29.Tutti tranne te
Ryan sapeva che non avrebbe potuto evitare Nolan ancora per molto. Il giorno prima l'aveva visto percorrere il lungo corridoio della clinica in cui entrambi erano in cura ed era riuscito a sgattaiolare nella toilette appena in tempo. Non sapeva se il diciannovenne l'avesse visto, ma così come lui stesso era riuscito a scorgere i capelli biondi in lontananza, probabilmente Nolan aveva riconosciuto i suoi arancioni.
Non gli era mai capitato di dover sfuggire da qualcuno, solo una volta alle elementari, quando un ragazzino si divertiva a fare gli sgambetti a tutti; non era mai dovuto sfuggire da un ragazzo col quale si era baciato perché, principalmente, Nolan era stato la prima ed unica persona con cui avesse mai scambiato un bacio. Un po' triste, come faccenda.
Da quanto ricordava, il turno di visita del diciannovenne era subito dopo il suo, quindi c'erano buone probabilità di incontrarlo o, al contrario, aveva altrettante possibilità che il ragazzo dai capelli biondi arrivasse in ritardo com'era già successo un paio di volte. Sperò con tutto il suo cuore che quel giorno il ragazzo che l'aveva baciato avesse avuto un contrattempo, qualsiasi cosa, pur di non incontrarlo. Ormai la seduta con lo psicologo stava volgendo al termine, mancavano solo cinque minuti. Il dottor Clive notò attraverso i suoi spessi occhiali da vista l'irrequietezza del paziente e non esitò a farglielo notare ad alta voce.
"A cos'è dovuta la tua agitazione? Vedo che non riesci a rimanere fermo e guardi con insistenza l'uscita", disse con tono piatto. Ryan incrociò le gambe, mordendosi una pellicina del dito. Doveva dirglielo perché era uno psicologo e chi, meglio di lui, poteva capirlo? Non gli aveva accennato nulla di Nolan perché pensava che non c'entrasse nulla con il suo malessere fisico e psicologico, con quella vocina che ancora lo tartassava spesso. Quel giorno aveva saltato il pranzo, ad esempio.
Tuttavia, la strana situazione con Nolan aggravava la sensazione d'ansia ed inadeguatezza che lo torturava quotidianamente, quindi avrebbe fatto bene a parlargliene immediatamente, e non aspettare giorni prima di aprire bocca.
"Ha presente Nolan, vero? Il ragazzo...ehm, biondo". Il dottore annuì, assottigliandolo sguardo.
Ryan sapeva che avrebbe dovuto raccontare tutto dal principio, perché era così che funzionava con il dottor Clive: lui parlava lentamente, l'uomo sulla sessantina prendeva qualche appunto su un foglio di carta, rifletteva e poi discutevano assieme riguardo a come migliorare il proprio comportamento.
In un primo momento gli era sembrato un uomo troppo distaccato, ma poi già dopo la prima settimana aveva carpito nel suo atteggiamento talvolta troppo serio una grandissima professionalità e competenza che, in quel campo, era necessaria più di ogni altra cosa. Aveva smesso di sentirsi eccessivamente a disagio.
"La scorsa settimana mi si è presentato, abbiamo parlato un po' davanti a due tazze di caffè, poi l'altro giorno mi ha chiesto di uscire e siamo andati a casa sua. A me non è mai piaciuto più di tanto, l'ho trovato dall'inizio un po'...strano, sì, ambiguo. Sorride troppo, si è preso confidenze che non gli ho chiesto, tra cui baciarmi", abbassò lo sguardo sulle sue dita chiuse in un pugno.
Solo a ripensarci, la rabbia tornava a ribollirgli nel sangue. "E non solo, mi ha anche toccato, al che io mi sono alzato e me ne sono andato", proseguì, tornando a guardare fisso davanti a sé, "però mi sento in difetto, perché in fondo sono stato io a dargli una possibilità anche se sapevo che non mi sarebbe mai potuto interessare, no?".
Il dottor Clive, come di consueto, si prese qualche minuto per chiarire le sue perplessità. Scrisse qualcosa sul suo amatissimo e segreto foglio.
"In che ambito hai conosciuto Nolan?", gli chiese, inserendo il tappo sulla penna a sfera e riponendola nel taschino della giacca. Vestiva sempre in modo molto elegante ed ordinato.
Ryan lo osservò confuso. Gliel'aveva detto all'inizio, si erano conosciuti lì, sul corridoio della clinica, possibile che se ne fosse già dimenticato? Di solito era sempre ben attento alle più insignificanti minuzie.
"Qui, in clinica", rispose incerto il diciassettenne. A quell'affermazione seguì un cenno di assenso del dottore.
"E in questa clinica in cosa siamo specializzati?", domandò di nuovo.
"In psicologia, suppongo", disse Ryan, corrugando la fronte. Il dottor Clive annuì di nuovo ed appoggiò la schiena conto il retro morbido della poltrona, incrociò le gambe come aveva fatto poco prima il suo paziente e appoggiò sopra il ginocchio destro entrambe le mani.
"Hai la risposta davanti ai tuoi occhi, Ryan", disse l'uomo.
Risposta a cosa?
Rifletté per qualche istante, cercando di trovare un nesso logico a quelle informazioni. L'unica cosa a cui riusciva a pensare, però, era che dopo quel bacio aveva continuato a sentirsi in difetto tutti i giorni.
"Se Nolan viene qui nel mio studio quasi ogni pomeriggio, significa che qualcosa non vada in lui, Ryan", scandì bene le parole il dottore, sporgendosi verso di lui. "Non posso entrare nei particolari per doveri professionali, l'unica cosa che posso consigliarti di fare è affrontarlo, spiegargli una volta per tutte le tue ragioni, poi proseguire per la tua strada senza sentirti in colpa. Il mio ragionamento sillogistico di poco prima doveva servire per far sviluppare nella tua mente un certo tipo di pensieri e per farti arrivare ad una conclusione che, tuttavia, non hai raggiunto...a cos'hai pensato, poco fa?".
Ryan rifletté un po' sulle parole del dottore. Effettivamente, Nolan non gli aveva mai spiegato per quale motivo andasse da uno psicologo e a lui non era mai interessato, ma proprio da quell'omissione era scaturito tutto ciò che era successo successivamente.
Forse le problematiche di cui soffriva il diciannovenne l'avevano portato ad essere espansivo in un modo inquietante, ma questo Ryan non poteva saperlo.
"Ho pensato a quanto io abbia sbagliato", ammise il ragazzo, iniziando a capire cosa gli volesse dire lo psicologo.
"Non hai pensato, invece, a quanto possa aver sbagliato lui? Ti colpevolizzi eccessivamente, e anche questo va a ricollegarsi al discorso già iniziato durante le scorse sedute: alla fine di questo percorso dovrai acquisire maggiore consapevolezza del tuo corpo e delle tue possibilità, ma per raggiungere questo obiettivo è necessario che tu la smetta di addossarti sempre la colpa in determinate situazioni".
Ryan annuì, consapevole di quanta verità si celasse dietro a quelle parole, ma cosciente al contempo che non sarebbe stato per niente facile metterle in atto.
La seduta finì in quel momento, il dottore lo congedò con un sorriso ed una stretta di mano, poi quello sguardo d'incoraggiamento di chi è sicuro del proprio lavoro. Forse sapeva che dietro alla porta chiusa ci fosse Nolan, Ryan non ebbe tempo sufficiente per interrogarsi su ciò, perché doveva andare a casa di Daniel, che era appena tornato dal suo viaggio a Parigi. Non appena aprì la porta dello studio, la prima persona che gli saltò all'occhio fu proprio quella che era stata argomento degli ultimi cinque minuti di seduta: Nolan.
Stavolta non voleva, e non poteva fuggire, forse incoraggiato dalle parole dello psicologo, che gli avevano aperto notevolmente gli occhi.
Il maggiore si alzò guardandolo con un po' di diffidenza e a Ryan tornarono in mente le parole pronunciate poco prima dal dottore. Non era colpa sua, giusto?
Per una volta era riuscito ad essere sincero. Il primo a salutarlo fu Nolan, che esibì un sorriso di circostanza tirato. Ryan mormorò un 'ciao' poco convinto prima di venire oltrepassato dal ragazzo dai capelli biondi, che non lo degnò di uno sguardo.
Lo osservò entrare nello studio chiudendosi la porta alle spalle e cercando di reprimere i sensi di colpa.
In fondo, Nolan non l'aveva mai entusiasmato più di tanto, allora perché continuava a sentirsi incolpa? Per cosa poi, per aver seguito esclusivamente la propria volontà?
Non aveva seguito il consiglio dello psicologo, non aveva avuto la prontezza di fermarlo per parlare, ma doveva farlo. Perciò, inviò un messaggio a sua madre in cui la avvisava che avrebbe tardato di qualche minuto, poi si sedé sulla seggiola di plastica della sala d'attesa. Quella sera sua madre lo avrebbe dovuto accompagnare a casa di Daniel, ma prima di affrontare quel momento doveva pensare al presente, e aveva bisogno di liberarsi del peso che gli gravava sullo stomaco come un macigno.
Attese per più di un'interminabile ora, che trascorse cercando di creare un discorso razionale nella sua mente da ripetere a Nolan, ma non trovò nulla di convincente da dire.
Il fatto era che non conosceva quasi per nulla quel ragazzo, eppure si sentiva in dovere di giustificarsi quando era stato il diciannovenne stesso ad approfittare di lui, incredibile.
Quando la porta dello studio si aprì e Nolan uscì fuori, Ryan scattò in piedi attirando su di sé l'attenzione dei pochi presenti, compresa quella del diretto interessato, che lo guardò di sfuggita ed imboccò il corridoio d'uscita camminando lentamente, una mano a sorreggere la bretella dello zaino che teneva su una sola spalla. Ryan lo affiancò.
"Che c'è, ci hai ripensato?", gli chiese pungente Nolan. Era evidente che fosse rimasto sorpreso dalla reazione che il ragazzo dai capelli arancioni aveva avuto pochi giorni prima.
"In realtà n-no, volevo spiegarti perché l'altra se-", esordì, ma venne bruscamente interrotto dalla mano del maggiore, che si appoggiò sulla sua spalla.
"Guarda che l'ho capito di non interessarti", disse.
"Non volevo illuderti", commentò il diciassettenne. Uscirono assieme dalla clinica e percorsero il breve tratto d'asfalto adibito al parcheggio per il personale ed i pazienti in cura.
Nolan si bloccò davanti alla sua automobile ed infilò le mani nelle tasche dei jeans scoloriti, incurvando con un po' d'amarezza un angolo delle labbra verso l'alto.
"Non sai cosa significa illudere una persona, beato a te". Pigiò il bottone sinistro delle chiavi della macchina, e questa si aprì con uno scatto.
"Mi eri sembrato deluso, l'altra sera", ricordò il diciassettenne. L'aveva vista nei suoi occhi, quell'espressione avvilita.
Nolan sbottò in una risata che gli parve finta. Non era più il ragazzo espansivo e troppo solare che gli si era avvicinato la settimana prima.
"Deluso, sì, per non essermi fatto una bella scopata", sbottò, incupendosi immediatamente. Non diede il tempo a Ryan di ribattere, perché salì nella sua automobile e si allacciò la cintura di sicurezza. "Stammi lontano, quelli come te non sono adatti per...per persone come me", concluse alzando il tono della voce dopo aver abbassato il finestrino, sempre scuro in volto; mise in moto e gli passò vicino. Ryan rimase immobile al suo posto. Il peso sullo stomaco non si era alleggerito. Quella che sarebbe dovuta essere una catarsi, si era rivelata una semplice aggravante alla sua ansia.
Avrebbe seguito il consiglio di Nolan, gli sarebbe stato lontano, non gli avrebbe più rivolto la parola, ma i dubbi persistevano.
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Daniel distribuì una scatolina di macarons colorati ad Abigail, una a Taylor e l'ultima a Ryan. Il gruppetto di quattro ragazzi si era riunito a casa del giovane calciatore che, appena rientrato dalla vacanza, non aveva perso tempo ad invitare i suoi migliori amici. Voleva rivederli prima di riprendere la solita routine costituita da allenamenti massacranti e da noiose lezioni scolastiche pomeridiane o serali. Tutto nella sua vita scorreva in funzione del calcio, e talvolta gli dispiaceva trascurare i suoi amici, sopratutto ora che era entrato in prima squadra.
Ricevette con un sorriso i ringraziamenti di tutti e tre, poi li guardò in faccia uno ad uno, come se non si fossero visti per tre anni.
"Allora, che mi raccontate? É successo qualcosa di interessante in questi giorni?", chiese loro, come se non si fossero messaggiati di continuo. Abigail tossì, lo stesso fece Taylor. Ryan si morse l'interno della guancia e cercò di guardare altrove. Puntò lo sguardo sulla valigia azzurra che Daniel ancora non aveva avuto il tempo di sistemare: era piena di adesivi.
Il diciottenne lo osservò, un po' perplesso dalla loro reazione.
"Che avete fatto?", domandò ancora, alternando lo sguardo tra Ryan, Abby, Taylor, poi ancora Ryan, che stava diventando improvvisamente più rosso ma non accennava a voler parlare. Alla fine, Abigail sollevò gli occhi al cielo e scosse la testa.
"Devi sapere", esordì a gran voce, venendo zittita da Taylor, che le diede uno schiaffo leggero sulla coscia, "che il nostro Ryan è gay", dichiarò con serietà, cingendo le spalle all'amico in questione.
Daniel spalancò la bocca e sgranò gli occhi azzurri, incredulo. "Cosa? Cazzo...", posò gli occhi su Taylor, che gli fece la linguaccia. "Quanti soldi ti devo?".
La ragazza finse di pensarci un po' su, poi "quindici sterline", dichiarò, picchiettandosi l'indice sul mento.
Ryan osservò lo scambio di battute un po' confuso. "Ma che state facendo?", domandò. Daniel aveva aperto il portafogli e stava consegnando nel palmo della mano dell'amica le banconote.
"Questi due cretini hanno scommesso sul tuo coming-out entro quest'anno", gli spiegò Abigail."Daniel pensava che ci avresti messo più tempo, mentre Taylor era sicura che entro dicembre saresti sbocciato come un fiorellino". Gli passò una mano tra i capelli rossicci.
Daniel scoccò un'occhiata irritata a Taylor, poi si rivolse a Ryan. "L'avevamo capito tutti tranne te".
Ryan si sentì un po' a disagio nel constatare la verità di quelle parole. Fino a quel momento non si era mai davvero interessato a qualcuno. I troppi problemi, l'eccessiva timidezza e la poca autostima l'avevano fatto chiudere in se stesso come un riccio.
"Dai, raccontami bene", lo esortò il suo migliore amico, e Ryan ripeté per l'ennesima volta le vicende che l'avevano tenuto sveglio in quei giorni, gli raccontò di Nolan, del bacio, di Eric, sopratutto di lui, perché era grazie al suo insegnante di chitarra che aveva capito di essere attratto dai ragazzi. Parlò per diversi minuti senza fermarsi e senza ricevere interruzioni, aggiungendo anche il confronto che aveva avuto quel pomeriggio con Nolan.
"Questo Nolan sembra uno psicopatico", disse Daniel. Abigail annuì, mentre Taylor appoggiò il mento sul palmo della mano, pensosa.
"A vederlo così, non si direbbe però".
"Mi era sembrato solo un ragazzo molto espansivo, un po' troppo", confessò il ragazzo dai capelli arancioni, stringendosi nelle spalle.
Abigail sospirò.
"Confidiamo nel tuo insegnante di chitarra figo, allora", affermò, facendo diventare Ryan completamente rosso in viso. Scosse vigorosamente la testa.
"Non mi noterebbe neanche se fossi l'ultima persona al mondo", pigolò tristemente, abbassando lo sguardo sulla coperta del letto di Daniel su cui era spaparanzato assieme ai suoi amici. Taylor gli diede una gomitata sulle costole che lo fece borbottare di dolore.
"Smettila, non ti sopporto quando ti sottovaluti!", esclamò.
"Ha ragione, ti prenderei a sberle", le fece eco Abigail, che si voltò verso il calciatore del Millwall, "diglielo anche tu che è figo, il brasiliano non è nei paraggi, puoi farlo". Tutti, Daniel compreso, scoppiarono a ridere.
"Sei bello", affermò convinto il neo-diciottenne, allungando la mano e punzecchiandolo sui fianchi.
"Tradimento, corro a dirlo a Felipe!", esclamò Abigail, fingendosi sconvolta.
"Ma quello oltre a sorridere come se fosse in uno spot della Mentadent, parla pure?", scherzò Taylor. Daniel la incenerì con lo sguardo, ma non se la prese. Sapeva che non fosse seria.
"Quei due fanno a gara a chi si specchia di più, sono uno più vanitoso dell'altro, te lo posso assicurare", continuò Abigail.
"Perché possiamo permettercelo", Daniel le resse il gioco.
Risero tutti di nuovo, continuando a prendersi in giro affettuosamente.
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Felipe vagava nel silenzio della sua stanza da almeno un quarto d'ora, lo smartphone in mano e l'indecisione a frenarlo. Margot lo osservava da terra, sdraiata pigramente sul tappeto adiacente al letto del ragazzo. Quest'ultimo si bloccò ed abbassò lo sguardo sul cagnone, che continuava a fissarlo con uno sguardo di compassione misto a pietà.
"Sono ridicolo, vero?", constatò, senza aspettarsi una risposta dal cane, che chiuse lentamente le palpebre e le riaprì con altrettanta flemma. "Lo prendo per un sì". Sospirò, tornando a prestare attenzione al cellulare, poi prese una decisione. Avrebbe chiamato di nuovo suo fratello, gliel'aveva promesso e ancora stentava a credere che si sarebbero visti nel giro di qualche settimana, per la prima volta dopo anni.
Era stato il desiderio ad ogni suo compleanno, quando arrivava il momento di soffiare le candeline sulla torta, perché non aveva dimenticato la sua famiglia, quella che anche se non aveva nulla, gli aveva lasciato molto. Amava anche Carl e Line, ovviamente, loro lo avevano salvato dalla povertà e dalla miseria, da una vita senza speranza. Erano stati i primi che gli avevano ridato la sua infanzia, che l'avevano aiutato a divertirsi come un ragazzino della sua età. Lo stesso trattamento era capitato anche a suo fratello, che il destino aveva voluto crescesse lontano migliaia di chilometri da lui, ma che ora sempre lo stesso destino gli aveva permesso di ritrovare.
Fece partire la telefonata, si assicurò che la porta della sua camera fosse chiusa, poi si avvicinò alla finestra e guardò fuori da essa. Suo padre stava tagliando un po' d'erba secca in giardino.
Tiago rispose dopo tre squilli, era entusiasta. Lo salutò in portoghese, e Felipe ricambiò. Trovava sempre un po' strano parlare una lingua che non utilizzava con nessuno.
"Speravo mi richiamassi, ho passato questi giorni in ansia", disse dall'altra parte del telefono il fratello maggiore di lui solo di pochi mesi.
"Sono tornato stamattina da Parigi, durante quei giorni lì non ho avuto un minuto di tempo, davvero", rispose, perché dire che ancora non aveva raccontato nulla a nessuno lo avrebbe fatto sentire in colpa per qualcosa che reputava estremamente personale. Ne avrebbe parlato con tutti a tempo debito.
"Lo so, me l'hai detto, com'è andata?", domandò Tiago. Felipe stentava a credere che stesse avendo una normalissima conversazione con suo fratello, come se fossero rimasti in contatto per tutti quegli anni in cui, in realtà, neanche sapeva dove abitasse e che stile di vita conducesse.
"Bene, Parigi è stupenda, anche se Londra ha più fascino".
"Vedremo se è vero tra tre settimane", ribatté prontamente Tiago.
"Ti farò da guida, va bene?".
"Non vedo l'ora".
"Non vedo l'ora anche io", gli fece eco Felipe.
Sperò che quelle settimane volassero in un batter d'occhio. La curiosità era tantissima. Appoggiò la fronte sul vetro freddo della finestra mentre ascoltava la voce squillante di Tiago raccontargli della sua giornata. Lavorava in un ristorante noto in città come cuoco, a detta sua se la cavava bene ai fornelli. Lui, invece, era completamente negato.
Chissà in quante cose erano differenti e quanti interessi avevano in comune; l'avrebbero scoperto nel giro di tre settimane.
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Ciao a tutti!
In un momento di pausa dallo studio per la maturità, ci tenevo ad aggiornare...ormai la storia sta QUASI volgendo al termine, piano piano avremo la risoluzione (o no? Chissà), di tutti gli intrighi. Sto scrivendo già un'altra storia sempre a tematica omosessuale che non vedo l'ora di pubblicare, ma devo aspettare che finisca questa, non posso gestirne due assieme. Cercherò di accelerare la pubblicazione degli ultimi capitoli, ma non ve ne assicuro uno al giorno, dipende tutto dai miei impegni.
Ad ogni modo, grazie per aver letto fin qui, ci vediamo alla prossima.
Lavy.
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