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20.Rimorsi e Bugie

Ryan non si sentiva molto bene, quel lunedì mattina che sanciva la ripresa delle lezioni dopo una settimana di malattia. Aveva passato sette giorni tra mal di gola, raffreddore e freddo. La sera prima era andato a dormire presto, perché era conscio che ci avrebbe messo un'eternità ad addormentarsi. Succedeva sempre così, quando sapeva che il giorno dopo avrebbe dovuto cambiare la sua routine: la notte che anticipava il primo giorno di scuola non dormiva mai, troppo preso dall'ansia...per cosa, poi, doveva ancora capirlo.

Uscì di casa alle sette e quarantacinque stringendosi nel cappotto pesante per ripararsi dal freddo che gli stava facendo congelare le dita e la punta del naso, affrettando il passo per arrivare a scuola e ripararsi così dal vento che gli sferzava il viso.

Camminò a passo veloce per i primi cinque minuti, poi fu costretto a rallentare: sentiva le gambe molli e la testa girare. Cercò di resistere per qualche altro metro, riducendosi ad arrancare appoggiato al muro di un palazzo, poi dovette bloccarsi ed appoggiare le spalle contro la parete dell'edificio.

"Stai calmo", sussurrò a se stesso, chiudendo gli occhi e concentrandosi sul suo respiro. Funzionò per un breve momento in cui si sentì meglio, e pensò di essere finalmente riuscito a domare il proprio corpo, ad avere il pieno controllo di sé. Riprese a camminare lentamente, ma esattamente due minuti dopo cadde a terra, battendo le ginocchia ed i palmi delle mani contro l'asfalto. Sentì i passi di qualcuno arrivare in lontananza, una voce maschile gli chiedeva come stesse, poi nulla, se non il buio.


Quando Ryan riprese coscienza si sentì morire dentro. Era sdraiato su un maledetto lettino ospedaliero, in una stanza dalle pareti tinteggiate di verde, un verde smorto, poco vivace, ma rispecchiava fedelmente l'atmosfera che aleggiava lì dentro.

Davanti a lui c'erano Graham e sua madre, entrambi appoggiati all'estremità del lettino e non appena si accorsero che il diciassettenne fosse sveglio sgranarono gli occhi.

"Vado a chiamare qualcuno", disse prontamente l'uomo prima di sparire fuori dal suo campo visivo.

Carol si avvicinò titubante al figlio, sollevata che fosse di nuovo cosciente ma allo stesso tempo non capiva, non capiva davvero perché il suo bambino si fosse ridotto in quello stato. Avevano parlato con un dottore poco prima, gli erano state fatte molte domande, poi avevano ricevuto un responso inquietante: Ryan soffriva di un disturbo alimentare molto frequente nei ragazzi della sua età. Lei non se ne era accorta, nessuno l'aveva fatto. Cercò di cacciare indietro le lacrime, pensando a quanto si dovesse essere sentito solo suo figlio in quei pochi mesi. Le si strinse il cuore. Non si era comportata affatto bene, l'aveva trascurato a causa del lavoro, della nuova casa e del nuovo compagno. Si sentiva malvagia.

Ryan non proferì parola, non sarebbe servito a nulla; era giunta l'ora di fare i conti con la verità dopo due mesi di silenzi, e ne era rassegnato. Graham tornò in stanza seguito da un medico che indossava un camice bianco. Non era anziano, doveva avere al massimo una quarantina d'anni; gli sorrise in modo rassicurante, come facevano tutti i dottori con i loro pazienti per tranquillizzarli. Si sporse per controllare che la flebo stesse facendo il suo dovere, e solo in quel momento Ryan si accorse di essere intubato. Non ci aveva fatto caso, tanto i suoi arti erano intorpiditi. A dirla tutta, provava solo un grandissimo mal di testa.

"Come ti senti?", gli chiese. Sfilò una penna dal taschino del camice e scrisse qualcosa sul foglio che teneva appoggiato sul bordo del letto. Probabilmente stava segnando il numero della stanza, o qualcosa del genere.

"U-un po' stanco", rispose sinceramente Ryan. Si schiarì la voce arrochita. Il dottore annuì concentrato.

"A breve riprenderai le forze, non temere", lo rassicurò con tono pacato. "Tuttavia, devo farti alcune domande riguardo alle cause di questo svenimento e spero che tu mi risponda il più sinceramente possibile", proseguì. Il diciassettenne tossì per smorzare il nervosismo.

"Solitamente non tratteniamo molto i pazienti che svengono, ma ho parlato con i tuoi genitori". Ryan avrebbe voluto specificare che Graham non fosse suo padre, ma rimase in silenzio "ed ho ritenuto opportuno fare degli accertamenti. Mi hanno detto che in questo periodo hai perso molto peso, ti sei confrontato con qualche nutrizionista per una dieta?", domandò.

Ryan scosse la testa senza riuscire ad aprir bocca. Non aveva vie di scampo.

Il medico appuntò qualcosa sul foglio, poi tornò a guardarlo attraverso le lenti degli occhiali. "Hai seguito qualche dieta su internet? Hai frequentato una palestra?".

"N-no per e-entrambe", sussurrò. Sentì un groppo occludergli la gola.

Ancora il rumore della penna che scorre sul foglio.

"Hai fatto uso di pillole, lassativi o quant'altro?".

Il ragazzo scosse la testa, abbassò lo sguardo sulle sue mani pallide che stringevano debolmente le lenzuola.

"Hai, per caso, praticato digiuno e dato di stomaco ripetutamente, subito dopo i pasti ?".

Eccola, la domanda giusta per riassumere la sua pessima ossessione. Aveva digiunato per ore, giorni, fino a sentire le forze abbandonarlo, costringendo a rimanere a letto; aveva vomitato una sola volta, alla vigilia di Natale.

Non rispose perché non ce ne fu bisogno, non alzò neanche lo sguardo. Si stava vergognando come un ladro e realizzò solo dopo aver toccato il fondo la gravità ed il peso delle sue azioni.

"Gradirei una risposta", disse il dottore. Ryan sollevò lentamente lo sguardo, deglutendo. Tre paia d'occhi erano puntati su di lui, quelli rassicuranti del medico e quelli preoccupati di Caroline e Graham.

"S-si", ammise amaramente. Aveva bisogno di aiuto, se ne era accorto da qualche settimana, da quando era svenuto a casa di Eric. Quell'episodio aveva cambiato qualcosa in lui, gli aveva dato una lucidità che non possedeva da tempo, ma non era stato abbastanza forte da affrontare se stesso. Ci aveva provato a mangiare di più, a smettere di contare calorie, ma non era servito a nulla, se non a farlo stare peggio. Ryan era conscio del suo problema e per la prima volta dopo due mesi sperò di essere aiutato. Peggio di così non sarebbe potuta andare.

"Potrei avere maggiori dettagli?".

Gli sembrò una costrizione celata dietro ad una domanda.

Ryan sospirò, stringendo maggiormente la coperta bianca tra le dita.

"Io-ehm, io p-pensavo che fosse giusto, quello che stavo facendo. Contavo le calorie di qualsiasi cosa m-mangiassi e-e mi esercitavo per perdere peso. Ho visto che funzionava e dopo un po' ho iniziato a...a non mangiare per ore", si fermò, mordendosi il labbro, sopraffatto dal nervosismo, "e certe volte per giorni, vedevo che nessuno si accorgeva di come stessi dimagrendo e, beh, ho continuato finché non sono finito qui". Parlò con lentezza e a bassa voce, ogni parola che usciva dalla sua bocca causò dolore a lui e ai due adulti vicino a lui. Erano stati superficiali.

Il dottore ascoltò attentamente la confessione, poi annuì e scrisse qualcosa sul suo foglio, chiudendolo poi in quattro e sistemandolo nel taschino del camice.

"Apprezzo la tua collaborazione, molti pazienti non avrebbero ammesso il loro stato e questo denota un passo in avanti nel processo di riabilitazione. Ti teniamo in osservazione qui fino a domattina, però dovrai subito recarti dal nutrizionista e da uno psicologo, sono entrambi convenzionati dall'ospedale se si fa la richiesta con il foglio medico che ho compilato poco prima", snocciolò.

Riabilitazione.

Nutrizionista.

Psicologo.

Ryan avrebbe dovuto aspettarselo, eppure fu come ricevere un pugno nello stomaco che gli rese ancora più nitida la situazione. Annuì con gli occhi lucidi, poi abbassò lo sguardo.

"Dove si fa la richiesta?",sentì che sua madre domandò al medico.

"Al primo piano, signora, proprio all'accettazione. Le consiglio di recarcisi subito, dovrebbe esserci poca affluenza a quest'ora".

Carol annuì e si sistemò la borsa sulla spalla, lanciando un'occhiata significativa a Graham, che annuì debolmente. Sarebbe rimasto lui con Ryan.

"Allora vado", sussurrò, "è tutto?", chiese poi al medico, che annuì.

"Per ora si, stasera verrò a controllare la situazione assieme allo psicologo che vi assegnerà la struttura", asserì alternando lo sguardo tra il diciassettenne e sua madre. Uscì dalla stanza dopo aver salutato cortesemente i presenti, affiancata da Carol.

Graham sospirò, strusciando la sedia fino al bordo del letto. Indossava ancora la divisa da lavoro, si era precipitato in ospedale non appena aveva concluso il turno di notte in caserma ed era esausto.

Osservò il giovane musicista con un po'di malinconia. Si sentiva in colpa.

"Scusa", mormorò, appoggiandoun gomito sul materasso. Ryan alzò lo sguardo di scatto.

"Per cosa?".

"Per non essermene accorto prima. Avevo iniziato a sospettare qualcosa, ma forse era troppo tardi". Lo disse con amarezza e risentimento verso se stesso.

"Non è colpa vostra, voi non c'entrate nulla, è partito tutto da me", disse il diciassettenne a bassa voce. Graham scosse la testa.

"Ti abbiamo lasciato solo con i tuoi pensieri strani", disse e Ryan non ebbe la forza di ribattere.Era solo colpa sua, sua e di nessun altro.

Qualcuno bussò alla porta della stanza e il compagno di sua madre si alzò in piedi.

"Oh, buonasera", salutò una voce. Ryan si voltò nella sua direzione con il cuore che aveva preso a battere più velocemente. Era Eric. Il venticinquenne gli si avvicinò con un sorriso abbozzato sulle labbra. "Come ti senti?", gli chiese.

Graham si sentì di troppo ed uscì dalla stanza con la scusa di prendere un caffè al bar.

Ryan scrollò le spalle, e quella risposta fu molto eloquente. Eric si sfilò i guanti e li mise intasca, poi fece il giro del letto per sedersi sulla sedia precedentemente occupata dal poliziotto.

"Come l'hai saputo?", gli chiese il ragazzo dai capelli rossi. Il venticinquenne lo guardò con quegli occhi grigi e magnetici.

"Oggi avevamo lezione ma dopo un'ora tu ancora non ti presentavi, allora ti ho chiamato al cellulare e mi ha risposto tua madre".

Ryan sgranò gli occhi, pronto a fare un'altra domanda, ma Eric lo precedette.

"No, non mi ha detto nulla ed io non le ho chiesto niente, perché ho capito da solo cosa fosse successo e mi dispiace così tanto". Appoggiò una mano sulla sua e strinse appena la presa. Il battito di Ryan accelerò ancora e distolse lo sguardo, imbarazzato.

Forse per Eric quel contatto non significava nulla se non una dimostrazione di affetto.

Forse per Eric era normale.

Ma per Ryan no.

Quel semplice gesto gli scaldò il cuore.


Daniel si rilassò sotto il getto caldo dell'acqua, percependo i muscoli rilassarsi. Era stata una giornata tremendamente stancante: si era allenato per tutta la mattinata, poi aveva studiato per i test d'ingresso nella scuola privata e infine era corso in ospedale da Ryan.

Parlare con il suo migliore amico gli aveva fatto scendere il morale sotto le scarpe, l'aveva fatto sentire insulso. Ryan soffriva di un disturbo alimentare e lui neanche se ne era reso conto, lo aveva trascurato e non gli era stato accanto nel periodo più difficile della sua vita, probabilmente. Era stato impegnato con il calcio, ma non riusciva a giustificarsi con questa scusa, sebbene effettivamente lo sport avesse impegnato gran parte delle sue giornate, negli ultimi mesi. Il passaggio dalla seconda alla prima squadra era stato impegnativo, ma Daniel era sicuro che avrebbe potuto fare di più. Si era seduto vicino al suo migliore amico e l'aveva osservato bene negli occhi. Era esausto, smunto e con un tubicino attaccato al braccio; come cavolo aveva fatto a non accorgersi del suo malessere?

Gli veniva da piangere, non si era mai sentito così inutile come in quel momento.

A peggiorare la situazione era Felipe, che continuava a comportarsi in modo strano, furtivo. Daniel non aveva ancora trovato il coraggio di esternare le sue sensazioni, temeva di farci una figuraccia e passare per quello sospettoso ed iperprotettivo, quando non lo era mai stato. Nonostante ciò, pensava a lui ogni istante, cercando di capire cosa gli stesse succedendo, perché gli stesse nascondendo qualcosa.

Avevano fatto la doccia assieme e gli era parso tutto a posto, i baci languidi che si erano scambiati sotto il getto d'acqua, le sue braccia che lo stringevano ed il modo in cui si toccavano. Poi lui era uscito, lasciandolo da solo con un milione di pensieri ad affollargli la mente.

Poco dopo, anche il diciassettenne abbandonò la doccia, sistemandosi un asciugamano in vita. Aprì la finestra per far uscire tutti il vapore che annebbiava l'aria nella stanza, poi percorse a piedi nudi il breve corridoio che l'avrebbe portato in camera di Felipe. Carl e Line erano a lavoro, quindi avevano casa libera come ogni pomeriggio, dal momento che il brasiliano finiva il suo turno in negozio alle due e mezza, subito dopo pranzo.

La porta della camera era socchiusa, Daniel distinse il corpo atletico del suo ragazzo coperto solo da un paio di boxer dare le spalle all'entrata. Stava parlando al telefono.

"Si, adesso sta facendo la doccia ma a breve tornerà", lo sentì dire. Si appiattì contro il muro, prevedendo che il brasiliano si girasse per controllare che non fosse ascoltato da nessuno.

Il cuore di Daniel si strinse in una morsa dolorosa, ma si sforzò di ascoltare ulteriormente. Doveva capire.

"E' troppo rischioso, mi sta sempre attorno, appena se ne va ti chiamo, ci sentiamo dopo".

Poi chiuse la chiamata.

Daniel non ci vide più, ed irruppe nella stanza, furente in volto. Felipe sobbalzò, voltandosi con aria colpevole che si affrettò a mascherare con un sorriso tirato. Aveva appena cancellato il registro delle telefonate.

"Con chi cazzo parli da una settimana?", domandò Daniel e al diavolo tutto, non gli importava più se avesse fatto la figura del cretino. Doveva sapere.

Felipe sollevò un sopracciglio, accusando il colpo. Era stato beccato ma non poteva cedere.

"Ma di che cosa stai parlando?". Vide un lampo di rabbia attraversare gli occhi azzurri del suo ragazzo.

"Ma ti senti? Hai appena finito di parlare al cellulare con qualcuno dicendo è troppo rischioso, ci sentiamo dopo, mi sta sempre attorno!", lo imitò. Si infilò di scatto un paio di mutande ed i pantaloni.

"Non so di cosa tu stia parlando", negò il brasiliano. Daniel sgranò gli occhi, percependo la rabbia aumentare sempre di più.

"Dammi il telefono", gli ordinò, tendendo un braccio in avanti. Felipe osservò il cellulare che stringeva in mano con titubanza, poi glielo diede sospirando. Si sentì in colpa, ma non poté fare altrimenti. Osservò Daniel sbloccare il dispositivo ed entrare nell'applicazione dei messaggi. Al primo posto delle chat recenti c'era lui, ovviamente, poi subito dopo Thomas, sua madre, Cody. Le conversazioni meno recenti erano con altri amici e qualche collega di lavoro (il diciassettenne controllò velocemente anche quelle, senza trovare nulla di significativo). Passò dunque a Facebook, Instagram e Snapchat. Nulla. Neanche sul registro chiamate c'era alcun numero sospetto. Gli rimase come ultima spiaggia la galleria, che però era piena di loro scatti, qualche video e centinaia di foto che ritraevano Margot in tutte le angolazioni possibili ed immaginabili. Bloccò il cellulare ancora più deluso e glielo restituì.

Si vestì in silenzio, allacciandosi le scarpe.

"Dove stai andando?", gli chiese Felipe mordendosi il labbro inferiore dall'ansia.

"A casa", sillabò Daniel, rivolgendogli uno sguardo glaciale. "E ci rimarrò finché non ti deciderai a dirmi la verità. In caso contrario, vaffanculo", disse duramente.

Se ne andò senza degnarlo più di uno sguardo, uscendo dall'abitazione con le lacrime agli occhi. Felipe lo tradiva e non aveva avuto neanche il coraggio di spiegargli la situazione, così da fargli capire le cause dell'allontanamento. Erano felici, Daniel si sentiva al settimo cielo con lui, cosa era cambiato?

Forse si era accorto di non essere attratto dai maschi, forse lui era stato un momento di svago, un oggetto per comprendere meglio la sua sessualità. Era stata tutta una presa in giro? Non riusciva a crederci.

Percepì delle lacrime bagnargli le guance ed appannargli la vista e prese a camminare mentre aspettava che suo padre lo venisse a prendere. Diede un calcio ad un ciottolo che stava sul marciapiede e s'impose con scarso successo di darsi una calmata. Non voleva che suo padre lo vedesse in quello stato, ma al contempo non faceva altro che pensare alla quantità di cazzate che Felipe gli aveva rifilato in quel mese di relazione. Era stato solo uno stupido, aveva corso troppo e si era innamorato, Dio, si era innamorato dopo un mese di un ragazzo che l'aveva usato. L'espressione gentile, i sorrisi di Felipe, erano stati tutti una finzione?

Il BMW di Pearce Murray si fermò al suo fianco e Daniel salì con lo sguardo basso, salutando il padre con un grugnito. Allacciò la cintura di sicurezza, poi l'automobile partì in silenzio.

Pearce si era subito accorto che qualcosa nel figlio non andasse, ma aveva sperato che fosse lui a parlargliene. A metà tragitto, decise di esordire lui.

"Che ti è successo?", gli chiese a bruciapelo, senza girarci troppo intorno.

"Nulla", rispose l'altro, come l'uomo aveva già previsto.

"Non stai mai in silenzio per più di due minuti, Dan", gli fece notare. Si voltò per un momento verso di lui, incontrando il suo sguardo. Aveva gli occhi rossi e pieni di lacrime.

"M-mi ha solo illuso, sono stato un cretino, un deficiente", piagnucolò.

Pearce comprese immediatamente la portata dell'argomento: si parlava di questioni di cuore, ovviamente. Sospirò.

"Non puoi rimproverarti per i tuoi sentimenti, quelli sono innati e molte volte li proviamo per persone che non meritano neanche una briciola della nostra attenzione".

Daniel singhiozzò, frugando nelle tasche del giacchetto per prendere un fazzoletto. Si soffiò rumorosamente il naso.

"I-io pensavo che lui li meritasse!", esclamò disperandosi ancora. Non poteva crederci, aveva il cuore spezzato a metà.

"Ascolta, so che può sembrare facile da dire ma difficile da fare, però devi prenderti del tempo". "Sei giovane, avrai altre mille occasioni per trovare qualcuno che sia alla tua portata. Tra quattro giorni parti per Parigi, ti divertirai e forse sarà una buona occasione per staccare un po' da tutto, mh?".

Daniel si concentrò sul suo respiro per regolarizzarlo e smettere di piangere. Felipe gli era sembrato perfetto per lui, eppure si era rivelato un bugiardo, un traditore. Di chi si sarebbe dovuto fidare, se non del suo ragazzo? Non riusciva a credere che quegli sguardi scambiati all'inizio, quando ancora non si conoscevano, fossero stati interpretati erroneamente. Erano andati a letto assieme, avevano fatto l'amore, cazzo, e in quei momenti non gli era sembrato un bugiardo. Non aveva mai destato il suo sospetto fino ad una settimana prima e Daniel voleva sapere cosa fosse successo.

Perché quella situazione gli sembrava così strana, quasi surreale?


Ciao a tutti!

Okay, emergo dai libri con questo capitolo pieno di sofferenze e di pathos, com'era ovvio che prima o poi accadesse.

Da una parte abbiamo il crollo di Ryan che, dopo venti capitoli, forse inizia a capire la gravità della sua condizione solo dopo aver toccato il fondo. É stato necessario per fargli comprendere di stare sbagliando, chissà come proseguirà la sua vicenda.

Dall'altra parte abbiamo Daniel, che soffre sia la condizione del migliore amico, sia il litigio con Felipe. I due prima d'ora avevano discusso solo una volta, ma adesso la portata del litigio è molto più gravosa: Daniel sospetta che il suo ragazzo lo tradisca e Felipe che fa? Nega l'evidenza! Nasconde sicuramente qualcosa, secondo Daniel, ed anche secondo me...scoprirete tutto proseguendo con la lettura!!

Vi ringrazio come al solito per le letture, i voti ed i commenti, e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento.

Lavy :)

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