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2.4 ● QUANDO EL NON FU PIU' L'UNICO

Michael non era ancora a casa. Guardai il calendario delle lezioni a scuola, sospirai a vuoto, rassegnata al fatto che dovevo studiarmi mezza Asia per conto mio.

La sera chiamai Rita con Skype per fare due chiacchiere. Notai subito le sue occhiaie e il viso più pallido del solito.

«Ehi, come va lì? Il secchione non c'è e ho finito di tentare di studiare. Sai, geografia.»

«Non c'è il tuo professore?»

«No, è via con amici, sai, lui suona meglio di EL.» mossi un po' la testa di lato per imitare le arie che si dava lui, anche se poi, per certi versi, qualcosa di vero sentivo che c'era.

Lei sorrise. «Fai festa.»

Mi pizzicai le labbra con le unghie «Non mi va di fare festa.» Senza di lui era come se mi mancasse qualcosa, che non mi permetteva di essere. «Felice» mormorai.

Alzai gli occhi dal computer e guardai l'anta dell'armadio di fronte a me. Ripensai al pomeriggio che ero stata sospesa, di come secchione mi aveva aiutata e a modo suo consolata.

Forse non è cattivo, forse non sa come consolare la gente.

«Ci sei, Juno?»

La voce di Rita mi fece tornare sullo schermo. «Sì, scusa, stavo pensando a quanto sia dura studiare senza di lui.»

Sorrise e alzò il dito indice «John Morrison non fa altro che chiedere di te. Posso dargli il tuo numero?»

«Ancora lui? Beh, digli di cercarsi un'altra ragazza. Credo che non ci sia possibilità di tornare a Seattle.» sospirai. Forse non volevo tornare lì.

«Peccato, sai, sembra proprio che non si sia messo il cuore in pace. che gli hai fatto?» la sua bocca si mosse in una smorfia storta, si portò una mano alla fronte e se la sfregò. «Senti, ti dispiace se ci sentiamo domani sera? È tutto oggi che ho mal di testa. Ultimamente, per recuperare alcuni voti sto studiando davvero tanto. Vorrei avere un secchione come quello che hai tu, che mi spiega le cose.»

«Hai la febbre?»

«Sì, ma forse è solo un'influenza o sono molto stanca, domani vado dal dottore.»

«Sì, meglio che ti riposi.»

Alzò il pollice e uscì dalla chiamata.

Spensi il portatile; senza la voce di Rita, c'era solo silenzio intorno. L'orologio segnava quasi mezzanotte, secchione non c'era ed era tutto troppo calmo.

Ero di nuovo sola.

Sdraiata sul letto abbracciai il cuscino di EL. Contemplai le lenti da gatto e il sorriso, il viso bianco con i segni rossi che in quella foto erano gli stessi, ma lui se li faceva sempre diversi, e il naso, che si arricciava quando cantava.

Il naso arricciato. Forse mi piacciono i ragazzi che arricciano il naso mentre sorridono, come EL e Michael.

Michael però mi considerava un fastidio. Strofinai la faccia sulla foto, quasi a baciarlo.

Almeno tu ci sei.

Mi misi le cuffie e iniziai ad ascoltare gli 'Y●EL●L' fino allo sfinimento, anche se le note di secchione che arrivavano attraverso la porta mezza aperta della mia camera mi mancavano.

Avevo un buco nella pancia, ma non era fame. Mi sentivo galleggiare, vuota.

In piena notte scesi le scale e mi misi a sedere sul panchetto del pianoforte. Appoggiai le dita sul coperchio, feci uno sforzo per sollevarlo, non mi aspettavo che fosse così pesante. Michael lo faceva con una eleganza che lo faceva sembrare una piuma.

Premetti il tasto di accensione e una lucina rossa lampeggiò nel buio della sala, dove a malapena vedevo qualcosa grazie ai lampioni del giardino.

Schiacciai i tasti a caso, i suoni uscivano bassi, come la sera che io e Michael ci eravamo parlati la prima volta. Mossi le dita su e giù per la tastiera, senza senso, alla fine trovai una combinazione familiare: era un pezzo della musica che suonava e di cui non cantava le parole.

Ripetei quelle dieci note; erano come dei piccoli colpi allo stomaco. La sensazione di vuoto piano svanì e la stanchezza stava arrivando. Richiusi il pianoforte e mi alzai. Mi voltai, lo zio era di fronte a me, con i pugni sui fianchi e la testa un po' piegata.

Feci un passo indietro e inciampai, il tappeto sotto al mio sedere fece un rumore attutito, un po' meno il dolore che provai. «Scusa, David. Non riuscivo a dormire.» Appoggiai la mano sulla lana, che a vedere sembrava tanto morbida. «Quando torna Michael?» Mormorai un po' imbarazzata. Mi sentivo in colpa per aver suonato senza il permesso, ma non ne avevo potuto fare a meno.

Scosse la testa. «Michael non ama molto che si tocchino le sue cose.»

Abbassai la testa e fissai i disegni rossi e neri sotto di me. «Lo so, Michael non vuole che si tocchi niente di suo. E nemmeno che vada in camera sua.» Mi leccai le labbra. «Mi considera una bambina ficcanaso.» Io invece volevo essere qualcosa di più. «A lui piacciono le donne grandi.» L'ultima frase mi sfuggì dalle labbra prima che me ne rendessi conto. Mi tappai la bocca e lo guardai.

David si abbassò e si sedette per terra accanto a me. «Se devo essere sincero, nemmeno io capisco la scelta di Michael.» Il viso era serio. «Lo sai mantenere un segreto?»

Un altro?

In quella casa, tutti avevano segreti, la zia che piangeva per Michael, Michael che piangeva sull'albero. «Sì, ma ti prego, almeno tu non piangere.»

Fece una risata di naso e sorrise, come faceva Michael. «No, non ti preoccupare.» Tornò serio, «Nemmeno a me piace Taryn. Ho litigato con Michael molte volte, mi ha detto il motivo per cui la frequenta, ma non sono sicuro che sia la verità e questo mi fa stare male.»

La donna vestita di nero si chiamava Taryn. E non piaceva nemmeno allo zio, allora.

«Stai male? Tu? Sei sempre quello che ha tutto sotto controllo.»

Passò anche lui la mano sul tappeto. «Sono anni che cerco di avere tutto sotto controllo, ma non è facile. Michael non è difficile solo con te. Anche Lucy per anni ha preso le stesse medicine che ora prende tua madre, perché lui aveva dei problemi.»

«Insomma, sono in buona compagnia.»

Sospirò. «A volte penso che sia più Nathan suo padre, che non io. Lui lo conosce, ogni sfaccettatura, ogni piccolo segreto.» Si voltò. «Ma anche Taryn è un segreto per Nate. Ogni giorno spero che si apra, almeno con lui.»

Dondolai le gambe e strofinai i piedi sui peletti che mi solleticarono. «E io che pensavo che la mia famiglia fosse stramba.»

Mi avvolse le spalle col braccio e mi fece alzare. Andammo verso le scale.

«Juno, è tardi. Michael arriverà tra qualche giorno.» Aveva sorriso, anche se il tono della sua voce era basso e lento. «Fino a che è con Richard e Colin, va tutto bene.»

***

Anche a scuola sarebbe andato tutto bene se non fosse stato che il giorno dopo, durante l'allenamento di badminton, Dana Harris stava sospirando davanti al campo da un po' troppo tempo e gridava il mio nome ogni volta che servivo.

Alla quinta volta, l'irritazione fu tale che mi tremò tutto il braccio e le gambe mi divennero rigide, quello che mi succedeva ogni volta che secchione parlava male di EL.

Invece di servire lanciai la racchetta verso le barricate del pubblico e quella andò a finire dritta sullo stomaco di Dana, che si piegò in due.

Gli corsi incontro per recuperarla. Una parte di me si complimentò per il centro perfetto. Non avevo perso il mio stile, o forse, lo avevo ritrovato.

Arrivai che si stava massaggiando la pancia e annaspando a bocca aperta. Voleva parlarmi, ne ero sicura, per fortuna il colpo era stato abbastanza forte da farlo stare zitto. Strinse la racchetta tra le mani.

Appoggiai una mano sulla mia guancia. «Giuro che un giorno riuscirò a tenere in mano questa racchetta. Scusa.»

Janine, poco più in là mi sgridò. «Che diavolo combini, Jun!»

Mi strinsi nelle spalle. «Mi è scivolata la racchetta!» Mi giustificai a denti stretti. Con uno sguardo d'intesa le feci capire che quel ragazzo stava diventando insopportabile.

Lui sventolò la mano. «Non fa niente, le è scivolata» Un colpo di tosse lo bloccò. «Certo che sei maldestra. Mi piace questo tuo lato della personalità.» Sorrise.

Rimasi a guardarlo a bocca aperta.

Quindi, gli piace essere picchiato.

Le voci degli altri studenti arrivavano confuse, ma sapevo che stavano parlando tutti della stessa cosa. La scuola intera sapeva che lui aveva lasciato la sua ragazza, Susan, e che non aveva occhi che per me. Di conseguenza lei mi odiava, compresa la sua corte di pallavoliste. Ma alla fine mi dispiaceva più per lei; ci aveva messo anni per mettersi insieme a lui e io nel giro di pochi giorni avevo catturato la sua attenzione, e Dana, per quanto si sforzasse di essere gentile, non mi interessava. «Grazie per avermi perdonata. Ora scusami.» Gli strappai la racchetta di mano e feci per tornare verso il campo. Lui mi prese per un braccio. «Senti, ho visto che è un po' di giorni che arrivi in autobus. Vuoi che ti accompagni a casa?»

«Cosa?» Ci mancava solo quella. Finché si trattava di fingere un po' di goffaggine con una racchetta non ero male, ma non potevo fuggire gettandomi dall'auto in corsa con la scusa che si era aperta la portiera per caso. Mi schiarii la voce, guardai lui, poi il mio braccio ancora bloccato.

Mi mollò il gomito. «Ti accompagno a casa. Ti va?»

«Ci penso, Okay? Ti so dire.» Me ne andai con l'eleganza di un volano. Più o meno.

Credetti di essermene liberata ma, davanti alla grande vetrata che portava al parcheggio, Dana mi si parò di fronte come se fosse venuto fuori da una porta segreta. Indietreggiai mettendo le mani avanti.

«Allora, Juno bella... ti posso chiamare Juno bella, vero? Ci hai pensato? Ti accompagno a casa.» Allargò le labbra in un sorriso a duecento denti. Di sicuro si aspettava un sì. Ma dei sì da dargli, non ne avevo.

La racchetta è in dotazione da parte della scuola. Non posso tirargliela di nuovo.

Mi guardai intorno in cerca di qualcosa di pesante da gettargli addosso o almeno una scusa per dirgli di no in modo cortese.

Lanciai un'occhiata a Janine sulla mia destra, che storse il naso. Juliet fece cenno di no dall'altra parte e Sean si limitò a fare spallucce.

Deglutii, mentre sentivo un po' di sudore bagnarmi il colletto della maglietta. «Non è che non voglio, e che ho altri impegni.» Mi voltai dall'altra parte. «Ho altri interessi, sai. Magari tu non entri nelle priorità.» Sperai che l'ultima frase cogliesse nel segno, ma lui mi fissava, muto come un pesce, come al solito.

E poi, ebbi l'idea, «Mia madre mi ammazza se mi vede tornare a casa con un ragazzo!» Quasi mi mangiai le parole, mentre già correvo verso il viale che portava alla stazione degli autobus.

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