22.Essere carini
Daniel provò a viversi la sua ultima serata da minorenne con spensieratezza senza riuscirci appieno. I suoi migliori amici tentarono in tutti i modi di risollevargli il morale ed il giovane calciatore riuscì a fingere, per qualche ora, di divertirsi. Guardarono vecchie fotografie di quando erano più piccoli mangiando il cibo che avevano preso in un fast food, poi giocarono a decine di giochi di società senza smettere di parlare per un secondo. Ryan aveva portato con sé la sua chitarra ed anche se non se la cavava benissimo, suonò la canzoncina di auguri alla perfezione allo scoccare della mezzanotte.
Daniel non aveva immaginato quella serata così, appena una settimana prima. Aveva pensato che assieme ai suoi migliori amici ci sarebbe stato anche Felipe a rendere il tutto più speciale, e invece si era ritrovato a finire di sistemare le ultime cose nella valigia, pronto a partire per Parigi assieme ai suoi nonni che lo sarebbero passati a prendere alle cinque di quella stessa mattina. Non riuscì ad essere completamente entusiasta per quel viaggio, sebbene fosse consapevole che si sarebbe divertito indipendentemente dalla strana situazione che si era andata a creare con Felipe. Non doveva rovinarsi il viaggio che i suoi nonni avevano deciso di regalargli.
Salutò con un abbraccio i suoi amici che, alle due di notte, decisero che fosse giunto il momento di tornare a casa. Era passata a prenderli la sorella maggiore di Abigail, reduce di una serata in discoteca. Daniel osservò i tre diciassettenni entrare in macchina, poi chiuse la porta di casa premurandosi di fare anche due giri di chiave. Sua sorella e sua madre dormivano beate nelle loro camere dopo che, a mezzanotte, si erano unite ai festeggiamenti mangiando una fetta di torta alla panna. Il resto della serata si era concentrato in camera del neo-diciottenne, tra chiacchiere e preparativi della valigia. Ora che Daniel fu da solo, riuscì a pensare lucidamente alla sua giornata. Si era allenato per l'ultima volta prima della pausa, durante la quale alcuni suoi compagni erano stati convocati per il ritiro con la squadra della nazionale. Ci sarebbero state due settimane di stop, poi gli allenamenti sarebbero ripresi regolarmente.
Sentiva ancora la delusione bruciargli dentro lo stomaco perché non era riuscito a parlare con Felipe, ma sapeva che non sarebbe finita così, non poteva finire così.
Infilò in una tasca esterna della valigia qualche pacchetto di fazzoletti, poi compresse le due parti con il ginocchio per chiudere la zip e mettere il lucchetto di sicurezza. Sospirò, esausto dalla giornata, e controllò l'orario sul cellulare. Erano le quattro e tra meno di un'ora sarebbe dovuto partire. Di dormire non se ne parlava proprio, quindi uscì di soppiatto dalla sua camera e si chiuse in bagno per fare una doccia.
Quaranta minuti dopo era sulla soglia di casa sua con la valigia appoggiata contro una gamba ed il telefono in mano. Qualche minuto prima sua nonna lo aveva chiamato, avvertendolo del loro imminente arrivo. Daniel aveva salutato sua madre ed Emma qualche ora prima che andassero a dormire e non aveva intenzione di svegliarle nuovamente. Il quartiere era immerso in un gelido e soporifero silenzio, sebbene il giorno si stesse svegliando lentamente. Neanche una macchina passava per strada e le luci all'interno delle abitazioni erano spente. Il diciassettenne si strinse meglio nel giacchetto pesante e socchiuse gli occhi, in preda al sonno. Avrebbe dormito durante le due ore e venti di volo. Controllò per l'ennesima volta di avere con sé documenti e biglietti, in preda all'ansia: aveva sempre avuto il terrore di perdere il passaporto. Fece mente locale dell'intero contenuto della sua valigia, sperando con tutto il suo cuore di non aver dimenticato nulla di vitale utilità. Stava congelando.
Fu tentato di chiamare sua nonna per chiederle dove diamine fossero finiti, poi un paio di fari luminosi riempirono la sua visuale ed un'automobile si fermò davanti al cancello. Daniel socchiuse gli occhi, turbato dall'improvvisa luce, poi afferrò la valigia per il manico e prese a scendere i gradini, un po' assonnato. Gli si gelò il sangue nelle vene quando, però, alzò lo sguardo. Quella non era l'Opel Astra grigia di suo nonno. Non avevano mai avuto una Fiat 500x, quella ce l'aveva solo una persona che conosceva, Felipe. Indietreggiò di un passo, confuso. Cosa significava tutto ciò?
Accadde velocemente.
Perché adesso Felipe era sceso dall'automobile? Stava sorridendo.
Il cuore di Daniel batteva fortissimo.
"Dai, metti la valigia dietro e partiamo", lo esortò.
Partiamo.
Il diciottenne non si mosse e continuò a guardare imbambolato il brasiliano.
Il sorriso di Felipe vacillò per un momento, poi si voltò verso l'automobile. Quando tornò a guardarlo, sorrideva di nuovo.
"Prenditela con tuo nonno, è stata una sua idea", disse avvicinandosi di qualche passo.
"Cosa?". Daniel non stava capendo.
"Tutto", Felipe allargò le braccia, poi le fece ricadere lungo i fianchi. "Gli ho ripetuto mille volte che mentirti non fosse la cosa migliore per farti una bella sorpresa e quando te ne sei andato, l'altro giorno, stavo per rivelarti tutto". Spiegò. Nello sguardo confuso del calciatore si fece spazio un barlume di speranza.
"Anche perché so che ci sei rimasto malissimo ed è l'ultima cosa che volevamo, non siamo stati bravi ad organizzarci alle tue spalle ed immagino che passare questi giorni senza uno straccio di spiegazione ti abbia fatto impazzire...beh, parlo per me, ma io stavo per dare di testa. Ho cercato di convincere tuo nonno a dirti la verità, però lui è un abile bugiardo e mi ha convinto a trattenermi", disse velocemente, sentendosi meglio subito dopo aver rivelato il piano che si celava dietro a quei giorni di perdita di contatto.
Daniel rimase per un po' in silenzio. In sottofondo si sentiva il rumore della macchina accesa, e dentro di essa i suoi nonni che parlavano tra di loro.
"Ma quale verità?", osò chiedere. Non aveva ben assimilato il discorso contorto di Felipe. Quest'ultimo corrugò le sopracciglia. "Che vengo a Parigi con voi, cretino, davvero non l'avevi ancora capito?", disse, chiarendo le idee al suo ragazzo.
Ma certo, quei messaggi, quelle chiamate fatte di nascosto, erano tutte tra lui e suo nonno. Avevano organizzato assieme il viaggio, ed Albert aveva pensato bene d'invitare con un po' di ritardo anche Felipe, sapendo che in questo modo suo nipote si sarebbe divertito di più. Improvvisamente tutto il rancore, la delusione e la tristezza accumulata in quei giorni scomparvero, lasciando spazio ad un appagante senso di sollievo. Abbracciò con slancio Felipe, stringendo le braccia attorno al suo busto ed affondando il viso sul suo petto, all'altezza delle clavicole. Sentì l'altro ragazzo sospirare di sollievo.
"Non so se vorrei prenderti a pugni per avermi lasciato nel dubbio che mi tradissi per tre giorni o baciarti perché sei qui ed era tutto organizzato per me".
La presa attorno alle sue spalle, che fino a quel momento era stata stretta, si ammorbidì per permettere a Felipe di guardare negli occhi Daniel. Le loro iridi vennero in contatto, azzurro contro verde.
"Io ti consiglio la seconda", mormorò il maggiore. Incurvò un angolo della bocca verso l'alto. Daniel osservò le sue ciglia scure sbattere, poi lo baciò dopo giorni di mancanza e delusione. Allora che tutto aveva riacquistato il suo senso, si sentiva assuefatto dal profumo del brasiliano, dal suo tocco sempre gentile e dalle sue labbra calde che premevano delicatamente sulle sue.
Suo nonno Albert gli fece l'occhiolino non appena mise piede nell'automobile e lui ricambiò il gesto sorridendogli.
"E' un bravo giovanotto", commentò avvicinandosi all'orecchio del nipote. Daniel incrociò lo sguardo con quello del suo ragazzo tramite lo specchietto retrovisore.
Come aveva potuto dubitare di lui? I suoi occhi verdi non mentivano le sue emozioni, che erano forti e sincere.
Adesso tutto era tornato al proprio posto.
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Quando Eric gli aveva proposto di rimanere a cena a casa sua non aveva minimamente messo in conto il silenzio imbarazzante che sarebbe calato tra loro due durante il pasto. Il suo insegnante non sembrava a disagio, intento com'era a gustarsi la sua pizza. Avevano deciso di comprarne solo una assieme ad una vaschetta di patatine fritte, e Ryan aveva tacitamente ringraziato il suo tatto. Mangiare metà pizza rientrava già nelle sue possibilità, sebbene il suo stomaco dovesse ancora abituarsi ad ingerire più cibo del solito. Quella mattina non era riuscito a fare colazione e sapeva bene che avrebbe dovuto dirlo alla nutrizionista. Non voleva mentire, ma era ancora troppo debole per riuscire a seguire alla lettera la dieta impostagli. Odiava sapere che il suo corpo avrebbe ripreso un po' di peso, ma a breve si sarebbe segnato in palestra. Tutto si basava sull'aiuto che stava ricevendo in quei giorni, a partire da Graham e sua madre. La loro preoccupazione era evidente, così come lo erano i sensi di colpa per averlo lasciato da solo con il suo malessere, seppur inconsciamente. Il percorso era ancora lungo, ma lì, in fondo ad esso, riusciva a vedere uno spiraglio di luce.
Luce che brillava in modo particolare anche negli occhi chiari di Eric, adesso puntati su di lui.
"In Italia la fanno meglio la pizza", osservò pulendosi le labbra con un fazzoletto di carta.
"L'hai mai mangiata lì?", gli chiese dando un morso allo spicchio che teneva a mezz'aria tra la sua bocca e il piatto. Non era poi così male, forse il sugo era un po' troppo speziato.
Il venticinquenne annuì. "Ho fatto un Erasmus di nove mesi a Roma due anni fa". Ryan rimase con la bocca mezza aperta e quando se ne accorse si sbrigò a chiuderla.
"Forte! Mi piacerebbe moltissimo fare una cosa del genere", commentò, "quindi sai bene l'italiano?", domandò curioso.
"Abbastanza bene, si, l'ho dovuto imparare per forza, altrimenti non avrei potuto dare alcuni esami".
Il volto di Ryan si illuminò. "Avanti, dimmi qualcosa in italiano!", lo incitò. Eric ci pensò un po' su. Osservò i capelli rossi del diciassettenne, il suo sguardo d'attesa e il sorriso che gli increspava le labbra.
"Sssei carino", disse marcando un po' troppo l'accento della penisola. Ryan corrugò le sopracciglia, picchiettando con l'indice sul mento.
"Cosa potrebbe significare?", domandò tra sé e sé. "Aspetta, ma è una parolaccia?". Adesso era rivolto al maggiore, che scosse il capo.
"Mmh...forse significa 'come va'?", tentò poco convinto. Eric scosse di nuovo la testa.
"Allora, 'mi piacciono i cani', sicuramente", riprovò stavolta più fiducioso.
"No, e poi io li detesto, preferisco i gatti", rispose.
"Anche io", concordò Ryan, poi tornò a pensare ad un possibile significato delle parole in italiano pronunciate dal venticinquenne. "Mi arrendo, dimmelo tu", sbuffò sentendosi un po' sconfitto. Incrociò le braccia al petto in una maniera che Eric trovò adorabile, ma non lo disse ad alta voce, ovviamente.
Scosse la testa e batté più volte le palpebre. "Non te lo dico, vivrai col dubbio", gongolò dando un morso all'ultimo spicchio di pizza.
Ryan cercò di tenere la frase a mente per tradurla poi su internet e rivolse al venticinquenne un sorriso furbo.
L'atmosfera si era rilassata maggiormente e le voci dei due ragazzi riempivano l'appartamento.
Ad Eric piaceva questa nuova versione di Ryan, un po' meno timido e più sereno.
In quel momento nessuna ombra scura offuscava la lucentezza dei suoi occhi castani, che erano socchiusi. Ai loro lati c'erano due rughette d'espressione che il maggiore non aveva mai notato prima di allora.
La sua bellezza era sempre stata soffocata dalla sofferenza e dall'ansia, però quella sera, per la prima volta, Eric vide Ryan sereno e spontaneo, come forse lo era stato un tempo, prima di ammalarsi.
Pensò alle conseguenze che il dolore avevano avuto su di lui: appena una settimana prima, l'aveva visto sdraiato su un lettino d'ospedale, pallido e stanco. In sette giorni i miglioramenti erano tangibili, il venticinquenne riusciva a vedere in quel sorriso solo sincerità e non malinconia. Sapeva che la riabilitazione sarebbe stata lunga e lenta, però non poté fare ameno di sentirsi sollevato nel vederlo ridere e parlare tranquillamente.
Forse, a Ryan serviva qualcuno che lo facesse sentire speciale, qualcuno con cui condividere una pizza, con cui suonare la chitarra, con cui parlare a cuore aperto. Quel ragazzino di diciassette anni aveva bisogno di affetto, di qualcuno oltre alla sua famiglia che si preoccupasse di lui ed Eric realizzò,in quel preciso istante, che lui sarebbe stato disponibile a farlo.
In quel preciso istante, promise a se stesso che avrebbe fatto sorridere di più Ryan.
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Ryan tornò a casa alle undici e quarantacinque con lo stomaco in subbuglio, un po' per colpa del cibo ingerito, un po' perché aveva passato una bellissima serata in compagnia di quella che ormai poteva definirsi, con grande imbarazzo, la sua cotta. Temporanea, sperò, perché non sapeva se sarebbe riuscito a resistere oltre. Ogni sguardo lo faceva tremare e quando parlava temeva sempre di ingarbugliarsi con le parole, facendo una pessima figura. Si sentiva un adolescente in piena crisi ormonale.
O forse lo era, dopotutto.
Quei sentimenti erano in lui così nuovi, che riuscivano a contrastare la puntina di malessere sempre presente nel suo cervello. Non sarebbe ben riuscito a spiegarlo, ma era come se all'interno della sua mente ci fosse stata una voce che di tanto in tanto gli ricordava quanto fosse grasso, e l'unico modo per farla tacere era ascoltandola sputargli addosso insulti, per poi digiunare, esercitarsi e piangersi addosso.
Assieme alla psicologa stavano lavorando per farla sparire, ma sapeva quanto sarebbe stato complicato.
Graham gli augurò la buonanotte, poi si chiuse in camera da letto assieme a sua madre. Ryan sospettava che stessero cercando di avere un bambino ed era felice per entrambi, perché finalmente dopo quasi diciotto anni, Carol si stava ricostruendo una vita.
Entrò anche lui nella sua stanza e s'infilò il pigiama per poi rifugiarsi sotto le coperte calde. Non era un tipo particolarmente pigro, non lo era stato sopratutto negli ultimi mesi, ma la sensazione di relax che si provava da sdraiati sotto un paio di strati di coperte non l'avrebbe provata da nessun'altra parte, di questo ne era sicuro.
Passò una decina di minuti a rispondere ad alcuni messaggi che gli avevano inviato Taylor e Daniel; quest'ultimo l'aveva avvisato del suo arrivo nella capitale francese, poi gli aveva inviato una lunga nota audio in cui gli spiegava della sorpresa fatta da Felipe. Ryan era felice per il suo migliore amico, anche se provava un po' di innocua invidia nei confronti dell'amore che era nato tra lui ed il ragazzo brasiliano. Sperò con tutto il cuore che prima o poi capitasse anche a lui.
Chiuse gli occhi ed appoggiò il telefono sul comodino, mentre iniziava a ripercorrere mentalmente tutti gli avvenimenti della giornata come era solito fare prima di addormentarsi. Era un modo per rilassarsi, lo faceva da quando ne aveva memoria.
Improvvisamente, però, spalancò le palpebre ed afferrò nuovamente il cellulare.
La frase che gli aveva detto Eric, quella in italiano!
Aveva suscitato la sua curiosità e voleva assolutamente capire cosa significasse. Cercò sul motore di ricerca preimpostato dal cellulare un traduttore online, poi digitò incerto la breve frase. Sai karrino. Nessun risultato. Sicuramente l'aveva scritto male.
Sai charrino. Ancora nulla; sbuffò frustrato.
Sai carrino. Forse stai cercando "Sei carino". Ryan toccò il punto del touch-screen in cui era spuntata la correzione, poi attese qualche istante.
Sto traducendo, recitava una scritta al centro della pagina.
You look cute.
Come prima reazione, Ryan corrugò le sopracciglia. Successivamente, controllò di aver letto bene la traduzione e di aver scritto correttamente le parole. Ascoltò anche la pronuncia, perché magari non era quella la frase, tuttavia dovette ricredersi. Immaginò di nuovo Eric dirlo, e non ebbe più dubbi: era proprio quella.
Arrossì. Perché mai avrebbe dovuto fargli un complimento del genere? Sicuramente si era sbagliato, magari non ricordava bene la lingua. Magari voleva semplicemente dire"mi piace suonare la chitarra", forse avevano un suono simile. Provò a scrivere quella frase nello spazio adibito alla lingua inglese, poi lo tradusse in italiano. No, impossibile, anche la pronuncia era, oltre che incomprensibile, completamente diversa.
Davvero gli aveva detto che era carino? Stentava a crederci.
Doveva esserci una spiegazione razionale, forse voleva dire un'altra cosa o, peggio ancora, voleva deriderlo pensando che non sarebbe mai riuscito a sapere cosa gli avesse detto. Quella consapevolezza lo rattristò, ma poi giunse alla conclusione che Eric non avrebbe mai detto una cosa del genere.
Quindi, lo trovava davvero carino? Il cuore prese a battergli con maggiore velocità.
Ovviamente, quella notte faticò ad addormentarsi e quando ci riuscì, sognò occhi grigi come il cielo di Londra e capelli scuri.
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Ciao a tutti!
Eccomi tornata con un nuovo capitolo! Volevo intitolarlo "tutti i nodi vengono al pettine", però ho preferito mantenermi sul vago e scegliere una frase che rimanda alla scena tra Eric e Ryan, sebbene l'evento più importante del capitolo sia la riappacificazione tra Daniel e Felipe...ve lo aspettavate?
Diciamo che era abbastanza improbabile che Felipe tradisse Daniel, però mai dire mai, tutto può sempre accadere (non in questo caso, eheh)...Per quanto riguarda Ryan, invece, ammette di avere una cotta stratosferica per Eric e come biasimarlo? L'insegnante è così ambiguo e carino che chiunque ne rimarrebbe folgorato.
Non so più cosa dire, se non un enorme grazie per le letture, i voti ed i commenti che lasciate ogni volta...spero di tornare ad aggiornare con più costanza, ma al momento la scuola non mi lascia un momento di tregua ed internet non collabora, dato che ogni volta che voglio aggiornare il Wifi sparisce e sono costretta a collegarmi col telefono.
Ad ogni modo, ci leggiamo alla prossima.
Lavy :)
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