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1.43 ● IO ERO REALE

Uscii sul balcone, anche se le giornate si stavano allungando, l'umidità dal terreno era aumentata con l'arrivo delle prime piogge e mi appesantiva il respiro. O forse, era la mia coscienza.

Le barriere nella mia mente avevano fatto il resto. Un cazzo di errore grammaticale, l'unica cosa che ero riuscito a buttare fuori, quando sulla mia lingua correvano confessioni che sapevano dell'amaro delle droghe che mi dava Taryn, che gridavano "mostro".

Dopo il mio appunto se n'era andata con gli occhi lucidi. Non avevo nemmeno tentato di seguirla: ero sull'orlo di scatenare un altro inutile litigio.

Quella lettera aveva sgretolato le bugie che mi ero raccontato per anni. Nelle sue parole c'erano tanti, troppi sentimenti che avevo chiuso fuori dalla porta di quella casa.

Con me non ci parlava. Doveva scrivere a lui. Fu una scossa a nervi scoperti. Perché dovevo esserle d'aiuto quando c'era di mezzo lui? Perché non chiedeva aiuto a me? Io ero reale, ero lì, con lei.

No, c'era anche lui, e sembrava essere meglio di me. Quello che voleva lei.

Che idiota che sono a sperare di poterla aiutare con i suoi problemi. Non so risolvere i miei e mi sono rifugiato qui.

La luce della sua camera era ancora accesa.

L'ombra di Juno si muoveva dietro la tenda, col telefono in mano e il foglio dall'altra.

Chissà a chi sta parlando.

Chi era che in quel momento aveva la sua attenzione?

Avrei potuto essere io e lo desideravo più di ogni altra cosa. E mi odiavo, perché sapevo che l'avrei ottenuta con una facilità incredibile, sarebbe bastato dirle la verità. Che ero un mostro.

Il mostro che Taryn diceva che ero.

Meglio rimanere il secchione antipatico. Ma quel secchione antipatico, ogni giorno di più, desiderava essere apprezzato da lei. Lo sentivo anche in quel momento.

Se solo mi ricordassi di un momento passato insieme. Se fossi capace di farti passare un bel momento insieme a me. Senza voci nella testa.

In quegli ultimi tre anni ero stato solo in quella casa, a parte gli sporadici spostamenti per via di Taryn, o le visite a Chip e Cole insieme a Nathan. Mi ero abituato, anzi obbligato, a non avere persone intorno per lunghi tempi e a non perdere il controllo.

Ero stato bene.

Bastavo a me stesso.

La presenza di Juno aveva sconvolto tutto, mi aveva spinto a cercare sempre di più la sua considerazione. Avevo bisogno di essere il suo centro, in ogni momento. Ma, ironia della sorte, non ero io che ne ero capace. Non ero io che passavo i momenti più belli con lei. Avevo ricordi frammentati: lei che rideva, che si dondolava sulla sedia e prendeva appunti cantando EL.

E alla fine, era sempre lui al centro della sua attenzione.

Quella era la prima sera che si era rivolta a me dopo la rissa a scuola.

La scena dell'aggressione tornò vivida nella mia testa. Uno dei tre, che aveva un coltellino in mano, aveva buttato a terra Juno e una rabbia innata aveva preso il sopravvento. Avevo corso come una furia fuori dall'auto, spinto dal fuoco della mia ira. Ero lucido, presente, me stesso e basta. Ero tutta quella rabbia che mi ero imposto di controllare. Il tempo di un respiro e il tizio con la lama aveva la faccia sul cemento.

E se Nate non fosse intervenuto?

Il cuore mi batteva forte, il mio unico istinto era stato andare verso Juno e abbracciarla, per controllare che stesse bene, ma Nate l'aveva già aiutata, e la sua amica mi stava parlando, distraendomi.

Lui mi aveva fatto un cenno con la testa che avevo inteso subito.

Il coltellino. Cosa sarei stato capace di fare, se Nate non lo avesse raccolto prima? Se invece di restituirlo a quel degenerato, me lo fossi tenuto?

Richiusi la finestra e mi ficcai sotto le coperte leggere.

Aprii gli occhi, mi sentivo ancora più stanco di quando ero andato a letto.

«Le dieci e mezza?» Sbuffai e mi misi un braccio sulla faccia «Per fortuna è sabato.» Dopo qualche secondo, mi resi conto di che giorno fosse. «Per sfortuna è sabato.»

Preparai il vestito per uscire con Taryn, poi andai giù per una nuotata.

Juno era sul bordo della vasca, in pantaloncini e maglietta e le gambe in ammollo. A aveva ancora in mano il foglio della sera prima.

Mi avvicinai, forse ero ancora in tempo per rimediare e aiutarla, prima di finire sotto la tagliola di Taryn e non capire più un cazzo per tre giorni. «Senti, fangirl, per ieri sera io...»

La manica della sua maglietta lambì il mio avambraccio e la sua gamba un po' fredda sfiorò la mia.

Alzò gli occhi, il sole di un inverno che moriva si immerse nelle sue iridi, vivo e profondo, tanto da risucchiare i miei pensieri. Arenato in quegli smeraldi striati di topazio, mi ritrovai seduto accanto a lei. Le sue labbra si muovevano ma era tutto coperto dalla luce che emanava il suo viso, finché non sorrise e chiamò il mio nome.

«Cosa?» Abbassai gli occhi sulle mie mani, mi aveva dato un foglio diverso dalla sera prima.

Riconobbi la scrittura e la giornata si rannuvolò all'istante. Imitava la mia, solo io avrei potuto riconoscere la differenza.

«Grazie, secchione. Scusa, forse ieri sera ti ho disturbato. Adesso mi sembra più bella.» Sospirò e passò le dita sulla calligrafia un po' spigolosa «Anche se ti confesso che dopo avere parlato con Nate, mi ero quasi convinta a non spedirla a EL. Però questa è proprio bella. Era quello che volevo scrivere.»

E lui durante la notte l'ha scritto.

Ero una camera a vapore che stava per scoppiare, dentro avevo una bomba d'ira che avrebbe distrutto qualsiasi sua illusione, se solo avessi parlato. Ma il suo sorriso in quel momento era così bello che non avevo il coraggio di controbattere.

Le restituii il foglio e mi gettai in acqua da seduto. Il mio grido si trasformò in mille bolle e le mie lacrime divennero di cloro.

Riemersi senza fiato e mostrai il sorriso più falso della mia vita. «Di niente, fangirl. Spero che non mi tedi più con questa storia, dopo.»

Le bracciate si susseguirono colleriche, alimentate dal pensiero di lui che aveva preso il sopravvento durante la notte e aveva letto le sue parole.

Nel pomeriggio entrai in camera sua, ignorai le note degli 'Y●EL●L' che risuonavano e appoggiai dei libri sulla scrivania.

Si votò, mi squadrò, sbuffò e incrociò le braccia sotto al petto. «Oh, non vorrai mica farmi lezione. Lo sapevo che la tua simpatia non poteva durare.»

«No, fangirl, io devo stare fuori qualche giorno, e questi sono i volumi di consultazione, nel caso ti servano.»

Roteò gli occhi al soffitto «Guarda che ci vado in biblioteca, scommetto che so tirare fuori anche i libri dalla tua libreria.»

Alzai un sopracciglio. «Non sono messi come in biblioteca, i miei. E in camera mia non ci entri, grazie.»

Sciolse le braccia e le sue mani iniziarono a contorcersi, il volto diretto sui tomi. «E vai dai tuoi amici? Quando torni?»

«No, non vado via con loro.» Mormorai.

Si avvicinò. «Vai via con la tipa della macchina elegante?»

Indietreggiai. Quelle parole mi spogliarono di ogni bugia. «Come sai che è una donna?» Non riuscivo a mascherare un leggero tremore nella voce.

«Me lo ha detto Lucy. L'altra volta ha detto che tornavi lunedì, invece no.» Guardò per terra. «Tu hai una ragazza?» l'ultima frase fu un soffio. Abbastanza per riprendermi le energie.

«Sono affari che non ti devono interessare, fangirl. Te l'ho già detto.» La mia voce era di nuovo vetro tagliente mentre nella testa la parola 'mostro' lacerava le pieghe del mio cervello.

Me ne andai da quella stanza dove l'aria non era più tanto leggera, e io sapevo di non avere più tanto la forza di sorreggere quella situazione.

La luce sopra lo specchio rifletteva la mia figura snella dentro al vestito da uomo che Taryn mi imponeva ogni volta di mettermi.

Dio, Taryn, tu sei malata.

Uscii dalla mia camera, Juno era mezza nascosta dietro al muro della scala, appoggiata a una libreria. Nel buio del corridoio, il suo viso illuminato a metà scrutava in basso, verso la sala. Si voltò verso di me non appena chiusi la porta. Mi fermai, non disse una parola, le labbra un po' aperte e le sopracciglia che formavano una riga in mezzo le donavano un'espressione turbata. Rimase nella penombra della luce che arrivava da sotto mentre mi avvicinavo. Afferrai il corrimano, staccai gli occhi da lei e capii cosa attirava la sua attenzione.

Una veletta nera, sopra capelli acconciati neri e un vestito nero aderente. Era appena sopra lo zerbino, mentre mio padre teneva la porta aperta. Distante da lei.

Sono scelte, papà.

Non ero nemmeno più convinto io delle bugie che avevo raccontato a mio padre fino a crederci.

Passai lo sguardo da Taryn a lei. Mi sentii un escremento schiacciato per strada, la cosa più infima che potesse esistere sulla faccia della terra.

Se tu non fossi qui, sarebbe tutto molto più facile.

Le sue labbra diventarono piatte e sottili.

«Misha. Sbrigati.» La voce sgradevole e acuta dal fondo delle scale fece sobbalzare entrambi.

Spostò il braccio e notai l'immagine di EL stampata sulla maglietta.

Respirai a fatica. Esserle addosso come quella T-shirt. Aderire alla sua pelle come avrebbe fatto di lì a qualche ora Taryn con me.

Cosa penseresti, se vedessi il vero volto del tuo eroe? Se lo conoscessi come lo conosco io?

«Devo andare. Ci vediamo.» mormorai.

Abbassò gli occhi e rimase in silenzio a tormentarsi le dita.

Nel salire sulla macchina, sapevo che lei mi stava guardando dalla grande finestra e si stava domandando quando sarei tornato.

Taryn inserì la marcia e partì. «Hai ospiti? Per questo stai più a lungo in albergo?»

«Sì, parenti di mio padre» borbottai. «Staranno da noi per un po'. Non voglio che sappiano di te. Penso nemmeno tu, ne va del contratto.» La guardai, il colorito bianco rifletteva il giallo malato dei lampioni.

«Una si chiama Juno?»

Al suo nome, l'accelerazione della macchina mi schiacciò sul sedile. I muscoli si bloccarono e non dall'improvviso aumento di velocità. «Come lo sai?»

«Rispondi.»

«Sì, è una bambina che ha bisogno di lezioni.»

L'abitacolo, già saturo del suo odore dolciastro di profumo di YSL, si riempì della sua risata stridula. «Ti tocca fare il babysitter a una bambina ritardata?»

Il contatto con la sua mano tra le mie gambe mi fece fare un balzo sul sedile, il mio cuore saltò con me.

Staccò gli occhi dalla strada «Non ti preoccupare, stasera ti rilassi con me.» Alzò le sopracciglia e fece un sorriso storto e malefico «Sempre che il nostro caro amico non si faccia vedere e preferisca stare al tuo posto, come l'altra volta.»

Le luci dei lampioni si alternavano come le lampade di una discoteca fuori moda mentre la vettura correva verso un'altra notte di dolore.

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