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2.7 ● NON MI SENTIVO PRONTO PER TANTO DOLORE

Dal finestrino, le nuvole erano nebbia rosa affettata dalle ali e trasmettevano la loro resistenza all'aereo, che di tanto in tanto tremava.

Avevamo aspettato quasi dodici ore all'aeroporto di Orlando, il primo in cui ero riuscito a trovare tre biglietti last minute con rientro aperto. In quelle ore Juno non aveva fatto altro che alternare momenti di pianto a momenti di sonno turbato.

La sua mano intrecciata nella mia era fredda, la testa appoggiata sul braccio mi premeva addosso tutta la sua stanchezza, per la notte passata a leggere e per tutto il tumulto che c'era nel suo cuore e nella sua testa. Le sfiorai le occhiaie, la pelle era ruvida dalle lacrime salate.

Mi girai a destra, verso Nathan. «Ha smesso di piangere e si è addormentata.» Sospirai, il decollo mi aveva liberato da una corda stretta al corpo, da lì a poco saremmo stati a Seattle.

Si sporse per un secondo per assicurarsi che stesse davvero dormendo. «Che ti ha detto tuo padre? A parte salvarci dalla presenza di Margareth White?»

Aggrottai la fronte «Margaret chi?»

Alzò le spalle e sorrise per un attimo. «La madre di Carrie. Stephen King. Gh!»

Trattenni una risata. Lui in mezzo al casino trovava sempre la maniera di vedere il lato ironico.

Strinsi le labbra e rimisi a posto il discorso di mio padre, mi assicurai che Juno fosse addormentata prima di riferirlo al mio amico. Man mano che andavo avanti il suo sguardo si faceva più scuro, si mordeva il labbro inferiore come se avesse avuto un bisogno urgente di parlare e grattava sui jeans scuri le unghie, che facevano un rumore basso e sordo, eppure per me era più potente del brusio delle persone sull'aereo.

«Un drink?» La hostess ci sorrideva, con il suo trucco perfetto e il baschetto blu marine che sembrava incollato sull'acconciatura biondo platino in una posizione antigravità impossibile da riprodurre. Di fianco a lei il carrello in metallo chiuso esponeva appena qualche bottiglia di analcolico e le solite riviste aeree.

Alzai appena la mano. «No, grazie.» La donna non cancellò il sorriso di circostanza dal viso e proseguì appena mezzo metro più in là col suo copione.

Nathan chinò il capo continuando a tormentarsi il labbro.

Mi appoggiai al sedile. «Sai, non posso credere che una persona possa arrivare a proteggere qualcuno picchiandolo. Col rasoio, addirittura. Se non fosse che lo stronzo le ha mandato indietro i vestiti, non risponde alle sue mail e per le foto che ho visto, penserei che sia tutto un delirio della vecchia.»

«Avrei dato qualunque cosa perché mia madre mi picchiasse.» Sbottò alla fine Nate, in un tono cupo. La sua mascella si contraeva con un ritmo regolare, così intensa che mi trasmetteva l'angoscia dei suoi ricordi. «Dovevo solo tenere dietro a Nicole. Era il mio unico dovere.» Il suo pomo d'Adamo si mosse in su poi in giù. «Ogni tanto lo rivedo. Se sbagliavo, mamma guardava Marianne e mia sorella mi schiaffeggiava. Non c'era nemmeno bisogno che glielo dicesse. Non mi parlava, né parlava di me. Per lei non sono mai esistito. Dovevo solo tenere dietro a mia sorella minore mentre mia sorella maggiore mi puniva.»

Ricordavo il clima che c'era in famiglia in casa sua: avevo imparato a riconoscere quel distacco oscuro, che penetrava la pelle e raggiungeva le ossa fino a ridurle cenere, morte. Per quello avevo convinto mio padre ad adottare quel rosso sbandato. Lo lasciai parlare. Era sempre così chiuso che le poche volte che si lasciava andare erano necessarie per lui quanto per me. Nathan mi aveva salvato, io volevo salvare lui.

Si voltò e mi rivolse un sorriso storto, triste come i suoi occhi lucidi. Rabbrividii, erano anni che non lo vedevo così sconvolto, pallido. Scosse la testa. «La prima volta che mi sono sentito esistere è stato quando David mi ha messo in castigo per aver fatto a pugni in palestra.» Le sue dita si insinuarono nella mano libera, a differenza di Juno erano bollenti.

Inspirai, il petto si riempì d'aria, un'aria cupa, viziata. Non vedevo l'ora di scendere, ma non sarebbe stato meglio. Il clima di Seattle a fine marzo non era certo quello della Florida, e le nuvole fuori dal finestrino si stavano insinuando anche dentro di me. Resistere era una prova di coraggio, ma negli ultimi mesi, avevo l'impressione che il ghiacciaio in cui mi ero ibernato negli ultimi tre anni si stesse sgretolando, lasciando libere acque fredde e scure.

Tornai a guardare fangirl. Avrei dovuto dirle la verità sulla sua famiglia, e su suo padre? Avevo salvato Nathan, ma cosa dovevo fare con lei? Non potevo strapparla dal suo passato, salvarla come avevo fatto col mio migliore amico. Non potevo liberarla dal presente, dalla morte.

All'uscita dall'aereo, come immaginavo, il sole era mascherato da un velo grigio che sembrava estendersi per tutta la città, simile nel colore e nell'aspetto a quello che era calato sul viso di Juno. La situazione non era migliorata dall'aereo: mi sentii soffocare da quella coltre pesante e umida. Non ero abituato alle città del nord e al loro sole basso e freddo.

Ci sistemammo allo Sheraton, in una suite.

La feci sedere su una delle poltrone porpora che arredavano il salottino antistante la camera da letto, fornita di due grandi letti matrimoniali. Nate le fece scivolare le scarpe dai piedi e le appoggiò sulla moquette nocciola a decori marroni. Iniziò a massaggiarle le piante. Si girò verso di me e con un cenno, indicò le poltrone. «Che ne dici?»

«Di sedermi, o della terribile combinazione di colore?» risposi senza entusiasmo.

Lei sospirò ancora ad occhi chiusi: dopo tutte quelle ore era ancora pallida. Mi sedetti accanto e presi tra le mani il suo viso, che era diventato caldo oltre ogni misura. «Mi domando se sia con noi, Nate.» Desideravo sapere cosa passava nella sua mente. Ricordi? Rifiuto? Forse, rabbia?

Sbatté le palpebre, come se il viaggio da Tampa fino a lì non si fosse nemmeno svolto. Osservò intorno e infine alzò lo sguardo verso di me e cambiò espressione. Ci conoscevamo da pochi mesi, era stata arrabbiata, umiliata, impaurita, ma la luce della disperazione nelle sue iridi opache, che mi arrivava dritta al cuore, quella, non l'avevo mai vista. Non mi sentivo pronto per tanto dolore.

Intonò qualche nota di "Fight your Demons" degli Y●EL●L per risposta.

Le mani mi tremarono per un attimo, respirai a palpebre chiuse e mantenni il controllo. Avrei fatto qualunque cosa per poter cancellare quella pena, ma EL era comunque una sfida troppo grossa. La interruppi. «Ascoltami, vuoi che chiamiamo la tua amica? Le domandiamo in che ospedale dobbiamo andare.»

Lei annuì.

Presi il suo telefono e di nuovo parlai col padre della ragazza, mi feci dare l'indirizzo e chiamai un taxi. «Hanno già sigillato la bara» informai Juno e Nathan.

Lui scosse la testa. «Sono piuttosto veloci. Capisco che nello stato di Washington siano efficienti, ma questa le batte tutte.»

L'odore di disinfettante che permeava la camera ardente ci investì appena entrati, e mi portò alla memoria ricordi poco piacevoli di permanenze ospedaliere, insieme a dolori fisici che negli anni si stavano cancellando dalla memoria.

Nella grande sala, le enormi finestre e le pareti erano coperte da pesanti tende in velluto marrone, che attutivano il vociare delle persone presenti, per la maggior parte ragazzini dell'età di Juno insieme a qualche genitore.
La bara, al centro della stanza, era già chiusa, come ci aveva annunciato il padre dell'amica.

Le mani di fangirl scivolarono via dal mio braccio, il suo viso ancora pallido si trasformò in una smorfia di stupore. Spalancò gli occhi e le sopracciglia si abbassarono, si allontanò e andò verso alcuni ragazzi. Una di loro, dagli occhi allungati, l'abbracciò subito. Forse era quella che aveva chiamato.

Adocchiai uno degli adulti, un uomo orientale di mezz'età con i capelli corti e radi, un maglione nero e dei jeans scuri accanto a un paio di donne che stringevano dei fazzoletti con forza. Mi avvicinai e gli porsi la mano. «Sono Michael Simmons. Lei dev'essere il padre dell'altra amica di Juno. Ci siamo sentiti al telefono.»

Lui alzò le sopracciglia, senza sorridere. «Oh, buonasera signor Simmons.» Ricambiò la stretta. «Sì, sono Jeong Kim.»

Spostai il peso da un piede all'altro e guardai di sfuggita la piccola bara bianca dietro di lui. L'uomo annuì, alzò la testa in alto guardando alle mie spalle, che mi fece intuire che Nathan era dietro di me. Tornò a guardarmi. «Aveva la febbre. Pensavano fosse influenza. Era meningite. L'hanno portata all'ospedale quando ormai era troppo tardi.» Si portò l'indice e il pollice alla base del naso e strizzò le palpebre. «Non l'hanno lasciata aperta per evitare contagi. Hanno fatto d'urgenza il test a tutti. Per fortuna, sono risultati negativi. Ha cominciato a stare a casa da subito.»

«Capisco.»

Mi misi in disparte insieme a Nate, tenendola d'occhio mentre si abbracciava con i compagni che non vedeva da mesi. Annuiva, piangeva, si asciugava le lacrime e parlava a testa bassa. Poi, tornava a piangere. Sperai che le facesse bene, che l'aiutasse a buttare fuori il dolore.

«Ehi, fratello» Nate mi mise una mano sulla spalla. «Come va?»

«Che vuoi che ti dica? Siamo io e te, ad accompagnare Juno in uno dei suoi momenti più orribili della vita, a poco meno di un mese dal suo sedicesimo compleanno, e non dovremmo nemmeno esserci. Come minimo dovrebbero essere i suoi genitori.»

Girai lo sguardo per tutta la stanza e in quel momento entrò un'altra ragazza, indossava un cappotto beige con un collo di pelliccia di volpe e camminava austera, le onde dei capelli biondi sciolti e curati rimbalzavano a ogni passo. Il viso emanava un senso di noia e dolore di circostanza. Dietro di lei apparve una donna il cui volto mi era diventato familiare non molte ore prima. Il mio cuore si fermò. «Cazzo.» Un'ondata di freddo mi investì la testa e il torace. Sembrava che il destino ci avesse presi in giro.

Nate si voltò nella mia stessa direzione. «Che?»

Strinsi i denti «Cazzo, ti prego fa che non ci sia anche lui.» I muscoli mi si bloccarono, caldi, pronti a scattare.

Nate schioccò la lingua. «Tsk! Due cazzi. Non un buon segno. Che c'è?»

Non feci in tempo a spiegare: un uomo entrò seguendo le due. Era di statura media, con una folta chioma riccia e brizzolata e una barba altrettanto folta e curata. Indossava un completo grigio con una camicia azzurra, senza cravatta, e si guardava intorno austero, la stessa espressione sprezzante della ragazza e della donna.

«L'uomo che è appena entrato, è suo padre.» Buttai fuori con l'unico filo di fiato che mi era rimasto.

Nate mosse un passo per avvicinarsi ancora di più a me. «Dici il tizio che sta lì alla porta con la tipa a cui darei volentieri una botta? Cazzo, voglio vedere se dopo aver preso il mio, di palo, quello nel culo le si scioglie.»

«Porco cane, vuoi essere serio? Siamo nella merda!» Lo zitti a denti stretti, mi trattenni dal dargli un pugno in testa. «Che ne sapevamo che fosse la madre di una compagna di scuola di Juno?» Mi voltai verso di lui e girai le spalle all'uomo.

Lui sfoderò la sua faccia sarcastica. «Quando si dice che l'arte imita la vita.»

«Non ho bisogno del tuo umorismo. E nemmeno del tuo uccello. Non ora.» Lo ripresi. «Forse dovevo dirglielo, mentre eravamo sull'aereo. Solo che... L'amica, e poi il padre. Cosa Devo fare?»

Lui alzò le spalle. «Non puoi proteggerla da tutto. So che è una sfortuna, ma ci siamo in mezzo. Se non oggi, prima o poi l'avrebbe saputo. Non sei un problem solver.»

Lo guardai di traverso, mettendomi le mani in tasca. «Senti chi parla. Quello che ha un fiuto incredibile per trovare problemi e mettercisi dentro!»

«Ma io sono diverso!» Sorrise innocente.

Mi portai la mano sugli occhi e sospirai.

«Sì, okay, ho l'abitudine di impicciarmi un po' troppo degli affari degli altri» ammise.

Alzai le sopracciglia. «Un po' troppo.»

«Aspetta,» mi trattenne, «Vediamo che fa. Non credo che ci salterà fuori un incontro di wrestling.»

Uno schiocco partì dalla sala facendomi sobbalzare.

«O magari sì...» continuò il mio amico.

Strinsi la mascella e mi voltai di scatto. Juno era immobile col braccio alzato, la ragazza si stava girando lenta verso di lei, aveva le palpebre così spalancate che dalla nostra distanza riuscivo a capire che erano castani. La guancia era rossa.

«Stronza!» la voce di fangirl arrivò, rotta dal pianto, a riempire il silenzio che si era formato intorno a lei e alla biondina. Dalla bara, tutta l'attenzione si era spostata su di loro.

L'altra mise le mani avanti come artigli e si mosse verso Juno, il mio amico mi superò e corse da fangirl, la prese da parte; l'impellicciata alzò lo sguardo, fece un passo indietro ritirando gli artigli rossi e impallidì; l'impronta della mano si fece più evidente sulla sua faccia. Nate abbracciò Juno e lei si mise a piangere sul suo petto. La sollevò da terra e l'accompagnò nel corridoio. Li seguii, quando Nathan si girò verso di noi notai il suo sguardo duro osservare dietro le mie spalle.

Mi girai: il padre ci aveva inseguiti ed era a poco meno di un metro da me. Ci fissammo per qualche attimo: aveva lo stesso colore delle iridi di Juno, in quel momento sentii di odiarlo, quell'uomo non meritava nemmeno di aver trasmesso dei cazzo di cromosomi a un essere umano.

«Fatemi parlare con Jennifer.» Il tono che usò non era una richiesta, ma una pretesa, un comando. Non aveva un briciolo di vergogna o dignità.

Mi misi tra di loro; avevo la fronte bagnata, le mani mi tremavano e la gola era secca. Una parte di me spingeva con urgenza per poter liberare tutta la rabbia repressa, ero pronto a esplodere, saltargli addosso senza dargli il tempo di controbattere. Si sarebbe pentito di ogni decisione, di tutto il male che aveva fatto a sua figlia, persino di vivere a Seattle, ma non potevo. Una cosa era affrontare uno scagnozzo di strada a pugni, un'altra era controllarsi davanti a uno stronzo in un ospedale, nel pieno di un funerale ed evitare una rissa da bar. «Non credo che sia il caso, signor Bennett.» Accorciai la distanza tra noi, abbassai il mento sul petto e gli lanciai un'occhiata dall'alto.

L'uomo raddrizzò la schiena, come Juno. «Voglio parlare con mia figlia.» Ripeté arrogante, privo di timore o umiltà.

«Ah, davvero?» risposi a voce bassa. «Dopo che si è presentato con la madre di una sua compagna di scuola e forse, per anni, si è fatto i suoi cazzo di comodi? Dopo che le ha mandato la sua roba per posta senza dire niente, vuole parlare con sua figlia? Lei davvero crede di avere il diritto di trattare con lei?»

«Certo che ce l'ho. Sono suo padre. Tu chi sei?» Il tono non era cambiato, sicuro e presuntuoso.

«Non le deve interessare, proprio come non le è mai interessato niente di Juno. Se ne vada. Siamo davanti a una camera ardente, sarebbe da stupidi mettersi a litigare qui. Lei non ha niente a che fare con noi.» I pugni mi stavano tremando e pizzicando.

Sembrò pensare un attimo, mi guardò dall'alto al basso poi si ritrasse, socchiuse gli occhi puntando il dito verso di me. «So chi sei. Ho trovato le lettere di Sharon!»

Se ne andò via dal corridoio a falcate lunghe e veloci, rientrò nella camera e poco dopo ne uscì, accompagnato dalla donna e dalla figlia di lei. Coprii Juno, che stava ancora piangendo, alla sua vista.

Ecco come ha trovato l'indirizzo di casa nostra per restituire la roba a Juno. Che stronzo. Lo sapeva fin dall'inizio dov'era sua moglie.

Forse la zia per la furia di fuggire aveva lasciato troppe tracce dietro di sé, ma quella era una conferma in più che Deanna, la nonna, non era pazza. Presi un lungo respiro per calmarmi. «Hei, fangirl» mi voltai verso Juno e le accarezzai la capigliatura rosa, «Se ne sono andati. Vuoi tornare in albergo?»

Si passò una mano sul viso arrossato e l'altra sui capelli per spostarli. Nate si allontanò, la scritta sulla maglietta che diceva 'conta su di me per stendere il tuo nemico' aveva macchie scure e semi trasparenti.

Scosse piano la testa. «Domani c'è il funerale. Poi andiamo via» mormorò.

Note autore

Certo che noi autori siamo proprio infami, vero? Io credo che se Juno, Michael e Nathan fossero veri, mi porterebbero al patibolo.

A proposito di Nathan, ve lo aspettavate che dietro al buffone della compagnia ci fosse un passato così?
A volte le persone che sorridono di più sono quelle che hanno sofferto e non vogliono vedere gli altri star male.

Se vi sta piacendo la mia storia, continuate a seguirmi e lasciatemi una stellina 🌟
Non preoccupatevi, non sono una stalker e non vi chiederò la carta d'identità né opinioni su quello che ho scritto. Me ne starò in un angolino a piangere di gioia. 💖

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