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101. Vacanze romane

È il 2019.

Finals 2018, Australian Open 2019, Miami. Le mie vittorie più importanti. Ho confermato lo Slam, ho consolidato il mio numero due e mi mancano meno di duecento punti per arrivare al numero uno. Mi piacerebbe dire che queste vittorie mi hanno portato gioia e soddisfazione, ma non è stato così. La fame di vittoria cresce, ma non riesco a trovare nulla che la plachi. 

Bercy 2018, Brisbane 2019, quarti agli Australian Open. Sono i migliori risultati di Ivan in questo lasso di tempo. Ha vinto altri due tornei, tra cui un Master mille. Il più facile dei Master, d'accordo, quello in cui tutti i big sono stanchi e mollano la spugna, ma pur sempre un Master, non sono tanti i tennisti che possono vantare una simile vittoria, soprattutto così giovani. 

Ha partecipato anche alle Finals, si è qualificato proprio grazie ai mille punti del Master. È uscito ai turni di round robin, non ha vinto nemmeno un incontro (non era nel mio girone, se fosse stato nel mio girone avrebbe battuto me, forse, considerando il nostro head to head). 

Non mi stupisce che non abbia combinato granché. Non ho capito bene perché, Raffaele non è venuto con lui a Londra. C'erano solo il suo preparatore atletico e il fisio (assunto poco prima del torneo). Gli ho chiesto se avesse litigato con Raffaele, ma mi ha detto di no. «Raf deve mettere a posto un po' di cose» mi ha spiegato. Non ha voluto entrare nei dettagli, il che mi ha fatto sospettare che ci fosse di mezzo Nicolò, motivo per cui non gli ho fatto altre domande.

In compenso, oltre ai due membri del suo staff, a Londra si era portato dietro anche i suoi genitori, il fratello Andrej e la fidanzata Daria. 

Già. Si è rimesso insieme a lei. 

Ha mantenuto la sua promessa: mi innamorerò di qualcun altro. In fondo di lei è già stato innamorato, forse non aveva mai smesso di esserlo. Si sono rimessi insieme alla Kremlin Cup, il Cinquecento di Mosca. Lei non era iscritta al torneo, ovviamente, essendo un maschile, ma è di Mosca, vive lì. Si sono incontrati, hanno deciso di riprovarci. Sono contento per lui, mi sembra felice di stare con lei.

Andrej, invece, a Londra ha passato buona parte del suo tempo insieme ad Anna. Non si vedevano da San Pietroburgo, sono stati due mesi distanti. Ma si sentivano ogni sera.

Anche Anna ha fatto sesso con lui, la sera prima della partenza dalla Russia. Me l'ha detto in aereo, e quando le ho ribattuto. «Sì, anch'io ho avuto un rapporto con Ivan», ha sputato metà del succo d'arancia che stava bevendo. Era oltremodo felice per me, e molto curiosa, una curiosità un po' agitata che non capivo: anch'io ero felice per lei, ma non avevo alcun interesse a sapere i dettagli del suo rapporto sessuale, come invece lei sembrava averne del mio.

Da quando sta con Andrej non dorme più con me. «Non mi ha fatto storie, quando gliene ho parlato e gli ho detto che siamo come due fratelli, ma so che sotto sotto gli dà fastidio. Quindi preferisco non farlo più» mi ha spiegato. Ho detto che mi stava bene, che capivo la gelosia, anche se immotivata.

Quindi sono di nuovo solo. Solo con la mia carota gigante.

Non è un problema. Ho dormito solo per tanti anni. La situazione era cambiata di recente, ma sono tornato rapidamente alle mie vecchie abitudini. Niente Anna, niente Ivan.

Niente Sara. 

Prima che ci fossero Ivan o Anna c'era lei. E anche quando loro due non potevano esserci c'era sempre lei. C'è sempre stata, e ora che sono davvero solo, la sua mancanza si fa sentire più forte.

Ma mi sono concentrato ancora di più sul tennis, in questi mesi, sulla mia carriera. Anna mi ha trovato una nuova agenzia di rappresentanza, i problemi legali si sono tutti quasi completamente risolti, anche i miei problemi col gioco e col servizio sono tornati a posto.

Tutto va bene. Mi trovo in una situazione di apatico equilibrio.

Che è appena stato rotto da una telefonata di Ivan.

«Ti ricordi quando ti dicevo che ti porto a vedere tutte le città più belle del mondo? Cominciamo domani!»

Ebbene, siamo a Roma. Tra due giorni inizia il torneo, e domani Ivan vuole fare un giro turistico con me.

«Non p-posso girare per Roma, in Italia sono ab-bastanza famoso.»

«Naaah» dice lui. «Anche io sono un po' famoso in Russia, ma quando cammino per città mi ferma una persona, forse due in due ore di passeggiata. Tennis è sport d'elite!» Ride. «Non c'è tanta gente che conosce.»

Forse in Russia sono più riservati, ma qui in Italia quando mi è capitato di trovarmi in pubblico nelle grandi città (Roma o Milano), mi hanno sempre rotto le scatole. Sono stato parecchie volte in televisione, anche in programmi generalisti, quindi la mia faccia è conosciuta. Provo a spiegarglielo, ma lui continua a insistere, imperterrito. «Anche se ti ferma qualcuno per selfie, tu sorridi e vai, no? Quale problema?»

«Il problema è che odio interagire con gli sconosciuti.»

«Ok, allora, voglio vedere Colosseo, Fori Imperiali...»

«Ma mi hai sentito?»

«Si deve cominciare il nostro Vanja Tour di una città, e dice tutti che Roma è una delle città più belle del mondo. L'anno scorso ho visto San Pietro tutto solo! Perché il nome mi ricordava San Pietroburgo, ahah! Piazza molto bella, se vuoi andiamo a vedere anche lì.»

Non si può dire di no a Ivan. Ci organizziamo, quindi, incastrando i nostri impegni di allenamento al Foro Italico, e decidiamo di passare insieme la mattinata. «Sicuro che a Daria non dà fastidio?»

«Gli ho spiegato tutto!»

«Le ho spiegato tutto» lo correggo. «Gli è maschile.»

«Le ho spiegato tutto» ripete. «E le ho detto che è gioco tra noi due e tutto è a posto.»

Domenica mattina ci incontriamo nella hall dell'hotel. Ivan si presenta coi suoi nuovissimi capelli color "unicorno" (l'ha chiamato così, in pratica sono divisi in ciocche con varie sfumature di azzurro e blu), e ha già deciso tutto: vuole andare a visitare i Fori Imperiali «...e lì vicino c'è anche Colosseo.» Vengo a Roma da quando ho dodici anni e non ho mai visto il Colosseo. Mi sento un po' stupido.

Ci andiamo in taxi, e scendiamo proprio lì vicino. 

Wow, è proprio come nelle cartoline! C'è moltissima gente, turisti con macchine fotografiche e zaini giganteschi, nessuno sembra accorgersi di noi. Mi rendo conto, dopo un po' che passeggiamo lì davanti, che sono praticamente tutti stranieri, il che per me è un bene: sono molto conosciuto in Italia, meno all'estero. Ma c'è sempre il rischio che ci sia qui in mezzo qualcuno che segue il tennis.

«Che posto strano» commenta Ivan, controllando per la terza volta il telefono nel giro di tre minuti. «Sembra set di film, non sembra posto vero!»

«Stai aspettando una chiamata?» gli chiedo.

«No» risponde. «Mi continua ad arrivare chiamata. Numero sconosciuto. Adesso spengo. Non rispondo mai a numero sconosciuto. Sono quasi sempre giornalista rompipalle.»

«A me avevi r-r-risposto» gli ricordo. La prima volta che avevo chiamato.

«Sì, perché avevo capito che eri tu con telepatia.» In realtà aveva riconosciuto il prefisso italiano.

«Comunque, bello bellissimo questo posto...» aggiunge, tornando al nostro giro turistico. «Cammino e penso che sono un gladiatorio e mi invento una grande avventura nella testa.» È bello camminare con Ivan, dice sempre qualche scemenza che mi fa ridere.

All'ingresso dei Fori, incontriamo dei turisti italiani che mi riconoscono. Non seguono il tennis, infatti non hanno idea di chi sia Ivan, ma quando scoprono (perché è lo stesso Ivan a dirglielo) che è un tennista russo famoso, chiedono un selfie anche a lui. Mentre scattiamo la foto con loro, anche il mio cellulare squilla. Numero sconosciuto. Non è la prima volta che mi succede, e anch'io non rispondo mai ai numeri sconosciuti, ma mi sembra una coincidenza strana. Decido, a ogni modo, di non preoccuparmene.

I Fori sono molto belli, sono molto immersivi, Ivan ha ragione: sembra davvero di stare in un posto diverso dalla realtà. 

Ed è esattamente il motivo per cui, per ora, continuo a preferire San Pietroburgo. «San P-p-pietroburgo è una città vera. Questa non è una c-c-città vera, non posso venire a vivere in mezzo a questi ruderi.»

Ivan ride. «Forse ti ho portato in posto sbagliato. Forse dovevamo fare giri in posti belli di Roma dove vivono le persone. Ma non conosco Roma. Devo studiare meglio. Riproviamo anno prossimo.»

Continuando a passeggiare, continuiamo a chiacchierare. Gli chiedo di Raffaele: so che è qui a Roma, ma non l'ho ancora visto. È il primo torneo in cui ha ricominciato a seguire Ivan, li ha saltati tutti, da Bercy in poi.

Ho notato un peggioramento nel gioco di Ivan, da quando Raffaele non lo segue, e anche il torneo di Brisbane, che ha vinto, l'ha vinto giocando male. Ai due Mille del Sunshine Double, ad esempio, si è fatto eliminare al primo turno. Ho capito che Raffaele ha i suoi affari da sistemare – è ciò che mi spiega sempre Ivan – ma è il suo allenatore, e il suo lavoro è seguire il suo allievo. Ivan dovrebbe assumere qualcun altro, se Raffaele non ha tempo per lui. Gli ho espresso molte volte questo concetto, ma Ivan non vuole sentire ragioni. Stravede per Raffaele perché gli vuole bene. Ma non bisognerebbe mettere di mezzo i sentimenti, nella carriera.

«Ho una notizia da dirti» fa a un certo punto Ivan, quando il giro è quasi finito. Sembra un po' a disagio.

«Dimmi» lo esorto.

«Io e Dasha ci sposiamo.»

Mi metto a ridere. Poi, quando vedo che Ivan è serio, la risata mi muore sulla bocca. «Ma...»

«Ma?»

«Cioè, state... st-t-tate ins-s-s-sieme...» non riesco a finire la frase.

«Stiamo insieme da poco? È questo che vuoi dire?»

Annuisco.

«In realtà stiamo insieme da tanto. E poi ci siamo lasciati. E poi ci siamo rimessi. È il mio grande amore della mia vita.»

Cerco di ignorare l'ultima frase che ha detto, è una frase che mi dà il voltastomaco. «E p-poi t-t-tu... cioè, sei, cioè, hai solo d-diciannove anni!»

Lui fa spallucce. «Koptsev era già sposato a diciannove, Moryakov si è sposato a venti. Anche Sidney Ford si è sposato a diciotto. Se c'è amore non è presto.»

Sento il bisogno di sedermi. Fa caldo. Il sole picchia sulla testa. Il mio cellulare squilla per la quarta volta. «Ma chi è?» sbotto. Prendo il telefono. Sempre lo stesso numero di prima. Ho lasciato squillare le tre volte precedenti, stavolta chiudo la chiamata. Noto che mi è arrivato un sms. Non un WhatsApp, un sms. Non voglio leggerlo. Non ora.

«E q-q-q-quando?» gli chiedo.

«A dicembre, in pausa di stagione. Io... io volevo sapere se vuoi... cioè mi piacerebbe se tu sei mio testimone, però so che a te Dasha non ti piace, se non vuoi non importa, se non sei tu chiedo Andriusha.»

Mentre Ivan parla, mi squilla di nuovo il telefono, e sono talmente frastornato da ciò che mi sta dicendo che decido di fare una cosa che altrimenti non avrei mai fatto. Rispondo.

«P-p-pronto?»

«Non mettere giù. Ti prego. Passami Ivan, è urgente.»

Non credevo sarebbe stato possibile sconvolgermi più di quanto già lo fossi, ma la voce che sento ci riesce. È quella di mio padre. Di Nicolò.

Mi lascia talmente senza parole che non ho la prontezza di chiudergli subito la telefonata in faccia, ed è per questo che lui ha modo di aggiungere altre cose. «Hanno ricoverato Raf! Passami Ivan!»

«Si dice Ivàn» gli ribatto. Perché sento il bisogno di precisare questa cosa, che in questo momento non ha alcun senso? Mi sento come se mi avessero preso a pugni sulla testa da dieci direzioni diverse, e poi messo dentro una lavatrice e fatto girare per mezz'ora.

Dopo aver detto questa sciocchezza allungo il telefono a Ivan.

Lui risponde. Lo vedo cambiare espressione, farsi disperato. «No... no! Lo sapevo, lo sapevo che non doveva venire!» dice. «Ha voluto venire lui! Sai come è!» grida. «Dove? Come? Umberto Primo? Dov'è? No, non spiegare, guardo in Google, grazie, ciao.»

Chiude la chiamata, mi ridà il cellulare. «Io stupido non ho risposto al mio telefono! Era sempre lui!» Guarda il telefono. «Aveva scritto anche messaggi e non ho letto! Stupido Vanja!»

«Ma c-cosa è successo, p-p-perché...?»

«Raf sta male. Da tanto tempo. Non doveva venire qui.»

Da tanto tempo? Cosa significa? Inseguo Ivan, che sta correndo col cellulare in mano. Sta uscendo dai Fori, sul piazzale antistante. «Ospedale Umberto primo, mi ha detto via e reparto. Ho paura, tanta paura!»

Ma cos'ha? Sta morendo? Mi sento sempre più sconvolto, talmente sconvolto che sono incapace di provare emozioni o empatia per Ivan, c'è troppa confusione nella mia testa.

«Taxi! Taxi!» Ivan corre verso una macchina con la portiera aperta.

«Sono impegnato» dice il tassista quando arriviamo. «Chiami il numero verde e ne prenoti uno.»

Ivan impreca in russo. Poi indica un motorino fermo sul marciapiede. «Prendiamo quello!» esclama.

«Non p-possiamo rubare un motorino!» protesto.

«Ma no, stupido! Io ho app, si prenota.» Prima che riesca a capire di cosa sta parlando, ha già aperto il bauletto ed estratto due caschi, uno blu e uno verde.

«Cos...?»

«Metti elmetto» mi porge quello blu.

«Ma...»

«È servizio di scooter pubblico» mi risponde indossando degli auricolari wireless.

«Significa che q-questo c-c-casco l'ha indossato q-q-q...»

«Non è il momento delle tue paranoie!» mi grida in faccia, arrabbiato. «Mettiti elmetto!»

Obbedisco e indosso l'elmetto, cioè, il casco, mentre lui sta facendo lo stesso. Mi fa cenno di salire dietro di lui. Non sono mai salito su un motorino in vita mia. «Dove d-d-devo tenermi?» gli chiedo.

«Dove vuoi» mi risponde. Non mi è di aiuto. Mi aggrappo a lui, che parte a razzo.

«Questo scooter va pianissimo!» grida. Io stavo pensando esattamente il contrario.

«Sai dove andare?» gli chiedo.

«Ho Google Maps dentro earpieces! Stai zitto!»

Ivan si destreggia tra il traffico romano con una destrezza inverosimile. Il modo in cui guida e sfreccia tra le automobili mi fa paura, e mi stringo a lui talmente forte che a un certo punto lui mi implora di mollare un po' la presa. A un semaforo un tizio mi indica dal finestrino della sua macchina. «Quello è Maurizio Bressan!» grida. 

«Michele!» lo corregge Ivan, ruggendo, pochi istanti prima di partire di nuovo.

Arriviamo all'ospedale dopo circa quindici minuti di guida spericolata. È una struttura composta da parecchi padiglioni, sparsi su un lungo viale. Ivan parcheggia su un marciapiede e impreca in russo contro il bauletto del motorino, che fatica a chiudersi. Quando finalmente ci riesce si volta verso di me. «Scusa che prima ho gridato. Sono tanto preoccupato. Vieni dentro con me, per favore.»

Annuisco. Lui corre, io lo seguo. 

Attraversiamo dei cortili interni dell'ospedale, che è davvero gigantesco, Ivan chiede qualche indicazione, e finalmente arriviamo al reparto che interessa a Ivan. «Questo posto fa schifo» commenta, quasi sputando le parole. Entriamo nel reparto. Ivan prova a chiamare il numero da cui aveva chiamato Nicolò ma nessuno risponde. Allora guarda l'sms. «Ah... Nicolò chiamava di cabina, ha scritto sms. Secondo piano, suona al campanello interno, c'è scritto.»

Poi scoppia improvvisamente a piangere.

Lo abbraccio. Infermieri e pazienti ci guardano. Una signora anziana mi fa un sorriso comprensivo. Le sorrido anch'io, perché non so come rispondere a quel gesto di compassione che dovrebbe essere rivolto a Ivan, non a me. Sono ancora frastornato. Sono ancora incapace di provare emozione. Nella mia testa si alternano immagini di Ivan e Daria vestiti da sposi, e di Raffaele intubato in un letto di ospedale, un'immagine vaga che il mio cervello ha pescato da chissà quale spezzone di film o documentario.

Quando, dopo parecchi minuti di pianto, entriamo nella stanza, Raffaele non è intubato. Ha una flebo attaccata al braccio. Ma è dimagrito molto, e la pelle del suo viso è avvizzita, sembra invecchiato di altri dieci anni. La sua figura emaciata mi colpisce al punto che ci impiego qualche secondo a notare Nicolò, seduto dall'altra parte del letto. Ha le occhiaie. Mi guarda per qualche istante, prima di abbassare la testa.

«Ti avevo detto che non dovevi venire!» Ivan grida a Raffaele.

«Sto bene, sono solo svenuto, bassa pressione. Mi danno un po' di integratori e sono come nuovo.» Dà dei colpetti al braccio con la flebo, ridacchiando.

«Sei un cretino» mormora Nicolò, sempre a testa bassa.

«C-cos'hai?» chiedo a Raffaele.

«Ho che ho passato una vita a introdurre cagate nel mio corpo e il mio corpo ha deciso finalmente di gettare la spugna.»

Scuoto la testa. Sto cominciando a rendermi conto, in parte, di quello che sta accadendo.

«Non preoccuparti, Michele» mi dice Raffaele, forse leggendo la mia espressione. «Non muoio mica oggi. Ho ancora qualche mese, forse persino un annetto.»

«Non se ricominci a seguire Ivan in tour!» si intromette Nicolò.

«Nicolò ha ragione» dice Ivan. «Non dovevi venire.»

«Quindi cosa devo fare? Passare i miei ultimi mesi di vita chiuso in casa a fare cure?»

Nessuno gli risponde.

Sento le lacrime rigarmi le guance. Non posso vedere Raffaele in questo stato. Non ci riesco. Ripenso a quel dropshot tagliato che mi aveva mostrato... quanto tempo è passato? Due anni? Non ho mai visto un gesto tanto bello e perfetto in tutta la mia vita. Voglio vederlo di nuovo. Non è giusto che qualcosa di così bello muoia per sempre.

«Vanja» dice Raffaele, dopo un lungo silenzio collettivo. «Allenare te è stata forse l'unica grande soddisfazione della mia vita. L'unica in una vita di merda. Non mi interessa se vivo qualche mese in meno. Preferisco morire facendo qualcosa che mi dà gioia.»

Ivan scoppia a piangere di nuovo.

«Tu pensa l'ironia... ho passato una vita intera a cercare di ammazzarmi, e quando finalmente trovo qualcosa per cui valga la pena vivere, il mio corpo decide di arrendersi.»

«Perché cazzo devi sempre fare il melodrammatico!» dice mio padre a denti stretti, un'espressione che sembra il ringhio di un animale ferito. I suoi occhi sono più lucidi del normale ma non sta piangendo. Il suo viso è arrossato, sembra quasi stia trattenendo il respiro.

Sta soffrendo.

Questa evidente sofferenza, unita alle lacrime di Ivan e alle parole di Raffaele sono tre pugnalate nel mio cuore. Mi fanno sentire stupido. Stavo piangendo per i suoi dropshot, ma quest'uomo che ho sempre considerato una specie di mostro orribile, uno mostro orribile capace di sprazzi di inaspettata bellezza, quest'uomo non è solo i suoi dropshot. È un essere di carne e sangue ed emozioni, che sta soffrendo, e sta morendo, e come la mia mamma lascerà rimpianti, dietro di sé, e un buco gigantesco nella vita delle persone che gli vogliono bene. Nella vita di Ivan e di mio padre.

Esco dalla stanza. Piango un po' da solo, mentre Ivan rimane dentro, a parlare con Raffaele. Perché le persone devono morire?

——

Note note note

Dopo uno dei capitoli più amati della storia, segue uno dei più odiati, (immagino). Sono passati ben sette mesi dal torneo di San Pietroburgo e riceviamo due bruttissime notizie: Ivan che progetta di sposarsi con Daria e Raffaele che sta molto male. Cosa ne pensate?

Aggiungo una nota sul capitolo scorso. C'era un piccolo passaggio in cui ciò che emergeva dal testo non era ciò che avrei voluto esprimere. L'ho capito dai commenti arrivati a margine. Le intenzioni dei personaggi erano molto chiare nella mia testa, ma è evidente che non lo fossero sulla pagina, e rileggendo il passaggio infatti mi sono resa conto che i personaggi dicevano troppo poco perché fosse chiaro non solo a voi, ma anche a loro stessi nello scambio ciò che l'uno e l'altro intendevano dire. Quando Ivan dice a Michele: "Avrei voluto baciarti davanti a tutti" e Michele gli risponde: "Se non mi facessero schifo i baci, l'avrei fatto volentieri" le due frasi sono state interpretate quasi da tutti in modo romantico, ma non lo erano. Ivan, con quella battuta, voleva essere provocatorio. Il sottotesto a cui pensavo era: in questo paese omofobo, dove hanno fatto di tutto per non farmi partecipare al torneo di casa mia, dopo aver vinto alla facciazza di tutto quello che mi hanno fatto per ostacolarmi, avrei voluto far loro un gigantesco dito medio in diretta televisiva baciando un uomo davanti a tutti. Nella mia testa, Michele capisce perfettamente questo sottotesto, quindi la sua risposta non ha alcunché di romantico, stava dicendo a Ivan: sì, io ti avrei sostenuto nel tuo gesto provocatorio e anti-omofobo. Per me era persino più bello di un banale: vorrei baciarti, punto. Michele non dice di voler baciare Ivan perché prova tenerezza nei suoi confronti, ma per unirsi a lui in un gesto di ribellione. Era un passaggio a cui tenevo molto e che quindi ho leggermente cambiato, aggiungendo delle specificazioni nel dialogo precedente di Ivan, sperando che ora le intenzioni reciproche dei due ragazzi si capiscano meglio.

In capitoli tristi come quello odierno mi sento sempre un po' a disagio a chiedervi le stelline in modo scemo, quindi oggi ve lo chiedo normalmente: lasciatemi una stellina se volete sostenere la mia storia! E grazie a tutti voi che lo fate sempre e a tutti i commenti che mi lasciate ❤️

Ci rileggiamo giovedì.

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