30.Il meglio sei tu
Daniel eseguì un cross perfetto nell'area di rigore, in direzione del suo compagno che si era infilato tra due avversari, trovando l'accesso alla porta. Tuttavia, il giocatore col numero trenta dietro alle spalle saltò appoggiandosi un po' troppo al calciatore della squadra avversaria, che si buttò a terra dolorante. L'arbitro fischiò fallo in attacco e l'occasione perfetta creata dal diciottenne del Millwall fu sprecata. Il suo compagno alzò una mano per scusarsi sia con l'avversario che con Daniel, poi la partita tornò ad essere giocata con un buon ritmo.
Quel giorno la squadra londinese stava giocando fuori casa, ma a seguirli erano stati parecchi tifosi con sciarpette bianche e blu, che cantavano a gran voce nell'area riservata agli ospiti. Tra di loro c'erano Pearce, il padre di Daniel, e suo nonno. Felipe era stato trattenuto a lavoro, sebbene non avesse mai dovuto lavorare anche di domenica, fino a quel momento. Il ragazzo brasiliano aveva giustificato la sua assenza con"dobbiamo fare l'inventario, sono appena finiti i saldi e c'è un casino". Daniel non lo invidiava per nulla.
Era l'ultima settimana di febbraio e, sebbene la stagione fosse ancora lunga, si sentiva un po' affaticato. Il mister riponeva in lui così tanta fiducia da lasciarlo giocare dal primo minuto in ogni partita, perché sapeva quanto fossero decisive le sue azioni, le sue veloci ripartenze in contropiede, il pressing incessante, e Daniel faceva di tutto per soddisfare le sue aspettative, ma cominciava a sentire i muscoli tirare fastidiosamente, il respiro affaticato e il petto compresso dal fiatone. Piegò la schiena in avanti ed appoggiò le mani sulle ginocchia, cercando di attenuare il fastidio e di riprendere fiato. La voce dell'allenatore lo richiamò da bordo campo, a pochi metri di distanza da lui. Erano di nuovo in area di rigore, un suo compagno di squadra stava per battere un calcio d'angolo. Daniel era tra i più bassi della squadra, ma si posizionò vicino al portiere nella speranza di approfittare di un rimpallo.
Mancavano venti minuti alla fine del match, ma il diciottenne sentiva di essere al limite delle sue possibilità. Era esausto, ma faticava ad ammetterlo. Non gli era mai capitato di sentirsi così stanco e doverlo ammettere gli costava mettere da parte molto orgoglio. Avrebbe chiesto il cambio, non poteva rischiare di farsi male. Colin diede un calcio al pallone, che rimbalzò accidentalmente sulla testa dell'avversario più vicino al primo palo, che la passò al compagno di squadra di Daniel. Tre secondi dopo, il settore ospiti esplose in un boato perché il Millwall era passato in vantaggio.
Daniel si unì ai festeggiamenti, poi però si avvicinò al mister e gli fece cenno di voler uscire.
Neil aggrottò la fronte, preoccupato, e fece immediatamente alzare un degno sostituto dalla panchina. Il diciottenne non gli aveva mai chiesto di uscire dal campo prima dei novanta minuti canonici, e se in quel momento l'aveva fatto poteva solo significare che ci fosse un problema di fondo. Pochi minuti dopo venne annunciato il cambio, e Daniel uscì dal terreno di gioco accompagnato da applausi misti ai fischi degli avversari. Non era stato particolarmente pericoloso, durante quella partita.
L'allenatore gli diede una pacca sulla spalla. "Che hai fatto?", gli domandò.
"Mi tira l'adduttore", spiegò Daniel. Venne immediatamente affiancato dal medico di squadra, che gli spruzzò sulla zona incriminata un po' di ghiaccio spray. Il muscolo non aveva subito una stiratura, ma era sempre meglio prevenire. Dopodiché, indossò la giacca col logo della squadra e si accomodò sul posto in panchina vicino a Brandon, il ragazzo che l'aveva seguito in prima squadra ma che, a differenza sua, era stato meno fortunato. Una serie di piccoli infortuni l'avevano fatto giocare davvero poco, sebbene fosse un degno centrocampista.
Fissò lo sguardo un po' deluso sull'erba verde del campo, mentre in tribuna, lo stesso talent scout che lo seguiva da quando si trovava ancora nelle giovanili del Millwall, non smetteva di guardarlo.
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"Ancora, ancora", lo incitò Eric, sporgendosi in avanti. Continuò ad osservarlo con quegli occhi di un grigio misto al verde acqua marina. Ryan si morse il labbro ed annuì, passandosi una mano tra i capelli che gli erano ricaduti sulla fronte. Avrebbe dovuto tagliarli.
Riprese da dove il venticinquenne l'aveva bloccato, muovendo lentamente le dita. Non aveva ancora molta dimestichezza, ma avrebbe imparato solo con ulteriore pratica.
"Bravo, così", mormorò il più grande. Non voleva disturbarlo, Ryan sembrava estremamente concentrato mentre suonava una canzone semplice che avevano imparato assieme poche lezioni prima. Poi la canzone finì, il diciassettenne allontanò le dita dalle corde e tornò a guardare il suo insegnante.
"Perfetto, devi prendere un po' di confidenza con le corde, ma sei sulla buona strada", si complimentò appoggiandogli una mano sulla spalla e lasciandola lì un po' più del previsto. Ryan percepì i polpastrelli sfiorargli una piccolissima porzione di pelle lasciata scoperta dal maglione troppo largo. Sorrise appena, un sorriso imbarazzato ma sincero.
Eric fece scivolare la mano lungo tutto il braccio fino ad arrivare alla mano, che toccò con la sua senza smettere di guardarlo. Ryan pensò che quello fosse un attentato alla sua sanità mentale, sebbene fosse consapevole che molto probabilmente non l'avesse fatto di proposito.
Come diamine avrebbe fatto a farsi passare la cotta se Eric lo guardava così? Era umanamente impossibile, ecco. Una parte di lui era consapevole di non avere speranze col bellissimo venticinquenne, ma d'altra parte c'era una minuscola, insignificante, puntina di speranza che lampeggiava ogni volta che il suo insegnante di chitarra gli rivolgeva un sorriso più gentile del solito, oppure quando lo guardava con concentrazione suonare, o ancora quando si complimentava con lui per i progressi fatti.
Ryan se ne sarebbe perdutamente innamorato, ne era più che convinto, e la prospettiva lo terrorizzava. Non era abituato a ricevere così tante attenzioni da qualcuno che non fosse membro della sua famiglia o del suo gruppetto di amici.
"Ryan, ci sei?", lo richiamò all'attenzione Eric, sventolandogli una mano, la stessa che poco prima aveva appoggiato sulla sua spalla, davanti agli occhi. Il diciassettenne sospirò ed annuì, rendendosi conto che la sua pessima abitudine di divagare con la mente lo portasse più volte ad estraniarsi completamente dall'ambiente circostante.
"Per un momento ho pensato...ho pensato che stessi per svenire", disse il maggiore. L'espressione turbata che aveva fino a pochi istanti prima si era acquietata. A Ryan tornò in mente quella volta in cui aveva perso i sensi proprio su quel divano, e rabbrividì.
"Non accadrà più, non preoccuparti", si sforzò di rassicurarlo con un sorriso tirato. Eric non smise di guardarlo neanche per un secondo.
"Come va con la cura? Non te l'ho più chiesto per non sembrare invadente, ma m'interessa sapere come stai", disse. Ryan percepì il suo stomaco ribaltarsi dall'emozione. Quella era una delle cose più carine che qualcuno gli avesse mai detto. Sapere che ad Eric importasse della sua salute lo fece sentire apprezzato.
"Va meglio, ci sto ancora lavorando ma, sì, sto bene", dichiarò con convinzione il diciassettenne, senza abbassare mai lo sguardo. Una cosa che il dottor Clive gli aveva intimato di fare era proprio sostenere il contatto visivo col proprio interlocutore, anche in caso si fosse sentito a disagio. Tutto ciò serviva a renderlo più sicuro di sé. "Grazie per l'interesse, comunque".
Eric sorrise, confortato da quella risposta positiva. "E invece quel cretino non ti ha più toccato, vero?", chiese ancora, approfittando del momento di pausa per accertarsi che il suo giovane allievo fosse tranquillo anche sotto quel punto di vista. Non aveva dimenticato lo stato in cui era qualche sera prima quando lo era andato a prendere. Era devastato dai sensi di colpa, ed Eric ricordava perfettamente di aver provato un enorme fastidio verso chiunque l'avesse ridotto in quel modo.
Ryan scosse la testa. "No, ho messo le cose in chiaro e spero che non mi dia più fastidio".
Lo sperò anche Eric, ma non lo disse ad alta voce. Il fastidio viscerale che provava solo a pensare che qualcuno si fosse approfittato del ragazzo seduto davanti a lui lo faceva inalberare. Ryan era così puro, sincero e tranquillo che non meritava gli venisse fatto alcun torto. Forse era il suo aspetto pulito, la sua pelle chiara in contrasto con i boccoli arancioni e gli occhi di un castano chiaro, quasi ambrato, a renderlo simile ad uno di quei putti rinascimentali. Era bello, ma non lo volle ammettere. Una parte di sé ne era consapevole.
Socchiuse gli occhi. "Meriti di meglio", disse soltanto, abbassando di qualche ottava la voce. Ryan annuì deglutendo il groppo che si era bloccato al centro della sua gola.
Il meglio sei tu, pensò, ma rimase in silenzio.
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Felipe si svegliò la domenica mattina già in agitazione. A dirla tutta, non aveva dormito granché quella notte poiché la sua mente era stata completamente impegnata a sviluppare il discorso che avrebbe fatto di lì a poco ai suoi genitori. L'arrivo di Tiago nella loro città si avvicinava, mancava a malapena una settimana e riteneva che fosse giusto dirglielo. Era abbastanza grande da poter risolvere alcune situazioni autonomamente, ma loro erano pur sempre i suoi genitori e trovava fosse scorretto tralasciare un particolare così importante della sua vita.
Sentì affiorare i sensi di colpa quando la sua mente pensò involontariamente a Daniel. Lo doveva dire anche a lui, era consapevole che ci sarebbe rimasto malissimo se l'avesse informato troppo tardi o, peggio ancora, l'avesse scoperto da solo. Si fidava completamente di lui, ma al contempo pensava che temporeggiare ancora un po' fosse la cosa giusta da fare.
A dirla tutta, però, una bugia l'aveva già detta, al suo ragazzo.Quel giorno il diciottenne avrebbe giocato una partita fuori casa e lui, anche se era solito essere presente a tutti i match, aveva deciso di non andarci. Doveva necessariamente parlare con i suoi genitori, che nel pomeriggio sarebbero partiti per un paio di giorni a trovare i genitori di Line, che si vivevano in un paesino a due ore di distanza da Londra.
Felipe non li vedeva da un po', ma non poteva saltare due giorni di lavoro quando si era preso dieci giorni di ferie. Probabilmente quell'estate avrebbe faticato persino ad ottenere una settimana striminzita di vacanza per andare al mare con Daniel e i suoi amici, ma confidava nella bontà del suo capo.
Accese il cellulare ed inviò il buongiorno al suo ragazzo, nonostante sapesse che in vista delle partite il coach vietava l'uso dei cellulari ai suoi giocatori per mantenere sempre viva l'attenzione sull'imminente confronto con gli avversari.
Si passò una mano sugli occhi, stropicciando le palpebre e sbadigliando sonoramente. Non erano neanche le nove e mezza, Margot sonnecchiava sul tappeto ai piedi del letto e Felipe percepì il suono della voce squillante ed allegra di suo padre da a cucina. Solitamente, la domenica mattina usciva di casa di buon'ora, comprava il giornale e si fermava al bar a comprare croissant e ciambelle per la colazione della sua famiglia. Quando Felipe era più piccolo lo accompagnava di tanto in tanto, ed assieme si fermavano anche dal fioraio per comprare un mazzo di fiori a Line.
Poi, però, il ragazzo brasiliano si era impigrito e la mattina preferiva svegliarsi tardi piuttosto che uscire all'alba nel suo unico giorno di riposo.
Stava perdendo tempo, ne era consapevole. Si era dilungato eccessivamente nei suoi pensieri, ed ora era giunto il momento di prendersi le proprie responsabilità. D'altronde erano i suoi genitori, non doveva temerli, eppure le sensazioni provate erano simili a quelle che aveva avuto il giorno in cui aveva deciso di fare coming out, il che risaliva, effettivamente, a poche settimane prima. Non aveva mai avuto così tanta ansia come nel momento in cui aveva dovuto rivelare ai suoi genitori di stare assieme a Daniel, ma ne era valsa la pena. Carl e Line non avevano sbraitato, né l'avevano cacciato di casa come aveva visto fare molte volte nei film.
Sapeva che purtroppo l'omosessualità fosse un tabù per alcune famiglie che non riuscivano ad accettare la normalità. Perché sì, essere gay non è un reato, né una malattia, né una condanna. Chi sta davvero male è colui che osa reputare gli omosessuali diversi, e questo lo pensavano anche i genitori di Felipe.
Si decise a scendere dal letto solo dopo l'ennesima opera di convincimento da parte di se stesso, che consisteva nel ripetersi come un mantra:"puoi farcela, smetti di avere paura, sono i tuoi genitori".
Scese lentamente i pochi gradini che dividevano il piano inferiore da quello superiore, poi si accostò alla parete della cucina che delimitava il corridoio. Sebbene la porta fosse socchiusa, sentiva distintamente la voce di sua madre e quella del marito, intenti a conversare tranquillamente. Decise di entrare dopo aver esalato un respiro colmo d'ansia.
Carl era seduto a capotavola e girava distrattamente il cucchiaino nella tazza colma di latte e caffè, mentre Line stava mangiando il croissant ai frutti di bosco, il suo preferito, che il marito aveva comprato dal loro pasticcere di fiducia. Quando lo videro entrare lo salutarono sorpresi.
"Non ti aspettavamo se non dopo mezzogiorno", si giustificò Line scattando in piedi per accendere il fornello su cui era appoggiato un pentolino col latte.
Felipe si strinse nelle spalle, come per minimizzare la situazione. Line si agitava per delle scemenze. "Non riuscivo a dormire", spiegò, sedendosi all'altro capo del tavolo, così da avere suo padre direttamente davanti a lui.
"Come mai? Ti abbiamo svegliato stamattina? Tuo padre ha fatto cadere una pentola...", domandò, rivolgendo un'occhiata di rimprovero al marito, che alzò gli occhi al cielo.
"No, no, non ho sentito nulla", si affrettò a negare il brasiliano. Ricevette uno sguardo pieno di gratitudine da Carl, che non sopportava le sottili insinuazioni della moglie riguardanti la sua goffaggine nell'ambito culinario. "Però avrei bisogno di parlarvi, è una cosa importante, ecco perché non ho dormito", esordì coraggiosamente il diciannovenne. I suoi genitori si scambiarono un'occhiata veloce, poi tornarono a prestare interamente attenzione al figlio.
"C'entra Daniel?", chiese Line, che non riusciva proprio a rimanere in silenzio. Felipe scosse la testa e congiunse le mani sulla superficie del tavolo.
"L'altro giorno mi è arrivata una mail", guardò prima suo padre, poi sua madre, che lo invitò a procedere. Si era posizionata alle spalle del marito, le mani appoggiate sullo schienale della sedia. "Era mio fratello", esalò. Era consapevole che sarebbero conseguite migliaia di domande, alle quali era pronto a rispondere, ma in quel momento si sentiva più leggero.
"Cosa?". L'espressione di Carl era incredula, così come quella della moglie."Come ha fatto? Nel certificato di adozione non c'erano riferimenti".
"Ha convinto l'assistente sociale a dargli il mio indirizzo e-mail e mi ha scritto". Sbloccò il cellulare e mostrò ad entrambi il lungo testo del messaggio che, ovviamente, i due non compresero. Non conoscevano il portoghese, quindi Felipe glielo lesse traducendo simultaneamente. Ormai lo ricordava a memoria, tante erano le volte in cui l'aveva letto, ma gli faceva sempre uno strano effetto avere la consapevolezza che a breve avrebbe rivisto suo fratello, e adesso che lo sapevano anche i suoi genitori avrebbe potuto sfogare la sua ansia e felicità con qualcuno. Nemmeno Thomas lo sapeva.
Gli mostrò anche la fotografia che provava la loro somiglianza, poi tornò a guardarli. Entrambi sembravano emozionati. Sua madre aveva gli occhi pieni di lacrime.
"É la cosa migliore che mi possa essere mai successa", disse, trattenendo a stento un sorriso entusiasta. "E ci vedremo la prossima settimana, vi rendete conto? Vedrò mio fratello!", esclamò su di giri. Line si coprì la bocca con una mano per reprimere un singhiozzo commosso. Pochi istanti dopo, era scoppiata in lacrime ed era corsa ad abbracciare il figlio. Felipe la strinse dolcemente tra le sue braccia muscolose anche se non era abituato a dimostrare così esplicitamente il proprio affetto ai suoi genitori. Non era un tipo da abbracci, baci e moine, ma coinvolgeva Carl e Line nella sua vita, nella quotidianità tranquilla che gli avevano donato all'età di cinque anni, e sarebbe sempre stato riconoscente nei loro confronti, qualunque cosa fosse accaduta.
Attese che la donna si calmasse, poi sciolse l'abbraccio e la osservò asciugarsi le lacrime.
"N-non ci credo, sono così felice p-per te", riprese a singhiozzare,"ricordo tutti i giorni in cui mi chiedevi che fine avesse fatto tuo fratello, tutti i pianti da cui ho dovuto consolarti", tirò su col naso, "poi le ricerche che hai fatto al computer, era diventata un'ossessione e io pensavo che saresti impazzito, non avresti sopportato più la separazione...mi ha distrutto vederti così infelice e-e sapere che io e tuo padre non potevamo fare nulla per a-aiutarti".
"Mi sono sentita una pessima madre ed ho pregato giorno e notte affinché prima o poi questo momento arrivasse, ed ora...ora che ti vedo così felice so che le mie preghiere e le tue lacrime sono servite a qualcosa".
Anche Carl si era alzato ed aveva cinto le spalle della moglie con un braccio. Guardò il figlio che, anche se non era nato dalla sua unione con la moglie, sentiva a tutti gli effetti suo. La pelle di Felipe era più scura, i suoi occhi verdi, i lineamenti completamente diversi, la statura alta e il fisico tonico, eppure quello sguardo buono era lo stesso riflesso negli occhi di Carl. Non gli aveva insegnato a camminare, ma gli aveva infuso tutti i buoni valori grazie ai quali era diventato l'uomo che era.
Carl non aggiunse nulla, limitandosi a battere un colpo sulla sua spalla solida prima di venir catturato in un abbraccio silenzioso, ma che urlava infiniti ringraziamenti.
"Lo conoscerete anche voi", disse il diciannovenne.
Si guardarono negli occhi, emozionati come non mai.
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Ciao a tutti!
Piano piano Felipe fa progressi, ma farà in tempo a dirlo a Daniel? Preghiamo assieme!
Si fanno anche progressi nel campo Ryan/Eric, o è tutto frutto della fervida immaginazione del giovane chitarrista? Che ne pensate?
Come ho già detto, a breve la storia finirà, non ho ancora in programma un sequel, ma non escludo ogni possibilità. Nel frattempo, pubblicherò un'altra storia a tematica omosessuale della quale nei prossimi capitoli vi anticiperò il nome... Per adesso continuerete ad essere accompagnati da questi quattro ragazzi, poi chissà.
Grazie mille per le letture (siamo quasi a tremila, non l'avrei mai immaginato!), e ci leggiamo alla prossima.
Lavy.
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