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15.La sua storia

Quando Felipe Palmer si svegliò, quella mattina, ci mise qualche istante per ricordare che tra le sue braccia ci fosse Daniel; quest'ultimo dormiva indisturbato sul suo petto coperto da una maglia a maniche corte e la gamba destra era piegata ed appoggiata sulla sua. Curvò il collo di lato per controllare l'orario luminoso sulla sveglia digitale alla sua destra e constatò che fosse ancora presto per alzarsi.

La sera prima erano andati a dormire abbastanza tardi, dopo essersi sistemati (Felipe aveva prestato una sua tuta a Daniel ed aveva gioito a vederlo indossare qualcosa di suo) si erano messi a letto coccolandosi un po', poi erano caduti vittime del sonno. Il diciannovenne non riuscì dunque a comprendere il motivo del suo risveglio mattiniero e rimase per qualche minuto a contemplare il volto rilassato del ragazzo, le sue ciglia lunghe abbassate e le labbra che la sera prima aveva baciato di continuo socchiuse. Strinse leggermente la presa sul suo fianco nudo (la maglietta si era alzata di qualche centimetro durante la notte) ed inspirò l'aria calda che riempiva la stanza. Aria che si fece bollente quando si accorse che qualcosa stesse premendo contro la sua coscia, qualcosa meglio conosciuta come erezione mattutina. Felipe non ne avrebbe dovuto fare un dramma, davvero, anche perché era una cosa normale, fisiologica, eppure in quel momento non sapeva come avrebbe dovuto comportarsi. Non gli andava che Daniel si svegliasse imbarazzato, né tanto meno gli sembrava il caso di sgattaiolare fuori dal letto, perché non era ciò che voleva.

Il diciassettenne lo attraeva su tutti i fronti e questo era stato appurato, ma non trovava neanche adatto andare subito al sodo, in tutti i sensi. Sentì ancora più caldo solo a pensare al sedere atletico e muscoloso del suo ragazzo (ancora gli faceva strano chiamarlo così). Nella sua breve vita aveva avuto rapporti sessuali solo con ragazze ed era un po'spaventato, ma al contempo curioso di sperimentare nuove situazioni. Con Daniel era tutto nuovo: le emozioni percepite, il corteggiarsi velato dalla timidezza e dalla paura di fallire, i baci, gli sguardi ed ogni minimo sfioramento. Non sapeva tutto di lui ma era pronto a scoprirlo e a farsi scoprire, sentiva di potersi fidare della persona buona che era. Gli lasciò un bacio tra i capelli, poi uno sulla fronte, sotto l'occhio, sullo zigomo ed infine, allungando il collo, sulle labbra. Non ottenne alcuna reazione e dunque, per nulla scoraggiato, seguì il percorso inverso accompagnando quei piccoli baci con delle carezze date lungo la schiena, infilando la mano sotto la maglietta indossata dal più piccolo che aprì istantaneamente gli occhi, illuminando Felipe con quei fari azzurri che stavano al posto delle iridi.

Lo salutò con un buongiorno ed un sorriso imbarazzato che fece contorcere le viscere al maggiore.

"Buona vigilia di Natale, al momento non ho nessun regalo da darti ma sarei felice di baciarti", disse il diciannovenne alzandogli il mento con due dita e facendo collidere le loro labbra.

Daniel sorrise nel bacio e "il mio regalo di Natale è noi insieme", mormorò immergendo una mano tra i capelli mossi di Felipe, che inclinò la testa all'indietro. Il suo pomo d'Adamo si abbassò ed alzò velocemente.

"Non puoi dirmi queste cose", disse il brasiliano "poi mi viene ancora più voglia di baciarti", continuò stringendo la presa sui fianchi del diciassettenne mentre questo rideva impertinente.

"E non puoi farlo?", chiese Daniel avvicinandosi pericolosamente alle sue labbra carnose ed allontanandosi con altrettanta fretta, senza smettere di guardarlo negli occhi.

"Non lo so, dimmelo tu", insisté Felipe; appoggiò la testa sul cuscino e socchiuse le palpebre in attesa di una risposta, che però non arrivò. Difatti, il calciatore meditò qualche istante su cosa dire, poi decise di passare ai fatti avventandosi nuovamente e con più trasporto sulle invitantissime labbra del suo ragazzo. Niente, trovava ancora assurdo definirlo in quel modo. Gli morse il labbro inferiore, e mosse inconsapevolmente il bacino contro il suo per una, due volte finché non si staccarono per riprendere fiato e si accorse che qualcosa lì sotto si era risvegliato. Avrebbe tanto voluto continuare da dove si erano fermati, ma non riteneva fosse il caso: stavano assieme da troppo poco tempo per pensare già a quello, dovevano costruire ancora un rapporto di fiducia reciproca e sebbene Daniel avesse tanto voluto soddisfare quell'erezione nascente, non voleva correre troppo.

Gli rimase quasi impossibile non perdere la testa quando le dita di Felipe strinsero con forza i suoi fianchi. Si allontanò a malincuore dalle sue labbra e "cazzo, è tardi!", esclamò mettendosi a sedere e lasciando il suo ragazzo con il membro duro malcelato dai pantaloni della tuta.

L'aveva appena mandato in bianco, roba da matti.

Si vestirono con calma e Felipe cercò in tutti i modi di pensare a qualcosa di ripugnante per diminuire l'eccitazione ma gli risultò particolarmente difficile, avendo sotto gli occhi Daniel in mutande.

"Che carino che eri da piccolo", commentò il più giovane curiosando tra le fotografie contenute in una cornice appesa al muro mentre Lipe si allacciava le scarpe seduto sul letto. Alzò lo sguardo sulla foto in questione e sorrise.

"Adesso non lo sono più?", domandò.

"Sei peggiorato col tempo",mentì ricevendo una cuscinata addosso.

Daniel continuò a dargli le spalle, intento ad osservare ogni scatto con attenzione. C'erano un paio di fotografie con Thomas e Cody, una con i suoi genitori, un'altra che lo ritraeva intento a disegnare su un foglio a quadretti ed infine una sbiadita e di pessima qualità, che vedeva un piccolo Felipe in piedi, con le spalle al muro, con solo un paio di pantaloni corti addosso ed i piedi scalzi. In quest'ultima foto i capelli scuri del bambino erano lunghi e sparati in tutte le direzioni, ed i suoi occhi verdi erano sgranati, fissi sull'obiettivo della fotocamera. Avrà avuto al massimo quattro anni, eppure sembrava stanco e non in buona salute: anche attraverso quello scatto dalla cattiva definizione era possibile notare la magrezza del suo corpo.

Il diciassettenne sussultò quando percepì il mento del brasiliano appoggiarsi sulla sua spalla e le braccia intrecciarsi attorno al busto.

"Cosa guardi?", gli chiese e Daniel cercò d'ignorare il turbamento generato da quella semplice fotografia, che indicò con l'indice.

"Questa", sussurrò senza riuscire a smettere di guardarla. Ogni istante che passava gli dava la possibilità di individuare nuovi particolari: il pavimento sporco su cui erano appoggiate le piante dei piedi, le ginocchia sbucciate e le costole sporgenti.

Felipe sospirò e rimase in silenzio per qualche secondo, senza tuttavia allontanarsi da lui. Doveva dirglielo, se non ora, in un futuro non troppo prossimo; non sapeva se la sua storia con Daniel sarebbe durata, però avevano entrambi la necessità di conoscersi affinché la relazione continuasse serenamente. Il suo passato era stato tortuoso e tremendamente difficile, in pochi sapevano tutta la sua storia ma non aveva mai rinnegato o cercato di dimenticarlo, anche perché non ci sarebbe mai riuscito.

Decise di parlare dopo quella che gli sembrò un'infinità di tempo passato a meditare sul da farsi.

"E' l'unica foto che ho della mia infanzia prima di essere arrivato qui", disse fissandola anche lui. "Non stavo messo tanto bene, eh?", tentò di sdrammatizzare, ma Daniel non sorrise neanche.

"Quanti anni avevi?", gli domandò con un fil di voce.

"Più o meno quattro, sì", rispose il brasiliano "ero appena tornato da lavoro, mi ricordo quando me l'hanno scattata, non avevo mai visto una cosa del genere".

"D-da lavoro?", lo interruppe Daniel, sconcertato. Felipe annuì con amarezza.

"Io-beh, è un po' lunga da spiegare, però ci tengo che tu lo sappia". Fece un passo indietro, sedendosi così sul bordo del letto e lasciando che il diciassettenne si accomodasse al suo fianco. Gli strinse la mano con la sua notando la rigidezza con cui si era seduto. Sospirò guardandolo dritto negli occhi, consapevole che quello che stava per dire fosse importante per entrambi.

"Io vivevo con la mia famiglia a Rocinha, una favela di Rio de Janeiro", esordì senza smettere di guardarlo. "Le favelas sono dei veri e propri quartieri fatti di baracche ammassate, ed io abitavo in una casetta in lamiera con altri undici componenti della mia famiglia. Ovviamente non avevamo acqua né corrente, dormivo con mio fratello e i miei cugini su un tappeto che avevano rubato non so dove e gironzolavo ovunque scalzo". Daniel lo ascoltava assorto."Rocinha è la favela più popolata di Rio ed è anche quella in cui il traffico di droga era più fitto almeno quando ci vivevo io, adesso non so quante cose siano cambiate. Eravamo poverissimi e mio padre e suo fratello lavoravano per un narcotrafficante e spesso noi li aiutavamo a ehm-a consegnare la droga. Mi ricordo che correvamo da una parte all'altra della città e se non tornavamo a casa in tempo gli adulti ci punivano tirandoci i capelli e picchiandoci, ma a noi sembrava tutto normale perché eravamo nati così e non riuscivamo ad immaginare la nostra vita diversamente", raccontò lentamente, come se ogni parola pronunciata gli facesse male ed in effetti era così: la sua vita era cambiata radicalmente dal momento in cui era stato adottato e ogni tanto pensava a come avrebbe vissuto se fosse rimasto in Brasile.

"Vovò Julia, nonna, era l'unica che ogni tanto ci difendeva ma ci portava anche assieme a lei a chiedere l'elemosina in città, sapeva che i turisti si lasciavano impietosire da quattro ragazzini sporchi e allampanati. Io, Tiago, Benício e José non andavamo a scuola, non sapevamo neanche cosa fosse e stavamo in giro dalla mattina alla sera, trasportavamo droga come se nulla fosse, chiedevamo l'elemosina, ballavamo per strada e se ci riuscivamo rubavamo anche qualche portafogli".

Daniel gli strinse la mano ed intrecciò le loro dita. Aveva spesso sentito parlare dei quartieri malfamati brasiliani ma mai era stato coinvolto in tal modo nella vicenda, l'aveva sempre osservato dalla televisione con un certo distacco. In quel momento, però, guardava gli occhi verdi di Felipe e vedeva davanti a sé le immagini chiare di un'infanzia troncata dalla corruzione, dalla povertà e dalla fame.

Nessun bambino meritava di vivere per strada, né di portare droga con sé per ottenere qualche soldo; ed invece il mondo non andava così, Felipe aveva vissuto i primi anni della sua vita in un contesto malfamato e quella consapevolezza gli strinse il cuore, facendogli provare tanto dispiacere.

"Poi un giorno siamo tornati a casa dopo qualche ora di elemosina con nonna e abbiamo trovato sei cadaveri per terra, tutti i nostri genitori erano stati ammazzati dai narcotrafficanti per i quali lavoravano. Papà e zio si erano tenuti un po' di droga che dovevano distribuire e quando sono stati scoperti sono stati uccisi subito. Volevano venderla e tenere il ricavato per loro. I-io mi ricordo tutto quel sangue ovunque, poi nonna che urlava e ci spingeva fuori dalla baracca e scappavamo di nuovo in città con i piedi sporchi del loro sangue. Il giorno dopo nonna ci aveva lasciato in un centro d'accoglienza e non l'abbiamo più vista. Io non capivo molto cosa ci stesse succedendo, ero scosso dalle novità e non riuscivo ad ambientarmi lì dentro, con tutti quegli adulti che mi avevano vestito e mi parlavano gentilmente. Sono stato adottato dopo sei mesi mentre mio fratello aveva trovato una nuova famiglia già dal primo mese. Non ho più rivisto lui né i miei cugini dal momento in cui Carl e Line mi hanno portato con loro in Inghilterra". Si strinse nelle spalle "poi il resto è stato tutto in discesa, ho imparato l'inglese, la matematica e la geografia ed ho fatto amicizia con Thomas quasi subito".

Daniel comprese che il macabro racconto fosse finito quando il silenzio si prolungò per qualche minuto. Deglutì, la testa piena d'informazioni ed il cuore stretto ancora in quella morsa dolorosa.

"Cazzo", esalò abbassando lo sguardo sulle loro dita intrecciate. Felipe lo stava guardando, percepiva i suoi occhi verdi fissi su di lui, ma in quel momento non sapeva cosa dire. Le notizie apprese andavano ben oltre ciò che aveva immaginato. Ogni parola gli sembrava futile per esprimere ciò che provava. Spesso ci lamentiamo anche per la minima sfortuna, pensiamo che i nostri genitori ce l'abbiano con noi perché non vogliono comprarci un nuovo cellulare o perché non ci fanno uscire la sera con i nostri amici; Felipe aveva passato momenti tremendi, che nessun bambino avrebbe mai dovuto vivere, e ciò avrebbe dovuto far capire a tutti che non bisogna dare nulla per scontato, che se noi viviamo in un ambiente confortevole, caldo e pulito lo stesso non si può dire degli altri. Non tutti hanno la nostra stessa fortuna.

Lo abbracciò con slancio, perché pensava fosse giusto così, perché voleva ringraziarlo silenziosamente per la fiducia riposta in lui.

"Grazie", sussurrò Felipe nel suo orecchio. Non gli servivano parole, gli era bastato vedere gli occhi di Daniel velati di tristezza per capire che fidarsi fosse stata la mossa giusta.

Dopo quindici anni parlarne faceva ancora male, però si sentì meglio quando a stringerlo furono le braccia forti del giovane calciatore.


Ryan aveva sotto gli occhi una grande varietà di pietanze. Era la sera della Vigilia di Natale e, come da tradizione, si erano riuniti tutti attorno al tavolo posto al centro del soggiorno della casa di sua nonna che per l'occasione aveva preparato ben due primi, due secondi piatti ed una moltitudine di dolci che erano ancora sistemati sul tavolo in cucina.

Ognuno dei commensali indossava una coroncina di carta colorata (Ryan ne aveva una blu) e tutti conversavano tra di loro del più e del meno. L'aria era rilassata e festosa, Graham sembrava a suo agio e non faceva altro che sorridere a Carol e lanciare occhiate indiscrete in direzione di Ryan che se ne stava in silenzio e sbocconcellava l'arrosto di tacchino cucinato dalla nonna. Era arrivato il momento da lui più temuto: quello di mangiare in compagnia. Quando era da solo per lui il problema non si poneva, in quanto erano più le volte in cui digiunava che quelle in cui si sfamava ma ora cosa avrebbe dovuto fare? Era seduto tra sua zia ed una cugina di secondo grado ed entrambe lo invitavano a mangiare con persistenza ma lui non ci riusciva, lo stomaco sembrava una voragine incandescente e gli girava la testa. Non poteva svenire ancora, non poteva permetterselo. Era crollato davanti allo spavento di Eric ma, lo aveva giurato, una cosa del genere non sarebbe successa mai più.

"Ry, mangia qualcosa! Non ti riconosco più", lo esortò sua zia sfiorandogli il braccio con le dita. Il diciassettenne trattenne il respiro ed annuì flebilmente. No, non poteva farlo, non doveva mandare all'aria tutti quegli sforzi. "Avanti, che cosa stai aspettando?", insisté.

Ryan non alzò lo sguardo dal piatto il cui contenuto era ormai freddo, e non ce la fece, andò contro il suo volere e mangiò più del previsto percependo ilcibo scendere pesante nel suo stomaco . Era grasso, enorme e non sarebbe mai piaciuto a nessuno. Cazzo, tutte quelle rinunce annullate da una semplice cena, non era abbastanza forte per affrontare certe situazioni, non ne poteva più. Improvvisamente si sentiva morire, il suo stomaco voleva di più e lui lo assecondò, mangiò una fetta di torta di mele e due cioccolatini e si sentì satollo per la prima volta dopo quasi due mesi. Eppure, la sensazione di benessere lasciò il tempo che trovò, e dopo qualche minuto di tranquillità tornò ad opprimerlo un senso di colpa e disagio.


"V-vado un secondo in bagno", disse allontanandosi da tavola e chiudendosi a chiave in bagno. Doveva tranquillizzarsi.

Si sistemò davanti allo specchio appoggiando le mani sul bordo del lavandino ed inspirò a fondo. Era stato uno stupido, ingenuo, a lasciarsi andare. Lasciò scorrere un po' d'acqua dal rubinetto, poi mise le mani a coppa e si sciacquò il viso senza che il magone che gli occludeva la gola riuscisse a scomparire. Quando si asciugò sull'asciugamano fresco di bucato e tornò a guardarsi allo specchio non riuscì a trattenere le lacrime e scoppiò in un pianto silenzioso, con il quale sfogò tutta la sua frustrazione. Fu forse in quel preciso istante che capì di aver bisogno d'aiuto, perché la situazione gli stava sfuggendo di mano, non era più completamente padrone delle sue azioni e certe volte, come gli aveva detto poco prima sua zia, non si riconosceva più neanche lui. Cosa, chi dettava le sue azioni? Chi l'aveva fatto cadere a terra vicino al gabinetto, nel quale adesso stava vomitando anche l'anima?

Non era lui, Ryan non avrebbe mai voluto soffrire così tanto; allora quando la situazione era peggiorata così tanto? Quando aveva smesso di pensare alle conseguenze dei suoi sbagli?

Si sciacquò un'altra volta il viso e cercò di tranquillizzarsi. Fuori da quella porta la sua famiglia stava giocando a carte parlando vivacemente, oltre la finestra la neve scendeva lenta e si accomodava sul manto erboso che circondava l'edificio, si appoggiava sui davanzali e sui tetti delle abitazioni. La Luna illuminava debolmente le strade deserte: tutti erano in compagnia, mangiavano e bevevano. Nel palazzo davanti una finestra illuminata trasmetteva le ombre di due persone che si abbracciavano, volendosi bene. Ryan era lì, seduto sul bordo della vasca, svuotato di tutte le sue percezioni, e pensava.

Il cellulare squillò nella tasca dei pantaloni, e lo estrasse con infinita calma.

Era Eric. Probabilmente voleva fargli gli auguri.

"Ciao! Buon Natale", esclamò difatti la sua voce dall'altro capo del telefono. Si udivano in sottofondo alcune voci parlare e bicchieri di vetro tintinnare.

"Grazie, anche a te", disse Ryan cercando di aggiungere un po' di enfasi alla sua voce, ottenendo tuttavia scarsi risultati. Sentì il rumore di una sedia che strusciava a terra, poi le voci di sottofondo farsi sempre più distanti.

"Come stai?", gli domandò il maggiore.

Ryan abbassò le palpebre ed abbandonò la nuca contro le piastrelle fredde che ricoprivano il muro.

"Bene. Più o meno. Sono chiuso in bagno da dieci minuti, penso che gli altri si stiano preoccupando".

Non poteva vederlo, ma Eric scosse la testa.

"Già, forse è il caso che torni in compagnia", disse.

"Anche tu sei solo per parlare con me", osservò Ryan.

"Hai ragione, ma volevo sapere come stavi". Rimase qualche momento senza dire nulla, poi aggiunse "e spero che tu non abbia mentito".

"Io-io starò bene", sussurrò il diciassettenne. Sembrava una preghiera, più che una promessa.

"Te lo auguro, Ryan, te lo auguro tanto".


Ciao a tutti!

Contro ogni aspettativa ho pubblicato ora il capitolo perché oggi non sono andata a scuola muahaha...spero vi piaccia, anche perché ci tengo tantissimo a questo in particolare per la storia di Felipe. Non pensate che mi sia inventata tutto, la realtà purtroppo è simile a quella che ho descritto io. E' importante anche per Ryan, questo capitolo, perché finalmente sembra prendere coscienza delle sue azioni, e si fa qualche domanda.

Non vedevo l'ora di pubblicarlo perché finalmente avete scoperto cosa si nasconde dietro il passato tortuoso di Felipe, e sarà molto importante saperlo...

Vi saluto, buon proseguimento

Lavy :)

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