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1.32 ● PERCHÉ NON MI HAI DETTO NIENTE?

Seduto davanti al pianoforte, esploravo ogni angolo del foglio pieno di note confuse.

Avrò fatto bene a pensare a una festa di compleanno? Si fiderà di me, poi? A sedici anni non è facile aprirsi con quelli che tu vedi come adulti, a meno che non si chiamino Nate e siano più pazzi di te.

La pendola batté diverse volte. Alzai gli occhi e trasalii. Era già ora di andarla a prendere. Osservai lo strumento: non avevo nemmeno alzato il coperchio.

Parcheggiai al solito posto e attesi.

Uscirono tutti i ragazzi, uscì anche la sua amica, quella con i capelli rosa, Juno non era con lei.

Iniziò ad avvicinarsi alla macchina incuriosita. Aggirai la Cinquecento e le andai incontro a metà strada.

Aggrottò le sopracciglia «Ciao, sai dov'è Juno?»

Ho capito bene? Mi ha domandato dov'è fangirl?

«L'ho accompagnata io, stamattina.»

La mia voce era lenta nella mia testa, quasi ovattata, mentre le rispondevo. Tutto il contrario del mio cuore che aveva iniziato a farsi sentire, greve e insistente nel petto. Mi passai una mano tra i capelli, la giovane mi squadrò attonita.

«Non l'ho vista tutto il giorno.» Mormorò, in un tono sempre più consapevole che ci fosse qualcosa che non andava.

Corsi verso la scuola senza nemmeno aspettarla.

Entrai, i corridoi si facevano lunghi e contorti, le pareti storte e la mia voce, da qualche parte fuori dal mio corpo, gridava il suo nome.

Non è possibile che sia scappata!

Presi il telefono, la chiamai, ma non rispose.

Girai su me stesso, senza una meta precisa. Ero tra due mondi e non sapevo quale avrebbe potuto prevalere da lì a qualche secondo. Le immagini erano sempre più sbiadite e la luce stava scomparendo. Tutto rallentò, il cuore nel petto era assordante, l'aria fredda che non faceva altro che entrare nei polmoni e non usciva, e le braccia, appendici incontrollate, stavano scomparendo sotto i miei occhi.

«Che succede?» la gemella con i capelli corti mi sbarrava la strada.

«Hai visto Juno? Suo cugino dice che dovrebbe essere a scuola.» rispose quella con i capelli rosa che ci aveva raggiunti. Galleggiavano nella nebbia.

L'altra si schiaffeggiò il palmo sulla fronte. «Sì! Stamattina era con Sean!»

Tirò fuori il telefono dallo zaino.

Mi appoggiai al muro, espirando ogni momento di angoscia che mi aveva assalito. La testa riprese a pensare più lucidamente.

«Forse lui ne sa di più.»

La ragazza domandò qualcosa a quel Sean, la sua voce si alterò in modo minaccioso, infine, chiuse la telefonata e andò verso uno dei corridoi, poi si voltò e mi fece cenno con la mano. «Forza!»

La seguii, in preda ai resti della vertigine che risucchiava senza sosta ogni mia energia.

Ci portò in un corridoio dove la luce che entrava dalle finestre non era abbastanza per illuminare l'ambiente. Dovetti percorrerlo appoggiandomi alle pareti: le vertigini, che non volevano lasciarmi, deformavano le dimensioni di quello che mi circondava, facendo vacillare il pavimento e impedendomi di camminare in linea retta.

A metà percorso, gettato a terra, riconobbi lo zaino di fangirl. Corsi là e lo afferrai. Aprii la stanza a fianco, ma si rivelò essere un ripostiglio per carta da fotocopie, e di Juno non c'era l'ombra.

Riempii il petto d'aria. «Juno!» La mia voce si schiantò come un'onda rimbalzando tra le pareti.

Da qualche parte, una voce rispose. Tutto ritornò nitido, scattai verso il suono. Botte sul legno, grida. Superai le ragazze e mi infilai in un angolo.

La porta tremava e dietro, Juno implorava.

Mi fermai, appoggiai una mano sopra al laminato, la paura trasmessa dalle vibrazioni mi arrivò alla gola e divenne la mia. «Adesso ti liberiamo.» Forzai il pomello ma non si apriva. Tirai, spinsi.

«Michael!» Mi chiamò, mentre suoni sottili di unghie sfregate sulla superficie accompagnavano le sue suppliche.

Le ragazze erano davanti a me, fili dorati coprivano la mia visuale e mi solleticarono la fronte. Squadrai la mora, d'istinto allungai la mano verso i suoi capelli.

«Ehi» Mi osservò sdegnata per un attimo, ma io avevo già quello che mi serviva. Morsi il ferro della forcina e mi chinai, gli occhi a livello della serratura.

La porta non stava ferma. Le grida non smettevano.

Non posso farlo così.

«Fangirl, sono qui.» Ansimai. «Sono qui, dammi il tempo di aprire questa cazzo di serratura.»

Il movimento si fermò, ma non i singhiozzi. Le ragazze di fianco a me saltellavano e toccavano la porta come se fosse stata Juno stessa.

Le mie mani si mossero sicure, la forcina sparì nella toppa, guidata da una memoria di anni prima, i miei capelli ancora davanti agli occhi non erano un ostacolo.

Ci fu uno scatto, saltai in piedi e girai la maniglia.

Il peso del corpo di Juno sulla porta fece il resto. Si gettò fuori a braccia tese e mi avvolse in un abbraccio stritolante.

Un calore estraneo mi invase il corpo, fermò i capogiri che mi avevano accompagnato fino a lì e tutto divenne lucido e reale, avvinghiati stretti, ansimavamo a due ritmi diversi e sconnessi.

«Juno!» la chiamai ancora, anche se era addosso a me.

Le due ragazze si avvicinarono e l'accarezzarono. La mora stava brontolando qualcosa su un certo Seb.

Tentai di togliermi dalla sua stretta, per controllare che stesse bene o forse, per cessare quella strana emozione. Sembrava non volersi staccare.

«Fangirl, fatti guardare! Stai bene?»

Piano, le sue braccia cedettero. Appena staccata, notai delle macchie rossastre sul viso.

«Cosa ti è successo?» Mi chinai, lanciai un'occhiata dentro allo stanzino. C'erano solo scope e stracci, niente con cui si potesse fare del male. «Ti hanno ferita?»

Scosse forte la testa e i suoi capelli spettinati andarono in tutte le direzioni. Singhiozzando convulsamente guardò in basso e mi fece vedere le mani con altrettante strisce. Aveva il cavallo dei pantaloni macchiato.

Le infilai un braccio sotto le ascelle e un altro dietro le ginocchia e con un colpo la sollevai da terra. Lei non protestò, si lasciò andare sul mio collo, inumidendomi la pelle.

La gemella con i capelli corti si avvicinò «O'Leary ha minacciato Sean. Se non l'avesse fatto lo avrebbero picchiato. Ti chiede scusa, Jun.»

«Non mi lasciare, non mi lasciare.» Mormorò Juno come una litania.

«Vieni, piccola. Andiamo a casa.» Mi avviai a passo svelto verso l'uscita da quella specie di inferno asettico, seguito a ruota dalle due amiche.

In macchina non disse una parola, ma smise di piangere e il suo respiro si fece regolare.

Quando l'accompagnai in camera sua stava per chiudermi fuori, la trattenni per il polso. «Dimmi che cosa c'è che non va.»

Ero deciso a non voler essere più escluso dal suo mondo. Quel presentimento dei giorni precedenti si era rivelato veritiero ed era ora di andare fino in fondo.

Lei cercò di divincolarsi e le lacrime ripresero a scendere sul suo volto. «Lasciami andare! Vai via!» si girò, tirò il braccio, tentò di aprire le mie dita attorno al polso, ma non avevo intenzione di cedere.

Rimasi più fermo possibile, anche se avevo la sensazione che il mio cuore piangesse con lei. «Voglio aiutarti ma tu mi devi dire cosa c'è che non va!»

Iniziò a cantare, all'inizio piano, poi sempre più forte.

Certo, EL. A lui avrebbe detto tutto.

No, è una faccenda tra me e lei! Lui non c'entra!

L'avrei tenuto fuori. Sarebbe stato troppo facile giocare quella carta, e non l'avrebbe aiutata, alla fine.

Si trascinò con tutta la forza possibile sul letto, col polso avviluppato nella mia mano, e si accucciò sul materasso, cantando e tremando.

La lasciai e mi sedetti accanto a lei. «Va bene, aspetterò qui che ti calmi.»

Dopo un po' la voce si fece flebile, gli spasmi cessarono e si mise a sedere.

Era lì davanti a me, muta. Si fissava le mani mentre le dita si tormentavano incessantemente. «Allora, vuoi dirmi, adesso, cosa succede? Non credere che non l'abbia capito. Chi ti sta facendo del male?»

Mi parlò di tre ragazzi della squadra di football che la minacciavano e le impedivano di andare a scuola, fino a farle male, fisicamente.

Ogni parola che a fatica buttava fuori era una scossa ai nervi. Le foto e gli appellativi, il secchio al distributore, le spinte per i corridoi e giù per l'autobus, fino al disgustoso tentativo di soffocarla con del formaggio spray come un animale. Mi sentii inadeguato ad affrontare un dolore così grande come quello che stava passando.

Allungai la mano, ma un attimo dopo la ritrassi per timore di essere frainteso, o respinto un'altra volta. Non sapevo nemmeno se volesse essere confortata. «Perché non me l'hai detto?»

Tornò a tormentarsi le mani senza rispondere.

«Mi dici perché non mi hai detto niente?»

Tirò su col naso. «Mi hai preso in giro anche tu. E ho paura che tu gli dai ragione.» rispose mormorando. Eppure, quella frase nel mio petto risuonò più assordante di un intero coro di campane.

Per giorni l'avevo criticata per quello che mangiava e forse, le mie parole erano risultate persino peggiori di quelle dei compagni.

E lei pensava che io avessi il coraggio di sgridarla ancora.

La fissai muto mentre le campane mi stavano dicendo che non volevo ammettere che la guardavo continuamente, intrigato, attratto dai suoi movimenti, dalla sua figura che mi girava intorno e nella mente, giorno e notte.

No, cazzo, non sono io!

E allora qual era il motivo, se non giustificare il mio allontanamento da lei dandomi delle motivazioni incoerenti e assurde? Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso eppure nello stesso tempo mi sentivo un infame.

Si mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio scoprendo gli occhi verdi arrossati. «Però io sono forte.» proseguì, «Ho dalla mia EL, e tutte le sue canzoni che mi dicono di combattere.»

EL era migliore di me, ai suoi occhi, e non solo. EL non la prendeva in giro. Almeno lui la faceva sentire bene.

Io, però, che cosa posso fare?

C'ero io lì, non EL. Volevo esserci io. Dovevo esserci io.

E forse una soluzione l'avevo: non sarei stato il suo eroe, ma nemmeno più una stigmate da sopportare anche a casa.

«Questo non ti basta, contro quei tre. Domani andrò a parlare col preside.»

Mi alzai dal letto, appoggiai la punta delle dita sul suo volto e le diedi un leggero bacio sulla guancia. Inspirai il profumo di fragola confuso con quello di polvere.

«Per oggi niente lezione, fangirl. Ti preparo la merenda, quando vuoi scendere.»

Mi guardò sorpresa. Per un attimo, quelle labbra appena schiuse mi fecero di nuovo venire le vertigini.

Ma non era così che volevo che funzionasse. Mi allontanai e uscii di fretta.

Il giorno dopo andai a parlare col preside nel suo ufficio. «Paghiamo fior di quattrini per far stare qui la ragazza. Non mi aspettavo un trattamento del genere.» Ero in piedi davanti a lui, nel suo ufficio arredato in stile moderno grazie ai soldi di chissà quanti genitori.

Finse di sistemare delle carte sulla scrivania ed evitò di guardarmi. «Piccoli scherzi sono all'ordine del giorno.» minimizzò.

«Si tratta di bullismo. Non di piccoli scherzi.» precisai. «La ragazza mi ha detto che il capitano della squadra di football e altri ragazzi fanno in modo che lei non possa arrivare alle lezioni in tempo. Ha subito delle aggressioni fisiche, sia dentro che fuori dalla scuola. Ieri è stata rinchiusa in uno sgabuzzino, se il ragazzo ricattato non avesse confessato mi sa dire quando ve ne sareste accorti? Il giorno che i topi vi avrebbero accompagnato al suo cadavere? Ci sarebbe andato di mezzo un minorenne, un omicidio a scuola e tutta la reputazione di Riveview. E lei sa bene come ci sguazzano i giornali della Florida su questi scandali.» Presi fiato, avevo sciorinato quel discorso senza un respiro.

Degno dei migliori assolo di EL.

La voce dentro di me sembrò soddisfatta, io non lo ero, per nulla.

L'uomo impallidì alzando il volto verso di me.

Continuai, «Ho già sporto denuncia. Se quei tre si avvicinano di nuovo la polizia~»

Il preside alzò le mani rivolgendomi i palmi. «Senta, se si tratta di recuperare dei voti, vedremo di rimediare. Ma non credo che dei ragazzi debbano essere puniti solo perché una ragazza nuova si sente presa di mira. Magari non è così, non si è adattata e pensa che~»

Mi avvicinai appoggiando le mani sulla scrivania.

In un attimo i nostri nasi erano a pochi centimetri. Lo sforzo per non saltargli addosso mi faceva dolere i muscoli.

«Non si è adattata, dice? Ha amici, lo so perché si frequentano. Fa anche parte di un club. Quei tre vanno puniti.»

Il preside scosse la testa, dalla gola ci fu una specie di schiocco. Abbassò lo sguardo. «Non posso. Però avrà la possibilità di recuperare i voti.»

«Si ricordi bene queste parole. Denuncia e scandalo.»

Mi raddrizzai di nuovo, girai le spalle all'uomo e, col cuore travolto da una corsa incontrollata, uscii dalla stanza.

Note Autore

Abbiamo risolto il problema! (Davvero? 👀)

Quindi, adesso, come andrà avanti tra Michael e Juno? Si capiranno, o succederà ancora qualcosa? E con Taryn come la mettiamo? Ma soprattutto, CHI cavolo è Taryn e COSA vuole da Michael?

Beh, nel frattempo, mi sto divertendo un po' con l'IA di Copilot e Canva per progettini disegnosi su Pink Sapphire. Se volete seguirmi, li metterò su Instagram.

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