13.Non ne vale la pena
Eric non impartiva lezioni a Ryan da una settimana e quasi sentiva la mancanza del suo timido e talentuoso allievo; quest'ultimo gli aveva telefonato il lunedì precedente avvisandolo che per problemi legati alla sua salute non sarebbe potuto uscire di casa, quindi il venticinquenne gli aveva augurato una pronta guarigione. Eric si sentiva un po' solo senza le lezioni pomeridiane; la mattina andava a lavoro, svolgeva le sue mansioni fino al tardo pomeriggio, poi tornava a casa e poltriva sul divano per qualche ora. Se ci fosse stato Ryan, avrebbe tardato il suo pasto serale ma sarebbe andato a dormire con la mente libera da alcuni pensieri; invece, senza di lui pensava tutto il giorno a quanto gli mancasse qualcuno nella sua vita. Intendiamoci, non era necessariamente il diciassettenne a riempire la sua giornata, ma quando sapeva di avere una lezione con lui preparava mentalmente tutte le nozioni da infondergli. In quei giorni aveva pensato molto, quasi troppo a Michael.
Quando vivevano assieme la sua giornata ruotava in funzione di lui: facevano colazione assieme, andavano a lavoro e tornavano quasi alla stessa ora, per poi cenare, lavarsi e guardare un film sul divano oppure fare l'amore. Non riusciva a credere che tutte quelle attenzioni che gli erano state riservate fossero solo una finzione per nascondere la presenza di un'altra persona che avrebbe successivamente posto fine al loro rapporto. In quei sette lunghi anni di relazione aveva trascurato i suoi amici per dare tutto se stesso a Michael e quando questo se n'era andato, si era ritrovato solo.
Era uno sbaglio che non riusciva a perdonarsi, ma purtroppo non poteva più tornare indietro.
Riordinò alcune scartoffie dentro un raccoglitore blu, che ripose nel primo cassetto della sua scrivania. Non faceva altro che prendere appuntamenti per i clienti, sistemare fogli e pensare al rinnovamento dei biglietti da visita dello studio legale. Aveva una sola collega, Claire, che lavorava sulla scrivania davanti alla sua; anche lei dopo essersi laureata non aveva trovato nient'altro che quell'impiego. Era stata assunta un anno prima di lui ma a causa dell'imprevista maternità era tornata a lavorare da qualche mese. Lei, a differenza sua, aveva un compagno con il quale si sarebbe sposata nel giro di sei mesi, aveva un bellissimo bambino di un anno ed un'appartamento a pochi passi da lavoro. I suoi coetanei iniziavano a metter su famiglia, a portare avanti le proprie ambizioni mentre lui li osservava da lontano. Non era una bella prospettiva.
Finalmente quel pomeriggio, dopo una settimana di pausa forzata, Ryan sarebbe tornato a casa sua. Quando però lo accolse in casa con un sorriso gentile percepì che qualcosa non andasse. Okay, il diciassettenne aveva avuto l'influenza, ma possibile che il suo viso e tutto il suo corpo risultassero così smunti?
La prima volta che l'aveva visto era un po' in carne, lievemente in sovrappeso, ma ora dov'erano finite le gote arrossate, i fianchi arrotondati resi evidenti dai jeans?
Rimase sconcertato da quella visione che non corrispondeva a ciò che aveva visto appena qualche settimana prima, forse un mese o giù di lì. Perfino i capelli rossi parevano spenti della loro vivacità e ricadevano leggeri sulla sua fronte.
"Come ti senti?", non poté fare a meno di chiedergli. Ryan lo guardò con quegli occhi castani che sormontavano due occhiaie evidenti.
"Bene", mormorò il più giovane con un filo di voce, sedendosi esausto sul divano che molte volte precedentemente aveva occupato. Era diventato piuttosto bravo con le bugie, in quel periodo. Sì, sto bene, ho mangiato, non ho molta fame e penso che salterò la cena, ripeteva sempre la stessa litania. Non stava bene, affatto, ma avrebbe rinunciato a qualsiasi forma di sostentamento pur di non vedere più quella figura riflessa nello specchio fissarlo.
Sua madre l'aveva portato dal dottore, convinta che si trattasse d'influenza intestinale; il medico gli aveva prescritto un paio di pasticche da ingerire, una alla mattina ed una prima di dormire, ma ovviamente non avevano alcun effetto sul suo organismo. Aveva anche iniziato ad evitare Graham: il suo sguardo sospettoso lo rendeva vulnerabile, più di quanto già lo fosse.
Eric aveva già iniziato a parlare, vedeva le sue labbra muoversi e la lingua sfiorare i denti ma non udiva le sue parole. Sentiva l'interno della sua nuca pulsare ritmicamente e il corpo tremare in modo impercettibile, nonostante sentisse caldo. Lo stomaco faceva male, malissimo.
Adesso Eric aveva smesso di muovere le labbra e lo stava fissando, gli occhi grigi sgranati; aveva appoggiato entrambe le mani sulle sue spalle e lo scuoteva piano, attento a non stringere troppo la presa: temeva che anche il più piccolo movimento potesse ferirlo. Il suo cuore batteva rumoroso contro la cassa toracica mentre il panico lo pervadeva completamente. Non aveva mai assistito ad una scena del genere: Ryan era lì, davanti a lui, ma i suoi occhi parevano guardare oltre, attraverso le pareti dell'appartamento, ed erano vitrei. Ebbe appena il tempo di chiamarlo un'altra volta, poi abbandonò la presa dalle sue spalle spaventato, perché il corpo del giovane era sgusciato via dalle sue mani, affondando tra i cuscini del divano, privo di coscienza. La costosa chitarra era caduta a terra provocando un sonoro tonfo, ma non se ne curò.
Eric stava tremando, era nel panico più assoluto e non sapeva come comportarsi; ricordò di aver letto su una rivista che, in caso di svenimento, il soggetto doveva essere fatto sdraiare, quindi senza neanche pensarci due volte tirò il diciassettenne per le gambe e lo raddrizzò.
"Oddio, svegliati", disse con voce tremante scuotendo adesso con più energia il corpo immobile di Ryan, che sembrava dormire tranquillamente sul suo divano. Quell'inferno durò per altri lunghissimi trenta secondi, poi il giovane riprese coscienza aprendo gli occhi di scatto. La testa iniziò a vorticargli pericolosamente e la vista era appannata, ma lentamente riuscì a distinguere una persona chinata su di lui. Eric.
Era svenuto davanti a lui. Non poteva essere vero.
Il viso del venticinquenne era contratto dalla tensione, le sopracciglia scure corrugate.
"Sto' bene", disse Ryan tentando di tirarsi a sedere nonostante il forte mal di testa. Ci riuscì e, con una smorfia di dolore, rivolse lo sguardo al suo insegnante.
"No, non stai affatto bene", asserì, alzandosi per andare a prendere un bicchiere d'acqua fresca.
"Per favore non dirlo a nessuno", lo supplicò il più giovane stringendo tra le mani il bicchiere di vetro che gli era appena stato offerto. Eric lo stava fissando in quel modo, lo stesso con cui lo guardava anche Graham. Lo stava leggendo perché in quel momento Ryan era un libro aperto, era stato colto alla sprovvista, si era scavato la fossa da solo.
"A chi dovrei dirlo?", chiese freddo.
Ryan deglutì l'abbondante sorso d'acqua ed abbassò lo sguardo "A-a mia madre", mormorò. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime e batté più volte le palpebre.
"Devi essere aiutato, lo sai vero?".
Per la terza volta in pochi minuti, Ryan terrorizzò Eric. Scattò in piedi dopo aver appoggiato il bicchiere sul tavolino da caffè, le guance rigate di lacrime e gli occhi lucidi spalancati. Non somigliava minimamente al ragazzino che aveva conosciuto poco tempo prima, un po' insicuro ma posato.
"No! Io sto b-bene, n-non ho bisogno d'aiuto", ripeté ad alta voce singhiozzando. Tornò a sedersi solo quando percepì il dolore alla testa aumentare, ma non smise di piangere. Nessuno doveva sapere, era stato uno stupido a lasciarsi andare in quel modo; Eric l'avrebbe fatto andare via perché era un disastro e quando sarebbe tornato a casa sua madre si sarebbe accorta del suo malessere. Contro ogni previsione, però, il venticinquenne si sporse verso di lui e lo strinse tra le sue braccia sospirando profondamente. Ryan dapprima s'irrigidì, poi abbandonò la fronte sulla spalla del maggiore e si concentrò sul suo respiro regolare e sul buon profumo di pulito.
"Non devi piangere", disse a pochi centimetri dal suo orecchio, provocandogli una serie di brividi che si propagarono lungo tutto il suo corpo. Il diciassettenne sentiva le lacrime attraversargli le guance scavate ma non si curò di asciugarle, lasciando che bagnassero la maglietta di Eric perché ormai lui sapeva e non si era mai reso conto di quanto fosse importante avere un sostegno in quel momento. Quando sciolsero l'abbraccio, dopo quelle che a Ryan parvero ore, Eric appoggiò la mano sul dorso della sua e lo guardò, stavolta senza severità o rimprovero, bensì sincero ed impensierito.
"Non sono nessuno per dirti cosa fare, ma davvero non ne vale la pena", disse. Bastarono quelle poche parole per riscaldare un po' il cuore congelato del diciassettenne.
Ryan tirò su con il naso ed annuì flebilmente.
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♦
Daniel era preoccupato.
No, più che preoccupato, era incazzato a livelli stratosferici. L'oggetto del suo furore era Felipe che, dopo averlo baciato all'improvviso sulla soglia di casa sua come nei migliori film romantico-adolescenziali, era praticamente scomparso per ore. Il giovane calciatore aveva atteso tutta la sera e gran parte della mattina un suo messaggio, chiamata, lettera via piccione...qualsiasi cosa, ma del brasiliano non c'era stata traccia. Un po' c'era rimasto male, che non si fosse fatto sentire e che l'avesse lasciato così, con mille domande a tormentarlo con persistenza. L'aveva baciato, questo presupponeva che fosse interessato a lui, giusto?
Allora perché non si erano più scambiati neanche un messaggio?
Durante gli allenamenti aveva cercato di scaricare la tensione dando il meglio di sé come al solito, ma non era bastato a togliersi dalla testa le labbra di Felipe che sfioravano le sue. Brandon correva dietro di lui eseguendo i suoi stessi esercizi sotto il comando di Neil, l'allenatore, che dettava il ritmo mediante il suono del fischietto che portava sempre al collo.
Emise un fischio prolungato che sancì la fine della sessione di esercizi; i giocatori avevano ormai associato quel suono al significato di radunata, quindi corsero verso l'uomo sulla quarantina che li attendeva al centro del campo a braccia conserte. Daniel si bloccò alla sua destra e riprese fiato.
"Per la prossima partita vorrei fare un po' di turnover, quindi Murray, Cooper e Morison fuori", annunciò. Daniel non poté fare altro che annuire: era appena arrivato in squadra e Neil gli aveva già dato tanta fiducia, facendolo giocare per quattro partite di fila da titolare e di certo non si sarebbe mai permesso di contestare una sua decisione; c'erano tanti altri compagni di squadra che smaniavano di giocare, lui aveva mostrato tutto il suo talento in quei trecentosessanta minuti passati in campo mandando la palla ben cinque volte in rete. Anche gli altri due giocatori espressero il loro consenso ed attesero ulteriori informazioni da Neil, che però li congedò al giorno successivo, spedendoli sotto la doccia perché "diamine, puzzate come maiali".
Gli spogliatoi erano decisamente più ampi di quelli in cui Daniel era vissuto per almeno undici anni della sua vita, e lì si trovava più a suo agio. I compagni erano persone adulte eppure alla mano, non provavano invidia per le sue potenzialità ed anzi, spesso e volentieri lo incoraggiavano e si complimentavano con lui; in breve tempo il diciassettenne era diventato, assieme a Brandon, la mascotte della squadra.
Dopo essersi fatto una doccia ed aver salutato l'intero spogliatoio, uscì dal complesso sportivo con il borsone in spalla e si diresse verso la fermata dell'autobus poco distante dal campetto. Solo in quel momento si ricordò dell'esistenza del cellulare, stretto nella tasca dei jeans. Lo sbloccò con l'impronta digitale mentre il suo cuore faceva una capriola perché Felipe gli aveva scritto ben tre messaggi.
[Felipe]
Sono passato da te e tua madre mi ha detto che ti stai allenando, ti aspetto qui fuori...
[Felipe]
Da quale parte esci? Ci sono due uscite
[Felipe]
EHY DOVE VAI SONO QUI!!!
L'ultimo messaggio gli era stato inviato proprio in quel momento. Sollevò lo sguardo dallo schermo del cellulare e si guardò attorno alla ricerca dell'automobile del brasiliano, che scorse parcheggiata alla sua destra. Alzò una mano ed annuì per fargli capire che l'avesse visto poi si avviò lentamente verso la vettura, ipotizzando nel suo cervello almeno un centinaio di insulti da rivolgergli ed altrettanti complimenti perché, dopotutto, gli piaceva da impazzire. Fece il suo ingresso nell'abitacolo lanciando con poca grazia il borsone sui sedili posteriori poi si sporse per salutare il diciannovenne, ma ci ripensò. Come diamine avrebbe dovuto salutarlo? Bacio sulla guancia?Sulle labbra?
"Prendo un fazzoletto", divagò afferrando un pacchetto che si trovava vicino al freno a mano.
"Fai pure".
Finse di soffiare il naso poi infilò il fazzoletto nella tasca della giacca. Perfetto, ed ora?
L'automobile era già in movimento e dalla radio proveniva il suono tenue della musica, Felipe guidava con lo sguardo fisso sulla strada davanti a sé ma un certo nervosismo era tradito dal movimento ritmico delle dita contro il volante.
"Com'è andato l'allenamento?", domandò immettendo la freccia verso sinistra.
"Bene, ma la prossima partita non me la fa giocare, vuole cambiare un po' per farmi riposare", rispose sbrigativamente prima di accorgersi che quella non fosse la strada giusta per riportarlo a casa. Quando glielo fece notare, il diciannovenne ribatté sorridendogli misteriosamente.
"Che c'è, sparisci per quasi un giorno e poi mi rapisci all'improvviso?". Eccola, la frecciatina che tanto aveva desiderato lanciargli.
Felipe colse perfettamente il tono infastidito malcelato dal più giovane e sorrise sotto i baffi.
"Sono sparito ma adesso eccomi qui, no?".
Daniel smise di guardare fuori dal finestrino per voltarsi verso di lui ed ammirare il suo profilo perfetto, le ciglia lunghe abbassarsi ed alzarsi ogni volta che batteva le palpebre.
"Pensavo che ci avessi ripensato", disse piano, dando voce ai suoi pensieri. L'automobile frenò bruscamente a causa del semaforo rosso, e Felipe colse l'occasione per girarsi e guardarlo. Si sporse oltre il suo sedile avvicinandosi pericolosamente alle labbra del diciassettenne e lasciandovi un bacio a stampo. "Non ci ho ripensato", confermò tornando a guardare la strada mentre Daniel bolliva in un brodo di giuggiole.Non riusciva a crederci, eppure i suoi sentimenti erano ricambiati. Se quello era un sogno, sperò di non essere mai svegliato.
Ma Felipe era vero, era vivo e sedeva al suo fianco, ogni tanto inclinava appena la testa per lanciargli occhiate sfuggenti e canticchiava le canzoni in portoghese che aveva salvato su centinaia di dischi riposti ordinatamente nel contenitore sotto il sedile del passeggero.
Il giovane calciatore avrebbe voluto vivere così: ad ascoltare canzoni di cui non capiva neanche una parola, ma seduto vicino al ragazzo che gli faceva battere il cuore così velocemente da togliergli il respiro.
"Parli bene il portoghese?", gli domandò ad un tratto. La curiosità era tanta, ma non voleva spingersi troppo oltre e varcare il confine delle cose che doveva sapere; aveva intuito che le origini di Felipe fossero un argomento delicato dalla rivelazione fatta il pomeriggio precedente: il brasiliano aveva un fratello ma erano stati separati al momento dell'adozione. Chissà che infanzia aveva avuto, per essere stato adottato a cinque anni.
"Si, quando sono arrivato qui non parlavo l'inglese e mi ci è voluto un po' per impararlo bene, però i miei genitori hanno continuato a farmi studiare anche il portoghese", spiegò annuendo "dicono che conoscere una lingua in più fa sempre comodo".
"Hanno ragione e te lo dice uno che ha studiato solo spagnolo alle medie", concordò.
"E sentiamo un po' le tue doti da poliglotta, dai", disse Felipe divertito.
"Non ricordo più nulla, in realtà", ammise il più giovane.
Il diciannovenne alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. "Quanti anni sono passati, due? Come fai ad aver dimenticato tutto?".
Ricevette uno scappellotto dato con fin poca convinzione. "Simpatico", borbottò Daniel "sei te che stai uscendo con un ragazzo più piccolo di te...di due anni, poi, che neanche sono tanti", lo accusò. Incrociò le braccia al petto e si raddrizzò con la schiena contro il sedile, fingendosi offeso.
"Non mi sto lamentando, infatti", lo rassicurò Lipe senza riuscire a togliersi il sorriso dalle labbra.
Daniel rimase in silenzio e non poté fare a meno di sentirsi compiaciuto da quella risposta.
Felipe staccò una mano dal volante e l'allungò verso la radio per alzare un po' il volume; spinto dall'improvviso moto di coraggio appoggiò quella stessa mano sul ginocchio del diciassettenne e risalì lungo la sua coscia. Riusciva a sentire i muscoli allenati anche se a dividerlo dalla pelle di Daniel c'erano un paio di jeans. Rimasero così per un bel po', godendosi il momento e la musica che adesso giungeva più forte alle loro orecchie.
Quando eu te vi, eu tava bem louco
Quandoti ho visto, sono impazzito.*
Trovare un parcheggio al centro di Londra, in prossimità di Hyde Park, fu un'impresa che occupò ben venti minuti del loro tempo. Felipe imprecava a bassa voce e scrutava attento il bordo strada, alla ricerca di un posto disponibile in cui parcheggiare la propria automobile. Quando scesero dalla vettura sospirarono di sollievo e chiusero gli specchietti retrovisori(Felipe aveva una paura fottuta che qualcuno potesse urtare accidentalmente il suo gioiellino), poi si avviarono verso l'entrata principale del parco senza attraversare la strada. Infatti, Felipe gli fece cenno d'infilarsi in una strada secondaria.
"Ho bisogno di pranzare", fu la sua spiegazione prima di entrare in una friggitoria che Daniel non aveva mai notato in vita sua.
"Dobbiamo mangiare proprio qui?", domandò a bassa voce Daniel guardandosi attorno. I tavoli occupati erano davvero pochi ma nonostante questo il locale non sembrava poi così squallido come appariva dall'esterno, però l'odore di fritto era davvero penetrante. Felipe non fece in tempo a rispondergli, perché il suo migliore amico uscì fuori dal magazzino trasportando con sé un pacco di patate surgelate che avrebbe a breve buttato nella friggitrice.
"Guarda un po' chi si vede!", esclamò Thomas sorridendo gioviale nella loro direzione. Si sistemò il cappellino con il logo del posto ed ammiccò in direzione di Daniel, che si domandò se lui sapesse. A giudicare dalla sua espressione poco sorpresa, sicuramente Felipe gli aveva rivelato tutto e come biasimarlo, erano migliori amici.
"Qual è la cosa che fa meno schifo qui?", domandò Felipe abbassando il tono di voce per non farsi sentire dagli altri clienti che, però, si stavano facendo i fatti loro accomodati sui divanetti in finta pelle.
"L'acqua, probabilmente", rispose Thomas dandogli le spalle; Daniel ridacchiò.
"Allora una porzione grande di patatine, che salsa ci vuoi sopra?", ordinò Lipe voltandosi verso Daniel.
"Maionese, il ketchup lo odio", disse il più giovane.
"Davvero? Anche a me non piace", commentò il brasiliano appoggiando il gomito sul bancone.
Thomas ascoltò la conversazione e sorrise sotto i baffi. "Che carini che siete", si lasciò sfuggire mentre metteva a friggere le patatine, che sfrigolarono nell'olio bollente.
"Stai zitto e facci il pranzo", lo rimbeccò scherzosamente Felipe, dando una gomitata a Daniel che era arrossito a causa dell'affermazione del ragazzo che lavorava in quel locale.
Pochi minuti dopo avevano salutato Thomas e si erano infilati nel parco più grande di Londra; il diciassettenne stringeva in mano il cono in cui erano contenute le patatine e di tanto in tanto attingeva con la mano per afferrarne una manciata.
"Era da tanto che non venivo a passeggiare qui", ammise. Nonostante la temperatura fosse molto bassa, il giacchetto che indossava lo teneva al caldo abbastanza da non fargli arrossare il naso. Era una cosa che odiava.
"Adoro questo posto, è la prima cosa che ho visto di Londra", gli rivelò Felipe prendendo una patatina dal contenitore e masticandola. Si guardò attorno, perso in chissà quali pensieri.
"Ancora te lo ricordi?", gli chiese timidamente Daniel; la curiosità era tanta ma anche la paura di risultare invadente.
Il brasiliano annuì. "Ricordo che mi hanno portato qui nonostante la stanchezza delle dodici ore di aereo e stavo morendo di freddo, non ero abituato alle temperature basse, però mi sono divertito un mondo".
Daniel sorrise, immaginando un piccolo Felipe correre per le stradine di Hyde Park con gli occhi verdi sgranati dalla meraviglia. Voleva baciarlo di nuovo, più intensamente e più a lungo dell'ultima volta. Buttò nel primo cestino a disposizione la carta unta delle patatine ormai finite e prima che potesse infilare le mani congelate nelle tasche del giacchetto, la sua destra venne stretta dalla mano di Felipe, che fece intrecciare le loro dita.
"Sei freddo", constatò il diciannovenne senza però interrompere il contatto. Daniel, di tutta risposta, allungò una mano e raggiunse il collo del più grande facendogli emettere un verso strozzato. Gli bloccò il polso, tirandoselo volontariamente addosso.
"Brutto str-". Non fece in tempo a concludere la frase, perché le labbra del diciassettenne catturarono le sue in un bacio finalmente come l'avevano immaginato da tempo. A Felipe non importò di essere in mezzo ad un numero considerevole di gente che passeggiava e non gli importò neanche che le dita congelate di Daniel sfiorassero il suo collo, anzi lo circondò con le braccia ed assaporò per bene quelle labbra calde con una nuova consapevolezza a fargli tremare le membra: stava perdendo la testa, ma era felice come mai lo era stato prima d'ora.
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Ciao a tutti!
Parto col dirvi che quell'asterisco *indica la citazione di una frase della canzone in portoghese che vi ho messo anche sopra, Tem Café-Gaab e MC Hariel ed è molto carina, quindi vi consiglio di ascoltarla anche per capire meglio i gusti musicali di Felipe, che avrete modo di scoprire più avanti. Un'altra cosa che scoprirete più avanti sono le origini del brasiliano, che in questo capitolo ci rivela qualcosa di nuovo su di lui.
Per Ryan invece le cose si mettono male, ed in questo capitolo cede. Purtroppo le conseguenze di quello che sta facendo sono reali, è una cosa che può capitare a tutti e quello che vi consiglio è di parlarne sempre con qualcuno, perché anche il nostro personaggio adesso si è reso conto che un aiuto, un abbraccio, è fondamentale.
Detto ciò, vi ringrazio per aver letto, votato e commentato la storia, vi saluto dandovi appuntamento al prossimo capitolo.
Lavy :)
PS. Una foto dei #Danipe fresca fresca (lo so, devo migliorare nel farle, ma abbiate pietà di me, sono appena agli inizi).
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