millesimo di secondo.

E scattano, ma non è abbastanza. Mi fa un ace sulla T.

Trenta quaranta. Ne ho ancora uno!

E me lo gioco sulla seconda, perché la sua prima gli finisce in rete.

E la seconda è un: «Let, second serve.»

È nervoso.

Tira come al suo solito una seconda molto coraggiosa, al corpo, che finisce sulla riga, quasi fuori. È talmente lunga che mi manda un po' fuori tempo, e mi fa sparare fuori la risposta.

Chiedo immediatamente il challenge. Se è entrata, ha toccato la riga di un millimetro, non ha fatto nemmeno sbuffare il gesso.

Il pubblico applaude a ritmo, mentre le immagini rielaborano la traiettoria della pallina.

Un Oooh corale accompagna la sentenza: In. Dentro. Di un millimetro.

Deuce.

Un colpo fortunato. Maledizione, odio i colpi fortunati! Del resto, il proverbio "la fortuna aiuta gli audaci" è perfetto in questo caso: Ivan è stato audace. Ha rischiato per mettermi in difficoltà, e il rischio ha pagato.

Ha salvato entrambe le palle break.

Faccio di tutto per procurarmene una terza, ma non ci riesco. Serve benissimo, comanda il breve scambio e la chiude con un vincente.

«Advantage Reshetnikov.» Set point.

Serve di nuovo bene, ma rispondo preciso. Lo scambio è equilibrato. Gli gioco uno slice molto spinto, per metterlo in difficoltà, ma lui mi risponde allo stesso modo, riuscendo a farla rimbalzare ancora più bassa di quanto ci sia riuscito io. Mi costringe a piegarmi tantissimo, mi manda fuori ritmo, comanda lui, adesso, cerca di chiuderla con un rovescio piatto e angolato, sul mio rovescio, rispondo in maniera un po' scriteriata, provando un cambio di direzione difficilissimo, che infatti non mi riesce. 

La pallina finisce in rete.

«Game, third set, Reshetnikov. Six four. Reshetnikov leads two sets to one.»

Ivan stringe il pugno e fa un sorrisetto.

Ed eccolo, che sale nelle mie vene e mi riempie il cuore, l'odio, il familiare odio che è il motore di tutti i miei incontri migliori. Il desiderio di rivalsa, no, meglio, di vendetta, di distruzione dell'avversario, la voglia di dimostrare al mondo che sono io il migliore. Io! Io e non lui!

Ecco il sentimento che cercavo, la motivazione che mi mancava.

Sono impaziente di ricominciare. Un tennista più scarso e meno sicuro di sé forse avrebbe chiesto un toilet break, ora. Non io. Io resto seduto. Mi riposo, mi concentro, mi reintegro, penso alle strategie da mettere in atto per distruggerlo.

Servo io. Sempre io per primo.

Abbasso un po' il frontalino, il sole mi dà fastidio agli occhi. Dieci rimbalzi. Lancio. Ace sulla T. Un eccellente inizio di un eccellente game che finisce in meno di un minuto.

Cambio campo, una bevuta rapidissima e siamo di nuovo in posizione, solo che è lui, adesso, ad avere il sole negli occhi. Ma non sembra dargli fastidio, e anche il suo game va via veloce.

Ma dopo un paio di game il break arriva. Il break per me. Ed è con questo unico break che vinco il quarto set. «Game, fourth set, Bressan. Six four. Two all.»

Pausa. E si ricomincia. 

Final set.

I giochi scorrono intensi, ma rapidi, non ci concediamo quasi nulla a vicenda e in quaranta minuti siamo già arrivati al sei pari del quinto.

Comincia l'oltranza. L'oltranza fasulla di Wimbledon. Ed è sul primo game di questa oltranza fasulla che Ivan mi mette per la prima volta in difficoltà. 

È come se fosse rimasto in attesa, in agguato, e avesse deciso all'improvviso di aggredirmi. Mi spiazza per due punti, ma sullo zero trenta mi riprendo. Non posso permettermi il lusso di perdere la concentrazione.

Arrivo trenta pari, difendendomi bene dai suoi attacchi, attaccandolo io stesso, con ferocia. 

Sul trenta pari scendo a rete, c'è un forsennato scambio di volée a pochi metri di distanza, ma la chiudo io, con un grido. Stringo il pugno. Vado a servire e faccio anche il punto successivo. Sette sei.

Panchina.

Bevo. Bevo parecchio. Prendo una gomma. Comincio a sentire la stanchezza e anche qualche dolore alla schiena, in zona lombare. Niente che mi impedisca di continuare. È normale essere doloranti alla fine di uno Slam, due settimane di tennis, sette incontri al meglio dei cinque. È stanco di sicuro anche lui, ha giocato quasi due ore più di me.

Prosegue l'incontro, proseguono i game. Sempre più faticosi e sempre più lottati.

Quando servo sul nove pari, salvo due break point e lui mi annulla ben quattro vantaggi prima che io riesca a prendere il game. Quando serve lui, il game successivo, sul dieci nove per me, salva il suo primo match point, e anch'io gli annullo quattro vantaggi. Il match point lo salva alla Ivan, con uno dei suoi inconfondibili e meravigliosamente orrendi chop a due mani. Mi coglie di sprovvista, sono lontano dalla rete, per riprenderla corro con una specie di fuoco che mi fa da motore dentro lo stomaco, ma non ci arrivo, l'arbitro chiama il doppio rimbalzo.

Dieci pari.

Non perderò di nuovo con match point a favore. Non lo farò!

Sta per arrivare la fine. Sta per arrivare il tie-break.

I due game successivi sembrano una fotocopia di quelli precedenti, palle break per lui, match point per me (altri due!), ma non molliamo. A denti stretti lottiamo su ogni palla, su ogni affondo.

Sul dodici undici per me, andiamo a sederci per l'ultima volta in panchina. 

Se gli faccio break adesso vinco tredici undici. Se non ci riesco, andiamo al tie-break.

No.

Non voglio. 

Non voglio il tie-break.

Ero felice, quando l'anno scorso Wimbledon e gli Australian Open hanno annunciato la fine dell'oltranza. Era ora, ho pensato, è una cosa che piace solo agli spettatori. Per i tennisti è una tortura, e un modo per rovinare gli incontri successivi.

Ma ora che mi trovo qui, ripenso all'incontro dell'anno scorso, a quell'epico venticinque a ventitré, e mi rendo conto che lo vorrei di nuovo. Voglio morire su questo campo, prosciugare il sangue nelle mie vene e batterti all'ultima goccia di sudore, coi muscoli sfilacciati e le ossa rotte. Voglio una vittoria epica come quella che mi hai inflitto tu.

Ma non l'avrò. Non potrò mai più averla. 

Se gli faccessi break adesso andrebbe bene. Sarebbe una fine degna. Significherebbe che sono riuscito a spezzare le sue resistenze.

Ma il tie-break è una lotteria. La fortuna conta di più. Basta un punto sbagliato al servizio, per perderlo. Uno e non due. E quel singolo punto fa tutta la differenza del mondo.

«Time!»

Ci alziamo per l'ultima volta.

Mi accorgo che si è cambiato la maglietta. Troppo sudata, avevo notato che gli si stava appiccicando alla pelle.

Servizio esterno e rovescio. Quindici zero.

Risposta vincente. Quindici pari.

Devo fare break. Devo, adesso! È l'unica fine degna!

Servizio sulla T. Scelta sciocca, le mie risposte di dritto da destra sono sempre eccellenti e profonde. Ivan riprende in controbalzo, io la spingo di nuovo, ma non indietreggia, non cede un millimetro, e anzi mi attacca! Cerco di passarlo, mi fa una volée corta, corro, la riprendo, mi fa un lob, corro di nuovo all'indietro, non riesco a girarmi, faccio un tweener, so che lui è alla mia destra, quindi la sparo all'angolo opposto, alla cieca. E sono ancora girato quando si sente il boato dello stadio.

Ho fatto punto, un punto eccezionale. Anche Ivan mi applaude con la racchetta.

Ma oggi non ride. È serissimo. Mi stai odiando anche tu, Ivan?

Quindici trenta. Ho il fiatone per le corse, e Ivan ne approfitta, serve rapidissimo, rispondo corto, la chiude al primo colpo.

Trenta pari.

Un ace lo porta al quaranta trenta.

Respira, Michele. Respira profondo.

Devo breakkarlo, devo breakkarlo adesso.

Ma non ci riesco. 

Rispondo in rete sul suo ultimo servizio.

Getto la racchetta a terra. La getto di piatto. Non voglio romperla, non voglio il warning, ma devo sfogarmi in qualche modo. Vorrei gridare. Vorrei strappare via coi denti tutti i fili d'erba di questo prato, uno a uno.

Non è giusto. Voglio la mia battaglia epica! Non voglio che finisca così! 

«Final set tie-break» sta annunciando l'arbitro.

Scelgo le palline e mi preparo al servizio con una voragine nello stomaco. Mi sento implodere. Mi hanno rubato la mia vendetta!

Faccio il primo punto, sì, lo faccio, in una specie di incubo lucido. Non mi sembra più di essere qui, l'incontro sta perdendo senso ogni secondo che passa, la voragine mi risucchia, la motivazione muore, e nella mia testa ricomincia a suonare quel verso: The lunatic is on the grass...

È solo quel verso, che si ripete ossessivo, senza risolversi. The lunatic is on the grass...

Uno a due. Due pari. Tre a due. Il minibreak non arriva.

The lunatic is on the grass...

Serve Ivan. Breve scambio. Tre pari. Cambio campo.

E quando ci incrociamo all'altezza della rete, lo sguardo stremato e cecchino di Ivan fa esplodere un concerto nella mia testa, nuovi versi, una nuova canzone, nuove parole che non sapevo nemmeno di ricordare, e sottolineano ogni colpo, ogni punto, dando a ognuno di essi un senso insensato.

Tutto ciò che tocchi

Un mio dritto lungolinea.

Tutto ciò che vedi

Un dropshot di Ivan.

Tutto ciò che assaggi

Un rovescio incrociato.

Tutto quello che senti.

Ace sulla T.

Tutto ciò che ami

Dritto a sventaglio.

Tutto ciò che odi

Split step sbagliato. Palla in rete.

Tutto ciò di cui diffidi

Tuffo. Rotolo a terra.

Tutto ciò che salvi

Questa palla break.

Tutto ciò che dai
Tutto ciò che vendi

Questo match point buttato.

Tutto ciò che compri, elemosini, chiedi in prestito o rubi.

La pallina fa sbuffare il gesso.

Tutto ciò che crei
Tutto ciò che distruggi

Uno schiaffo al volo.

Tutto ciò che fai
Tutto ciò che dici

Una stop volley all'angolo opposto.

Tutto ciò che mangi
E chiunque incontri

Ivan, solo Ivan, sempre Ivan.

Tutto ciò che tocchi
Tutto ciò che ignori

Ivan che salva match point.

E chiunque combatti

Io che salvo match point.

Tutto ciò che è ora
Tutto ciò che è stato
Tutto ciò che verrà

L'ennesima pallina che vola. L'ennesimo servizio che impatta.

E tutto, sotto il sole, è in sintonia.

Ed è il suo ennesimo servizio, il mio ennesimo match point, ho perso il conto di quanti ne ho avuti. Sul mio rovescio. Colpisco incrociato. Lui mi sposta con uno slice e mi ritrovo il lungolinea aperto.

La palla arriva bassissima. È quasi impossibile pensare di tirarla su con un piatto, ma è il colpo che voglio giocare, quello con cui voglio vincere.

Guardami, mamma, è il mio colpo più bello. Quello che mi hai insegnato tu. Il mio rovescio a una mano. Voglio giocarne uno che sia bello come il tuo. Un rovescio piatto lungolinea.

È un accelerazione folle, una cambio di direzione  impossibile.

È una delle cose più belle che abbia mai fatto.

Il sole splende ancora sul centrale di Wimbledon, dopo cinque ore e dieci minuti di match. Splende là, eclissato dietro gli spalti.

«Game, set and match Bressan. Two six. Six four. Seven five. Four six. Thirteen twelve.» 

Tutto sotto il sole è in sintonia. 

——

Note note note

La prima vittoria contro Ivan. Finalmente. Sottolineata da due canzoni dei Pink Floyd che parlano di follia. Le conoscete? Sono Brain Damage ed Eclipse, due brani che è come se fossero uno, stanno in continuità come tracce di chiusura di The Dark Side of the Moon.

https://youtu.be/DVQ3-Xe_suY

"Everything under the sun is in tune", tutto sotto il sole è in sintonia (o forse sarebbe più corretto "intonato", ma in italiano suona male), è il penultimo verso di Eclipse, e non è un caso che abbia terminato il capitolo sul penultimo verso e non sull'ultimo, scoprirete nel prossimo capitolo la ragione. Capitolo che arriverà lunedì.

Intanto vi mostro il trofeo che nel prossimo capitolo Michele alzerà in cielo: non è bellissimo, tutto dorato come una stellina

Non vogliamo rendere dorato anche questo capitolo come la vittoria di Michele? :)

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