2.6 ● STA PEGGIO DI QUELLO CHE PENSI
All'ora di colazione fangirl non si presentò. Nate mi fissò in silenzio dall'altro lato della tavola per diversi minuti, immobile, un gomito appoggiato sul legno e il mento sul palmo.
Sbuffai e mi alzai dalla sedia. «Capito.»
Aprii la porta della camera di Juno. Era seduta sul lato lungo del letto, con gli occhi chiusi. Non si era nemmeno coperta ed era vestita come la sera prima. La luce della finestra la raggiungeva nella sua posa da bambola, con la schiena contro il muro e le gambe distese. Le labbra morbide semichiuse e l'espressione stanca erano ipnotizzanti, sarei stato ore a seguire il sole scivolare sulle sue curve chiare, in contemplazione.
Vorrei che fosse una favola, svegliarti con un bacio.
Allungai la mano, col dito saggiai la morbidezza e il calore di quella guancia rosa. «Ehi, fangirl.»
Strizzò gli occhi, il capo si mosse da una parte all'altra. «Cosa?» rispose con voce stanca.
Le dita strinsero appena il piccolo libro giallo appoggiato tra le cosce. «Quante pagine hai letto?» Lo presi dalle sue mani. Qualche segno leggero rimase sulla pelle candida. «O ti sei addormentata prima?»
Si strofinò gli occhi. «Oh, l'ho letto tutto. E nel dizionario» sbadigliò e indicò il tomo aperto accanto, «Ho trovato delle belle parole.» Stirò le braccia confermando quello che avevo notato la sera prima: il seno le era cresciuto. Il tessuto si tirò sul suo ventre e scoprì l'ombelico sottile e verticale, un fremito si mosse dal collo espandendo calore al petto.
Deglutii a fatica. «E il libro ti è piaciuto?» La presi per mano e la sollevai dal letto.
Traballò per qualche attimo sulle gambe incerte e si aggrappò al mio avambraccio. «Sì. Erik è un genio. Alla fine è cattivo perché tutti lo hanno trattato male per la sua deformità.» sbadigliò ancora, «Ma se lo trattavano... se lo avessero trattato meglio, forse sarebbe stato diverso.»
Quel ragionamento mi fece sussultare. «Davvero lo pensi?» Forse avevo anche io una possibilità, con tutti i miei problemi. Una possibilità che mi accettasse com'ero.
Alzò la testa, le iridi verdi assunsero una sfumatura giallo-arancio con il riverbero del sole. «Mostro ci diventi quando gli altri ti convincono che sei un mostro. Nessuno nasce cattivo.» Si strinse nelle spalle guardando per aria. «Quasi nessuno. Erik di sicuro no. Se tutti gli avessero dato una possibilità. O forse solo Christine. Però lei era innamorata del visconte fin da piccola, e quindi c'era prima lui. Lui non doveva essere geloso. Ha fatto male a rapirla pensando di...»
Si voltò e osservò l'orologio. Fece di nuovo l'espressione corrucciata del giorno prima, anche se era contornata da un alone di sonno e mi premette la mano piccola e calda sul petto.
Non sapevo di avere un tasto proprio in quel punto, ma il mio cuore si avviò e partì un rullo di batteria, che durò il tempo di capire che fangirl mi stava cacciando fuori di camera per cambiarsi. Mi sbatté la porta in faccia.
Nate era lì. «Gh! Ancora non si spoglia davanti a te?» Mi canzonò, per ricordarmi che lo aveva fatto davanti all'intera scuola.
Dopo un quarto d'ora non si era ancora fatta vedere. «Fangirl, è tardi, arrivi?» La chiamai dalle scale e lei corse giù con lo zaino ancora mezzo aperto. Si precipitò in cucina e in scivolata sulla sedia prese posto a tavola. Il suo cucchiaio si muoveva veloce tra la ciotola dei corn flakes e la sua bocca.
Il suo telefono squillò. Con le guance piene di cereali lo afferrò e guardò il display. «Chi? Heth? A quesh'ora?» Bofonchiò. «Honto?» Mandò giù tutto quello che aveva in bocca in una volta sola.
Mi girai e afferrai una tazza, il silenzio che seguì e il suono della posata che cadeva per terra, alle mie spalle, mi preoccupò. Tornai a guardarla, le guance erano pallide, fissava il display del telefono a palpebre sbarrate e scuoteva la testa.
«Juno?» Mi avvicinai e la scossi per una spalla. Il respiro era pesante e sembrava assente, le lacrime le stavano riempiendo gli occhi.
Nathan mi arrivò vicino. «Ehi?»
Guardai lei e poi lui, i miei pensieri erano annebbiati, una voce femminile arrivava dal cellulare. Lo afferrai deciso. Non potevano essere di nuovo quei bulli che le stavano facendo orribili scherzi. Lo accostai all'orecchio e un singhiozzo indistinto femminile mi fece drizzare i peli della nuca, come in un film dell'orrore.
«Chi parla?» buttai fuori ricordandomi di respirare e osservando Nate che aiutava Juno ad alzarsi dalla sedia. «Pronto? Chi è?» insistetti.
Dall'altra parte, tra i singhiozzi distinsi una frase: «Rita è morta».
Rita è l'amica di fangirl, quella con cui ogni tanto si rifugiava in camera.
Mi sembrò troppo di cattivo gusto per non essere vero. «Posso parlare con un adulto, per favore? Tua madre? Tuo padre?»
Vi fu un rumore indistinto. «Pronto? Con chi parlo?» domandò dall'altra parte una voce maschile.
«Sono il cugino di Juno Bennett, Michael Simmons, dalla Florida. Cosa succede?»
«Conosceva Beth? Sta telefonando a tutti gli amici. Una compagna di classe, Encarnita Cruz, è morta qualche ora fa.» Spiegò l'uomo con voce stanca e rassegnata
Serrai il fiato tra le labbra. «Cos'è successo? Juno ha parlato di lei fino a qualche giorno fa.»
«Non lo sappiamo di preciso, lo ha riferito un'amica di mia moglie, che lavora in una clinica qui a Seattle.» L'uomo fece una pausa, «Sono spiacente. Volete che vi teniamo informati sul funerale?»
Juno, ancora pallida, era ferma sull'uscio della cucina. Non era più la bambola delicata di pochi minuti prima, ma una statua rigida di cera, con le braccia lungo i fianchi. Scuoteva la testa in modo impercettibile e sulle labbra le si formavano dei "no".
Nathan le stava spostando i capelli dal viso.
«Jennifer» La zia apparve al suo fianco, «Noi andiamo al lavoro oggi abbiamo l'inventario.»
Afferrò per il braccio la figlia e la scosse. «Jennifer? Insomma, vuoi rispondere? Stai ancora dormendo?»
Il volto di Nate divenne color fiamma. Si voltò di scatto verso mia zia. «Sharon, seduta.» Indicò la sedia e per qualche magia strana, la zia si sedette, mentre la porta sul retro sbatteva e i passi di mia madre si avvicinavano.
«La sua migliore amica è morta.» Comunicai. La voce dall'altro lato mi chiamava. Presi una decisione istintiva. «No. Juno arriverà per partecipare. Grazie.» Riattaccai.
Io e Nate ci guardammo in silenzio. Come mi sarei sentito se il mio migliore fosse morto all'improvviso, e fossi stato tanto lontano da non potergli dare nemmeno l'ultimo saluto? Lui la prese in braccio e la portò in sala.
Mio padre ci raggiunse, sistemandosi la cravatta, la porta sul retro sbatté. «Sharon? Io sono pronta per andare.» Mia madre si fermò accanto alla scala, accortasi della scena mi raggiunse.
«Le è morta un'amica di Seattle, quella del compleanno.» Li informai. «La portiamo là per il funerale.»
Sharon sbarrò gli occhi, i capelli scarmigliati riflettevano il suo stato mentale. «Non ci va a Seattle senza di me.» sentenziò.
La guardai. Non c'erano permessi o richieste, era una decisione e non c'era appello, non per lei. Mio padre si mise tra lei e me. Ero pronto anche a litigare con lui, nemmeno i marines mi avrebbero fermato, e con me c'era Nathan, già a braccia conserte come una guardia del corpo. Mio padre si mise di fronte alla sorella. «Ci andrà, sì. Senza di te.» La sua difesa mi sorprese, feci un passo indietro e per poco non andai a schiena indietro sul sofà. Afferrai il bordo in legno.
«Non ce la mando da sola con lui a Seattle!» si impuntò lei.
Lui le mise una mano sulla spalla. «Shan, lasciala andare con loro.»
Lei si voltò a labbra strette verso il fratellastro. Lui mosse la testa. «Tranquilla, ci diranno esattamente tutto quello che succede.» Mi lanciò un'occhiata, «Vero, Michael?»
«Certo che sì.» Confermai, ancora senza fiato per la sorpresa.
Mia madre appoggiò le chiavi sul piccolo tavolino accanto alla scala e si avviò verso il piano di sopra. «Vado a preparare qualcosa per il viaggio e recupero la tua valigia.»
La zia si rifugiò in cucina brontolando, un tintinnio di tazze sbattute sul legno mi fece capire che stava prendendo un altro caffè.
Mio padre mi tirò per il braccio e mi fece cenno di seguirlo nel suo studio. Una volta entrato, chiuse la porta.
«Grazie per aver convinto Sharon» iniziai, lui alzò la mano e scosse la testa. «Non l'ho fatto solo perché mi sta bene che tu e Nate portiate Juno a Seattle.» Inspirò a pieni polmoni, fissandomi negli occhi. «Sempre che qualcuno non prenda il sopravvento.»
Mi strofinai la faccia. «Sto bene. E c'è Nate.»
«C'è un motivo per cui non voglio che Sharon torni a Seattle. Non voglio darle una scusa per contattare suo marito.» Si avvicinò al computer e lo accese. «Ho avuto notizie sul padre di Juno. Sono almeno otto mesi che lavora come quadro per una multinazionale di Seattle.»
Con un paio di clic aprì dei file e mi indicò i dati sul monitor. Le cartelle parlavano chiaro: Adam Bennett aveva lasciato moglie e figlia in miseria mentre prendeva un discreto stipendio.
«L'hanno visto con un'altra donna.» Proseguì facendomi vedere alcune foto dell'uomo di cui già conoscevo il volto. Stava uscendo da un negozio con l'insegna di Armani insieme a una signora mora che indossava un lungo cappotto rosso col collo di pelliccia, uno stile che mi ricordò Taryn. Chiusi la bocca e deglutii, ricacciando indietro le domande che mi si affollavano in testa.
Come può un uomo avere il coraggio di rinnegare a quel modo non solo la moglie, ma addirittura la figlia?
Rividi le lacrime di Juno nell'aprire la scatola che le aveva rimandato e mi salì allo stomaco il sangue della rabbia. Se ne fosse venuta al corrente, come si sarebbe sentita? Lo avrei annientato dal mondo, se solo mi fosse capitato sotto. Lei non si meritava quello che aveva passato, il bullismo, la perdita degli amici e della casa, tutto per quel viso brizzolato con la barba folta, vestito con abiti costosi, che usciva con una donna che poco aveva a che fare con Sharon. Presi un lungo respiro. «Hai fatto queste indagini dopo che ti ho detto che Juno ha cercato suo padre?»
Spense il computer. «No.» Si voltò verso la cassettiera in noce anticato dietro alla scrivania, si frugò in tasca e aprì l'ultimo in basso di sette cassetti. Ne riemerse con una busta da lettera mezza chiusa, che mi mise davanti. L'indirizzo era scritto in una calligrafia ordinata che indicava come mittente una chiesa cattolica di Seattle.
«Questa cos'è?» La afferrai e la rigirai tra le mani, conteneva pochi fogli e l'indirizzo di Adam Bennett, dove viveva Juno con sua madre.
«Una lettera del prete cattolico da cui andava Deanna prima di morire. Mi ha permesso lui di contattarla. Io non sapevo dove abitavano.»
Non mi ero mai domandato come avesse potuto sapere l'indirizzo della sorella, davo per scontato che lo sapesse ma non le volesse parlare. «Da un prete? Che ti doveva dire?»
Mi prese i fogli dalle dita. «Purtroppo la lettera dice che c'è il segreto confessionale, ma Deanna voleva che convincessi sua figlia a venire via da Seattle. Sharon sta peggio di quello che pensi.» Sentenziò.
Trattenni una risata sarcastica. «Peggio di così?»
Strinse le labbra qualche secondo, chiuse gli occhi e portò l'indice e il pollice alla base del naso. «Da mia sorella non ho ottenuto molto, se non che Adam le ha fatto il lavaggio del cervello da... sempre.»
Misi le mani nelle tasche dei pantaloni. «E sua madre?»
Scosse la testa. «Ho il sospetto che Deanna a suo modo difendesse Juno da... qualcosa di peggio che le poteva fare quell'uomo.»
Indietreggiai di un passo, i pensieri congelati di colpo, qualunque logica non rispondeva alla mia domanda. «Perché non lo ha mai denunciato?»
Pestò veloce su un altro paio di tasti. «C'è stato un tentativo di denuncia quando Juno aveva tre anni ed è arrivata in ospedale con un braccio rotto. Ritirato immediatamente.» Mi guardò a lungo e più tentavo di leggere i suoi pensieri, più mi sembrava di sprofondare in un buco nero e folle, dove c'erano il Tricheco e il Carpentiere di Alice pronti a ingoiarmi come una piccola ostrica.
Mi appoggiai alla scrivania in legno, il calore del materiale era reale, mi reggeva mentre davanti avevo le braccia tese di Juno che mi diceva con coraggio e orgoglio che aveva combattuto contro la nonna per i capelli rosa, che a schiena dritta mi diceva che riusciva a spuntarla sulla vecchia. Scossi la testa. «Perché allora usare il rasoio? Farle del male? Perché Juno non ricorda niente?» Non avevo più saliva, mi si era seccata la gola. Quella era la casa degli orrori. «E Sharon in tutto questo, che cosa...»
«La risposta più logica che mi posso dare è che Deanna avesse paura di denunciare Adam. La bambina e sua figlia erano costantemente in pericolo. Il prete mi ha detto che più volte ha visto Deanna che cercava di coprire dei lividi.» Le sue iridi si fecero lucide, una gemma trasparente gli si formò all'angolo dell'occhio. «Sharon non sta bene. Accettava... anche ora, accetta ogni tipo di violenza da Adam.» Sottolineò l'ultima frase, facendomi capire bene il senso. «Non so nemmeno io come ho fatto a convincerla, forse perché lui non si faceva più vedere e lei ha bisogno di un uomo, una figura maschile che la guidi.» Le sue mani tremarono per un momento. «Ho visto uno spiraglio quando il prete mi ha detto che lui spesso non era a casa. Sono riuscito a contattarla. A convincerla. Ma temo che se tornasse a Seattle, tenti di rimettersi ancora con lui.»
Annuii. Avevo notato che la donna più volte aveva obbedito a quello che le diceva il fratello senza fiatare. Anche poco prima aveva eseguito il comando di Nathan come un automa.
Appoggiò le mani sulle mie spalle e tirò un lungo respiro. «Non dovevo lasciarla, dovevo insistere, quando Deanna prese la decisione di rimanere da sola con lei.» La goccia scese dall'occhio alla guancia e seguì il suo naturale percorso fino a terra. Mio padre chinò la testa, quasi a volerle dire addio.
Rabbrividii; le sue parole, una ad una, si erano tramutate in una coperta di ghiaccio appoggiata sulla pelle, umida e avvinta addosso, che mi impediva di muovere pensieri e muscoli. Quello che mi aveva appena rivelato ribaltava ogni prospettiva che mi ero fatto dell'infanzia di Juno.
Le sue mani si mossero sull'orlo della sua giacca grigio satinato, la stirarono dal basso fin sulle spalle, il taglio ne accentuava la larghezza, e un lungo sospiro ne aprì lo scollo. «Sharon è affare mio. Sto cercando di convincerla a fare causa a Adam e ottenere una cifra abbastanza alta per permetterle delle cure. Ma tu mi devi dare una mano con Juno.»
In un attimo mi resi conto che non avevo molto tempo per elaborare tutto quello che mi stava confessando mio padre. Juno era da sola ad affrontare un altro tipo di dolore. Gli afferrai i polsi e annuii. «La terrò d'occhio. Te lo prometto.»
Note Autore
E volevamo per caso non aggiungere traumi? Ve lo aspettavate un ribaltamento di personaggi del genere? (Sì, Proxy, lo so, ti ho delusa perché per te era telefonata, la cosa. Ma per te ho un indovinello più complesso). Che il padre di Juno fosse uno stronzo galattico già si sapeva, ma che addirittura la nonna fingesse di essere stronza per evitare il peggio alla nipote?
Come ha detto Michael, stiamo andando incontro alla tana del bianconiglio, dove niente è quello che sembra!
Questa è la carta numero 15 dei Tarocchi, il Diavolo, Adam Bennett (a dire al verità volevo che assomigliasse di più a Michael Sheen in the Good fight, ma Bing mi ha fatto Mel Gibson).
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro