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18.Try, Try, Try

Era il due di gennaio quando Ryan salì velocemente i gradini del condominio recentemente ristrutturato in cui viveva Eric e suonò il campanello. Si sentiva un po' in ansia, perché l'ultima volta che si erano visti aveva ceduto ed era scoppiato a piangere tra le sue braccia, cosa che si era promesso non sarebbe ricapitata. Nessuno avrebbe dovuto vederlo così, nessuno.

Guardò confuso la persona che aprì la porta, stupendosi del fatto che Eric girasse per casa scalzo e senza maglietta. Sapeva che avrebbero avuto lezione, o forse era stato lui a sbagliare giorno? Non aveva mai ricevuto un'accoglienza del genere, Eric era sempre ben ordinato e vestito. Oddio, ma era mercoledì? Controllò per sicurezza la data sull'orologio digitale appurando che no, non si era sbagliato assolutamente.

"Oh-ehm", esalò confuso, ricambiando l'occhiata del venticinquenne appoggiato con una spalla contro lo stipite della porta. Perché non lo lasciava entrare? C'era qualcosa di strano nei suoi capelli, più lunghi di quanto ricordasse. Era possibile che quelle ciocche nere e lisce fossero cresciute così velocemente nell'arco di nemmeno due settimane?

"Eric, qui c'è un ragazzino con una chitarra, devo farlo entrare?", domandò voltandosi con metà busto verso l'interno dell'appartamento. Aspetta, quindi lui non era il suo insegnante. Sentì dei passi avvicinarsi alla porta e poco dopo la mano di Eric aveva spinto indietro suo fratello, lasciando così che Ryan entrasse.

"Scusalo, è mio fratello e non conosce le buone maniere, tutta l'intelligenza l'ho ereditata io",si rivolse al diciassettenne, che scosse appena il capo sorridendo.

"Io sono Gale", si presentò il diretto interessato tendendo una mano verso l'ospite. Ryan la strinse brevemente non potendo fare a meno di notare quanto i due si somigliassero, ma al contempo avessero delle caratteristiche salienti a differenziarli. Gale aveva la vivacità che in Eric era meno presente ed anche fisicamente il primo era più robusto, mentre il secondo snello. Per il resto, a parte i capelli scuri di due lunghezze differenti, erano identici persino nella tonalità della voce.

Mormorò timidamente il suo nome ed attese in silenzio che Eric corresse a prendere la sua chitarra e tutto il materiale che gli sarebbe servito per svolgere la lezione.

"Quanti anni hai?", gli chiese Gale, che era rimasto fermo davanti a lui e lo stava studiando con attenzione, per nulla messo a disagio dalla sua parziale nudità. Ryan si guardò attorno, imbarazzato, prima di incontrare il suo sguardo.

"Diciassette", rispose immergendo le mani in tasca.

"Sembri più grande", constatò il maggiore e davvero, aveva pessime doti d'intrattenimento e sopratutto non sembrava essere particolarmente bravo a mettere a proprio agio una persona.

"Mmmh, forse per via dell'altezza", disse il diciassettenne. Gale lo squadrò da capo a piedi poi annuì.

"Già, fai basket?", gli chiese. La corporatura slanciata gli suggeriva così.

Ryan rabbrividì al solo pensiero: uno enorme come lui, a fare basket in mezzo a corpi allenati?

"Non lo stai importunando, vero?", li interruppe Eric entrando nella stanza accompagnato dalla sua chitarra e da qualche foglio di spartito vuoto. Gale levò i palmi delle mani in alto, come in segno di resa, poi si defilò in camera da letto silenziosamente.

Suo fratello alzò gli occhi al cielo. "Scusalo, è fatto così".

Ryan scrollò le spalle e si accomodò sul divano iniziando ad ascoltare le spiegazioni di Eric finché il suo gemello non entrò nuovamente nella stanza, stavolta con indosso una maglietta a maniche corte.

"Paul vuole il tuo numero, glielo do?", chiese facendo irrigidire Eric.

"No", sillabò cercando di evitare lo sguardo di entrambi i presenti ed iniziando a sfogliare senza un apparente criterio i fogli sparsi sul tavolino davanti al divano.

"Ha detto che gli interessi", insisté Gale, senza capire che suo fratello non volesse parlarne in quel momento, lì, in presenza di Ryan.

"A me invece non interessa, quindi non ci provare nemmeno", sbottò lanciandogli un'occhiata furente. Sospirò quando finalmente lasciò la stanza, poi tornò a guardare Ryan negli occhi. Quest'ultimo cercò in tutti i modi di mascherare il proprio stupore nello scoprire che fosse omosessuale perché non aveva potuto fare a meno di seguire interessato la breve discussione. Non aveva mai pensato ad Eric diversamente dall'essere semplicemente il suo insegnante di chitarra, ma quella piccola scoperta lo portò inconsciamente ad immaginarselo al di fuori di quell'ora e mezza di lezione. Chissà che film gli piaceva guardare, chissà quale fosse il suo gusto di gelato preferito, chissà come baciava. Lui di bacio non ne aveva mai dato uno a nessuno, eppure si ritrovò a pensare che Eric fosse una bella persona, da baciare. Chissà se gli avrebbe dato fastidio il sottile strato di barba che ricopriva la sua mascella, nel baciarlo.

Ma a cosa stava pensando?

"Riprova a fare questo giro di note", disse Eric risvegliandolo dallo stato di torpore in cui era entrato. Ryan tornò a guardarlo, stavolta imbarazzato. Per fortuna che ancora non esisteva un macchinario adatto alla lettura dei pensieri altrui, altrimenti sarebbe stato spacciato. Eseguì l'esercizio con una dimestichezza che era il frutto di ore ed ore passate ad esercitarsi sotto lo sguardo attento del venticinquenne.

"Oh, quasi dimenticavo!", esclamò il venticinquenne ad un tratto, dopo essersi soffermato ad osservare le dita affusolate di Ryan sfiorare con incertezza le corde dello strumento musicale.

Il diciassettenne sobbalzò e smise di suonare, seguendo con sguardo attento Eric che, dopo essersi alzato dal divano, afferrò la sua giacca appesa all'attaccapanni e frugò nelle tasche alla ricerca di chissà cosa. Pochi istanti dopo tornò a sedersi al suo fianco con un'espressione soddisfatta, allungò il dorso della mano sotto i suoi occhi e "per te", disse semplicemente.

Ryan alternò lo sguardo tra il piccolo oggetto che Eric gli stava porgendo, e gli occhi grigi di quest'ultimo.

"D-davvero?", domandò stupito, prendendo tra due dita il plettro verde e studiandolo da tutte le angolazioni.
"Beh, si, è solo una stupidaggine ma la frase scritta sopra mi piaceva". Continuò a studiare la sua reazione, felice che gli fosse piaciuto.

Try. Try. Try.

Ryan lo capì da quello sguardo, cosa volesse dire. Non servirono parole, gli bastò sentire una stretta allo stomaco che, per la prima volta dopo mesi, non era dovuta alla fame.

Daniel continuò a pedalare sulla cyclette del centro sanitario in cui si stava sottoponendo alle ultime visite prima di firmare ufficialmente il contratto con la prima squadra dell'associazione in cui aveva iniziato a giocare quand'era solo un bambino, il Millwall. Aveva passato i tre giorni precedenti tra analisi ed ogni tipo di controllo che era di routine nella vita agonistica di ogni giocatore, ma in quel caso si erano rivelate fondamentali per il suo passaggio definitivo in Championship.

"D'accordo, basta così, puoi fermarti", lo informò la dottoressa avvicinandosi a lui e staccandogli gli elettrodi a ventosa dal petto, permettendogli così di vestirsi ed uscire dalla stanza con la cartella clinica in mano dopo aver stampato tutti i dati conseguiti dalle varie analisi. Scott, il suo manager, lo aspettava seduto su uno dei sedili di plastica che fiancheggiavano il lungo ed ampio corridoio della clinica. Gli porse il fascicolo di fogli ed infilò le mani in tasca per ripararle dal freddo invernale a cui si sarebbero esposti a breve per raggiungere l'automobile e recarsi così negli uffici della società. Avevano analizzato assieme il contratto per tutto il pomeriggio, e Scott gli aveva spiegato decine di volte i suoi impegni e guadagni.

"Non ti nego che a giugno potresti essere in un team più importante, ti hanno notato alcuni club ma è ancora presto per parlarne", gli disse mentre parcheggiava comodamente la macchina costosa nel parcheggio del centro sportivo riservato agli autorizzati. Al momento c'erano una decina di macchine.

"Adesso voglio fare bene qui", rispose Daniel, sapendo che quella risposta avrebbe reso fiero di lui Scott. Si conoscevano da un po' di tempo, loro due, abbastanza da aver instaurato un rapporto di fiducia, mantenendo comunque la serietà dovuta all'ambito in cui si muovevano.

Entrarono nella hall dell'edificio venendo immediatamente accolti da una segretaria che li scortò fino all'ufficio del dirigente, dove ad aspettarli c'era anche Neil, l'allenatore, un dottore che avrebbe controllato ulteriormente i risultati delle sue analisi ed alcuni uomini di mezza età che Daniel non sapeva effettivamente quale ruolo avessero lì dentro. Salutò tutti con una stretta di mano, ricevendo sorrisi e pacche sulle spalle, poi si accomodò dietro la scrivania tra il dirigente sportivo e l'allenatore. Scott era rimasto in piedi alle sue spalle ed ascoltava attentamente le parole del dirigente, intento a spiegare al diciassettenne i punti del suo contratto che, ormai, Daniel conosceva a memoria. Quando gli porse la penna stilografica nera,estraendola direttamente dal taschino della giacca, la mano del diciassettenne tremò appena. Nonostante avesse giocato ben quattro partite con la prima squadra, quella firma che avrebbe scarabocchiato di lì a poco sullo spazio bianco in fondo al foglio avrebbe sancito il reale inizio del suo sogno. Un flash lo illuminò nel momento in cui appoggiò la penna sul foglio, poi un altro quando la porse al suo proprietario ed alzò lo sguardo sul resto dei presenti. Lo stavano tutti applaudendo con un sorriso sincero sulle labbra,compreso un ragazzo alto, dalla carnagione ambrata e dagli occhi verdi, posto un po' in disparte. Il cuore di Daniel fece una capriola. Felipe era lì, in tutto il suo splendore, era lì per lui. Non vedeva l'ora di uscire da quella stanza e baciarlo.

Si trattenne ancora per qualche minuto a scambiare convenevoli con i presenti, guardando con la coda dell'occhio Felipe uscire dalla stanza con una sigaretta tra le dita.

Lo raggiunse solo dieci minuti dopo, quando il mozzicone giaceva a terra sull'asfalto. Felipe mosse un passo verso di lui sorridendogli e stringendolo tra le braccia.

"Ma non dovevi lavorare oggi?", gli chiese appoggiando il mento sulla sua spalla.

"Ho fatto a cambio turno con una collega e per entrare lì dentro ho dovuto corrompere la segretaria,ma ne è valsa la pena", spiegò il maggiore, "quando hai alzato lo sguardo dopo aver firmato il contratto ti brillavano gli occhi". Daniel percepì l'ormai abituale formicolio allo stomaco e sorrise.

"Ti va di andare da me?",propose il brasiliano.

"E me lo chiedi pure? Non vedo l'ora di abbracciare e coccolare Margot", disse entusiasta il minore, entrando nell'automobile del suo ragazzo ed allacciandosi la cintura di sicurezza.

"Io non me lo merito un po' di affetto?", chiese Felipe con finta delusione. Il diciassettenne neanche ebbe bisogno di guardarlo per capire se fosse serio o meno.

"Che c'è, sei geloso anche del tuo cane?".

Il brasiliano sbuffò, roteando gli occhi. "Smettila di dirlo".

"Dire cosa?", gongolò Daniel.

"Lo sai cosa, cretino".

"Già, però mi fa ridere il fatto che tu sia geloso di Liam", affermò appoggiando la nuca contro il finestrino freddo.

"Sai com'è, fino a poco fa andavate a letto assieme", si giustificò Felipe con tutta la sincerità di cui disponeva.

"Adesso però ci vado con te", ribatté Daniel con un pizzico d'impertinenza nella voce. Aveva sempre la risposta pronta. "Anzi, sbrigati che ho una certa voglia", proseguì e davvero, tutta questa spudoratezza lo sorprendeva.

"Ninfomane che non sei altro", lo prese in giro Felipe. Spinse di più il piede sull'acceleratore, desiderando di arrivare a casa presto, prestissimo.



Line non era stupida, affatto. Conosceva benissimo suo figlio sebbene a partorirlo non fosse stata lei, e lo amava con tutta se stessa. Quel giorno d'inizio Gennaio era tornata a casa prima del solito dopo un'estenuante giornata di lavoro, e si era accomodata sul divano quando era arrivato Felipe e quel suo nuovo amico, Daniel, ad interrompere il riposino pomeridiano. Da qualche tempo suo figlio passava molto più tempo fuori casa, e quando tornava aveva sempre un sorriso enorme ad illuminargli il viso; in quel momento, di sorrisi enormi ce n'erano due, fermi sulla soglia della porta d'ingresso.

"Ciao, ragazzi", li salutò alzandosi in piedi e correndo ad abbracciare entrambi.

I due la salutarono di rimando sfilandosi di dosso i giacchetti. Daniel si piegò sulle ginocchia e lasciò qualche carezza sul muso di Margot che, curiosa dei nuovi arrivati, si era avvicinata ai giovani sbuffando felice.

"Noi saliamo di sopra", annunciò Felipe dopo qualche minuto, congiungendo le mani dietro la schiena. Daniel si alzò senza smettere di guardare adorante il cane.

"D'accordo, volete qualcosa da bere o da sgranocchiare?", domandò loro Line, intuendo già la risposta. Sembravano tesi ed intenzionati a rimanere soli il prima possibile.

"No, grazie", disse infatti suo figlio prima di afferrare il più giovane per un braccio e trascinarselo dietro. Line li osservò attentamente salire le scale, poi tornò a sedersi sul divano senza prestare attenzione al telefilm poliziesco che stava vedendo prima di addormentarsi. L'improvvisa vicinanza con quel ragazzo, gli sguardi ed il comportamento di suo figlio le fecero pensare ad una relazione che si spingeva oltre l'amicizia. Possibile? Non lo sapeva, ma l'avrebbe scoperto.

Al piano di sopra, Felipe era già stato privato di pantaloni e boxer. Sedeva sul letto con la schiena appoggiata contro la parete e la testa di Daniel tra le sue gambe.

"Smettila di fare rumore", lo rimbeccò il diciassettenne, allontanando appena le labbra dal membro eretto del suo ragazzo ed alzando di poco lo sguardo. Non erano soli in casa, non potevano di certo urlare mentre Line guardava indisturbata la televisione al piano di sotto.

Felipe aveva gli occhi verdi, enormi, spalancati e lucidi. "Vorrei vedere te al mio posto", si difese. Abbassò le palpebre e sospirò, stringendo le lenzuola tra le dita quando la lingua di Daniel tornò a lambire il suo membro.

"Io riuscirei a stare zitto", ribatté il diciassettenne con fare provocatorio.

"Lo scopriamo subito". Felipe si sfilò il maglione e fece lo stesso con quello di Daniel, per poi afferrare il giovane calciatore per i fianchi facendolo distendere sotto di lui. Lasciò una scia umida di baci sul collo, sul petto, lungo gli addominali perfetti sentendo il ragazzo contorcersi ad ogni suo tocco senza però fiatare. Poi, una volta arrivato in prossimità del pube, si allontanò dal suo corpo per cercare un preservativo ed infilarselo di fretta, mentre Daniel gli sfiorava le spalle muscolose con i polpastrelli. Entrò in lui con forza, guardandolo negli occhiazzurri ed appoggiando successivamente la fronte contro la sua. Si baciarono mordendo uno le labbra dell'altro e stringendosi come facevano sempre per sentirsi ancora di più una cosa sola, perché ormai dopo neanche un mese dal loro bacio dato sulla soglia della porta di casa Murray, entrambi stavano diventando consapevoli che il rapporto tra di loro fosse qualcosa di grande, perché i sentimenti che provavano quando stavano assieme erano forti e potenti, tanto da farli fremere ad ogni minimo sfioramento. Felipe stava bene quando Daniel era con lui e viceversa. Raggiunsero l'orgasmo contemporaneamente riuscendo a trattenersi dal gemere ad alta voce,poi Felipe buttò il preservativo nel cestino dopo averlo chiuso all'estremità e rotolò di lato, infilandosi sotto le coperte del suo letto.

Il diciassettenne appoggiò la testa sul suo petto e chiuse gli occhi.

"Ti batte forte il cuore", costatò accennando un sorriso. Felipe gli lasciò un bacio tra i capelli lisci e scuri.

"E' per te", sussurrò.

Il sorriso di Daniel si allargò ed anche il suo cuore prese a battere più veloce.

Tutta colpa tua.

Tutta colpa tua.

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