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1.29 ● QUANDO MI NASCOSI

Quel mattino ogni passo verso la fermata dell'autobus pesava un milione di tonnellate. I piedi mi si incastravano nelle fessure del marciapiede, sembrava che volessero convincermi a non andare a scuola. Avevo fatto fatica a mangiare anche solo un corn flake. La bocca mi faceva ancora male ad aprirla e chiuderla, e il taglio sulla lingua bruciava così tanto che anche il latte fresco era una tortura.

Ferma al cartello, non ebbi il coraggio di salire per la seconda volta e rimasi immobile a guardare l'autobus che si allontanava. Mi strinsi nel maglione, il cielo sembrava non voler far uscire abbastanza sole da scaldarmi. O forse il freddo che sentivo era paura.

Cercai nello zaino l'Iphone.

[Janine oggi non sto bene, sto un po' a casa]

[Mi dispiace, per quanto? Febbre?]

[Nausea. Non lo so, qualche giorno]

Fissai lo schermo del cellulare e rilessi la bugia che avevo scritto a Janine.

Non posso stare a casa, c'è la domestica e potrebbe dire qualcosa a David o peggio, al secchione quando torna. E quello, chi lo sente?

Poco dopo arrivò un altro autobus che andava nella direzione opposta.

Corsi dall'altra parte della strada e mi affacciai agli sportelli. L'autista mi guardò con le sopracciglia alzate. Nascosi lo zaino, fissai i gradini «Scusi, dove va questo autobus?»

Ci fu qualche secondo di silenzio. «Se vuoi, va al mall. Westfield.»

Un centro commerciale. Forse potrei passare la giornata lì. Magari chiamo anche papà.

«Basta che fai presto, non abbiamo tutta la mattinata.» continuò lui mangiandosi le parole.

Mi decisi a salire, le signore anziane sparse qua e là allungarono il collo, un mormorio mi seguì mentre camminavo verso gli ultimi sedili. Nessuna di quelle facce mi sembrava conosciuta, ero abbastanza sicura che non avrebbero avuto niente da ridire a qualcuno di casa Simmons.

L'autobus si avviò, altri campi di aranci e qualche lago passavano davanti ai finestrini, finché non si fermò davanti a un edificio che stava su con dei pali in acciaio. Davanti c'era una fontana divisa in due con il marciapiede in mezzo.

Uscii dall'autobus e mi guardai intorno, le persone andavano e venivano, lì in mezzo, col cuore che ogni tanto mi faceva un saltello, osservavo se qualcuno si girava dalla mia parte.

Era la prima volta che mi allontanavo da casa senza che nessuno sapesse dov'ero.

E se mi succedesse qualcosa? Dovrei chiamare casa. Nessuno saprebbe dove sono.

«Forza, Juno, non sarà così terribile, no?» mi feci coraggio e mi mescolai tra la gente che entrava nella galleria.

Il Mall era diviso in marciapiedi affiancati da palme, le vetrine erano colorate, molte avevano davanti costumi da bagno e strumenti da spiaggia.

Entrai nella struttura principale, la luce che veniva dal grande tetto illuminava altre vetrine, gioiellerie, negozi di elettronica, librerie e profumerie.

C'era un bar con qualche tavolino libero. Tintinnai un po' prima di avvicinarmi.

I soldi ce li ho, potrei prendere qualcosa e passare qui il resto della giornata.

Mi diedi una botta sulla fronte. «Cavolo, non ho guardato quando c'è l'autobus che torna a casa.»

Strinsi in mano il telefono e guardai il display.

Le nove meno un quarto, ho tempo.

Mi fermai lì, sedendomi su una delle sedie in finta paglia, davanti a un tavolino in vetro e metallo. Presi il menu: sopra c'erano illustrati diversi tipi di dolci e stuzzichini che mettevano un certo appetito. Però non era il caso di mangiarli, visto le mie condizioni fisiche.

Un cameriere vestito in una giacca così candida che sembrava essere illuminata si avvicinò con un blocchetto in mano. «Signorina?»

«Ehm...» segnai una scritta sul foglio in cartoncino «Una coca cola light. Per favore.»

Mandai giù appena due sorsi, la gola mi si era stretta.

Cercai di distrarmi fissando vetrina dall'altra parte; era un negozio pieno di pentole, stoviglie, tovaglie e cose per cucina.

Per quanto mi ripetessi di stare calma, non avevo mai saltato un giorno di scuola, e la testa mi girava un po'.

Speriamo che nessuno a casa lo sappia.

Il cellulare nella mia mano ormai era diventato umido, le dita sembravano aver preso la forma giusta per tenerlo stretto. Controllai il numero di telefono che avevo trovato qualche sera prima, quello dell'azienda di papà.

La mano mi tremava mentre schiacciavo l'icona del telefono. Il suono libero vibrò tre volte, poi ci fu uno scatto e una voce gentile di donna rispose.

Tirai dentro l'aria, «Buongiorno, stavo cercando Adam Bennett.»

«Il signor Bennett? Ne è sicura, signora?»

Respirai di nuovo due volte. «Sì, esatto, Bennett.»

La voce dall'altra parte sembrava confusa come me «Il signor Bennett si è licenziato otto mesi fa. Mi dispiace, signora. Chi lo cerca?»

Il telefono mi scivolò di mano cadendo sul tavolino, accanto alla bibita.

Otto mesi?

La vocina piccola continuava a chiamarmi dal telefono. Lo raccolsi «Io... sì, mi scusi.» respirai con la bocca «Ha ragione, volevo dire, non è che mi può dare il nome della nuova azienda dove lavora, vero? Io mi ricordavo solo questa.»

«Ma lei chi è?»

«Io sono sua figlia.»

Dall'altra parte ci fu uno strano silenzio.

«Pronto?» ebbi paura che la signora mi chiudesse la chiamata.

«Certo, signorina, glielo fornisco subito.»

Qualche minuto dopo, ero di nuovo lì che guardavo un nuovo numero di telefono.

Non era possibile che la mamma non lo sapesse, forse mi ricordavo male io.

Alla seconda chiamata mi rispose la voce di un giovane uomo. Cercai di nuovo di Adam Bennett. Una musichetta storta e stonata suonò un po' prima che il ragazzo riprendesse la linea «Mi dispiace, il signor Bennett è fuori sede, oggi.»

Ecco, ti pareva.

«Per favore gli può dire che ho chiamato? Sono sua figlia. Juno. Jennifer.»

Dall'altra parte ci fu un rumore strano, poi il ragazzo riprese «Certo, mi lasci il suo numero, per favore. Glielo passerò.»

Finito di parlare, chiusi il telefono con la mano che mi tremava ancora e il cuore ai mille all'ora.

Spero che mi chiami. Deve chiamarmi, non può starsene senza parlarmi.

Avevo di nuovo paura, ma era diversa da quella che avevo di Brad. Non credevo che potessero esistere così tante paure. Fino a qualche mese prima c'era solo la nonna e a lei ero riuscita sempre a rispondere. Con Brad non ero abbastanza forte. Con papà, desiderai avere una palla magica che mi dicesse cosa fare.

Il display segnava appena le nove e mezza. Arrivare a fine pomeriggio sarebbe stata una faccenda lunga e non potevo rimanere lì a far prendere alla sedia la forma del mio enorme sedere. Il cameriere fissava me e la mia bibita dal bancone mentre puliva.

Lasciai i soldi e lentamente mi allontanai dal tavolino. In mezzo al passaggio, guardai a destra e a sinistra, iniziai a passeggiare a caso per i negozi di vestiti e curiosità. Passando, feci caso a una vetrina con una rivista e EL in copertina.

Mi precipitai dentro e presi una copia. La foto era piccola e quasi all'angolo, e anche il servizio non era che di una facciata e non faceva altro che ripetere la carriera fulminante del cantante.

Però mi bastò per emozionarmi: c'erano foto inedite e lui era così bello in tutte quelle pose scemiche.

Le foto erano prese da piccoli tour e apparizioni in trasmissioni televisive. Il giornalista che aveva scritto si chiedeva anche se ci sarebbe stato un quarto disco, oltre ai tre che aveva fatto a distanza di sei mesi l'uno dall'altro. Di tanto in tanto, la sua casa discografica rilasciava notizie che ci sarebbe stato un nuovo album, ma niente di ufficiale. A fermare la mia gioia arrivò una voce grossa e bassa. «Signorina, le riviste non sono gratis. Se vuoi leggerla, la compri e te la porti a casa.»

Il tizio pelatone e con la barba lunga e scura, era grande quasi come lo scaffale, ma aveva una camicia elegante come quelle di secchione e mi guardava con gli occhi mezzi chiusi da sotto le sopracciglia nere, abbassate.

La rivista costava sette dollari e novantanove. Non avevo abbastanza soldi.

La rimisi al suo posto ma finii per guardare lì accanto un libro che si intitolava come quello che aveva in mano secchione quando mi faceva lezione di poesie greche.

Mi fermai a osservarlo, senza toccarlo.

La voce dura del libraio si rifece viva. «Allora, signorina?» Incrociò le braccia e sbuffò dal naso.

Presi fuori il libro dallo zaino, lo aprii e gli indicai la pagina. «Ce l'ha questa, fatta così?»

Mi lanciò lo stesso sguardo di secchione quando non capiva quello che stavo dicendo. Dev'essere una specie di abitudine locale.

Rispose di nuovo con la voce che sembrava il clacson della macchina. «Non sono mica una biblioteca!»

Il cuore mi si fermò per un attimo e un'idea mi saltò in testa «Certo! La biblioteca!» rimisi via il libro, mi misi in punta di piedi e gli diedi una pacca sulle spalle.

«Grazie, signore!»

Avevo già il piede fuori dalla porta, poi ricordai che non sapevo dov'era la biblioteca.

Mi girai indietro lui mi guardò. «Linea nove, terza fermata.»

Aspettai l'autobus di nuovo e mi accorsi che era quello per tornare a casa, ma avrei dovuto scendere prima.

Non avrei mai immaginato nella mia vita di nascondermi in una biblioteca.

Ero lì, circondata da scaffali più grandi di quelli che c'erano in casa Simmons, tutti in ferro che davano l'impressione di essere in una fabbrica, più che in una biblioteca.

In mano tenevo il libro con la poesia che mi piaceva, ce n'erano anche tante altre.

Andai a un tavolo, ad ogni posto c'era un piccolo computer per le ricerche. I ragazzi erano tutti molto più grandi di me, potevano avere l'età di secchione. Presi una sedia, un paio vicino alzarono gli occhi e fecero un mezzo sorriso. La faccia mi andò a fuoco.

Hanno capito che non sono andata a scuola? O vogliono provarci?

rimasi paralizzata qualche secondo, ma loro si erano rimessi a studiare e non mi guardavano più.

Appoggiai il libro sul tavolo in plastica verde e iniziai a leggere. A volte facevo fatica a capire il senso di quelle frasi. Guardavo le note scritte in piccolo, quelle che con secchione trovavo noiose, e cercavo il significato delle parole che non conoscevo sul computer. Quelle più belle, le segnavo sul quaderno. Fissavo le lettere C I R C E, che mi sembrava aver già sentito da secchione, ma non riuscivo a collegarla con niente.

Il telefono squillò, saltai distratta e altri ragazzi che non c'erano quando ero arrivata mi lanciarono occhiate di traverso. Uno si mise il dito sulla bocca.

Misi la mano nello zaino, il cellulare mi scappò un paio di volte prima che riuscissi a vedere il display.

Papà! No, mamma...

Accettai la chiamata.

«Juno! Dove sei? Ti rendi conto di che ore sono?» la sua voce dall'altra parte mi fece allontanare il telefono dall'orecchio, e guardai l'orario. Erano quasi le sei e mezza. La mia testa iniziò già a pensare alla bugia da raccontare alla mamma. «Scusa mamma. Janine ha avuto l'idea di andare in biblioteca a studiare, abbiamo fatto tardi. Adesso prendo l'autobus e arrivo.»

Ci fu silenzio dall'altra parte, poi riprese. «David dice che ti viene a prendere lui!»

«Va bene, vi aspetto fuori.»

Mi precipitai in segreteria e presi in prestito il libro dalla biblioteca, poi di fretta uscii per farmi trovare alla fermata.

In macchina con David c'era anche mia madre.

Come se ce ne fosse bisogno.

Lui mi guardò dallo specchietto. «È bello che ti interessi allo studio anche se non c'è Michael, però la prossima volta avverti, anche solo un messaggio.»

«Sì, hai ragione, me l'ha detto anche secchione l'altro giorno. Scusa, io e Janine abbiamo studiato così tanto che ho perso l'ora.»

Alla fine, non era del tutto una bugia. Era solo una verità un po' variata.

Guardai di nuovo il cellulare. Papà non aveva chiamato, né lasciato un messaggio. E in macchina con loro due, di sicuro non potevo richiamarlo.

Il mattino dopo, andai in biblioteca direttamente a piedi.

Non credevo che mi sarebbe piaciuta, invece mi persi tra gli scaffali e potevo sfogliare i libri senza che signori che avevano peli di barba al posto dei capelli mi guardassero male aspettando i miei soldi.

Sul quaderno segnai delle frasi e delle parole che mi incuriosivano o che aveva usato anche EL nelle sue canzoni.

C'era anche quel Shakespeare che aveva detto secchione, ma quelle erano parole troppo difficili, non erano tradotte in inglese.

Feci una pausa e andai nel giardino, chiamai l'azienda di papà e mi presentai un'altra volta. «Buongiorno, ho chiamato ieri cercando il signor Bennett.»

Dall'altra parte, il ragazzo fece passare un po' di tempo prima di rispondermi.

«Sono spiacente, è in riunione, oggi.»

«Posso avere il suo numero privato? Così gli mando un messaggio.»

Ebbi l'impressione che sussurrasse qualcosa, ma poi riprese a parlare normalmente «Mi dispiace, ma per questioni aziendali non si può.»

«Una mail? Per scrivergli?»

Non rispose, si schiarì la voce.

«Per favore?» Lo pregai.

Di nuovo non mi disse niente per molto tempo, c'era solo il ticchettio della tastiera del computer. «Senta signorina, le do la mail, va bene?»

«Se non può fare altro, va bene.»

Tornai in biblioteca e scrissi una mail, raccontai a papà che avevo ricevuto il suo pacco e non capivo perché non mi avesse scritto niente e gli lasciai il mio telefono.

Da quel momento, non riuscii più a concentrarmi: non facevo altro che guardare il computer nella speranza di un messaggio.

Gli unici ad arrivare però furono i messaggi sul telefono di Janine e Sean che mi domandavano come stavo. Risposi che non mi sentivo ancora bene e che non sarei andata a scuola nemmeno il giorno dopo.

La chiamata di papà non arrivò. Mi addormentai col telefono in mano, mentre per il secondo giorno secchione non si era fatto vedere.

La casa era silenziosa, forse troppo senza di lui e le sue note strampalate, e la sua voce che mi brontolava sempre dietro. Fu come una tristezza che si aggiungeva a un'altra.

Note autore

Non è facile scrivere Juno. Nella mia testa è americana e come tale parla, ma rendere le parole e i fraintendimenti nello stesso modo, è impossibile. Nemmeno la scelta di scrivere tutto in maniera grammaticalmente sbagliata è una scelta felice, soprattutto renderebbe molto infelice un editor.

Per cui Juno risulta spesso una cretina.

L'inglese è una lingua strana, malgrado ci dicano che è facile a scuola, in realtà è un'accozzaglia derivata da latino, sassone, celtico, normanno, norreno e lingue scandinave.

A volte una parola scritta allo stesso modo ha due significati differenti e viene pronunciata diversamente, altre volte è il contrario, due parole scritte in maniera diversa e con significati diversi si pronunciano allo stesso modo.

Un esempio: deserto e dolce si scrivono desert e dessert ma si pronunciano alla stessa maniera.

Ecco che quindi, una frase stizzita come quella di Michael quando vede la scrivania vuota di Juno ed esclama:

"Cos'è questo, il deserto del Gobi?"

può avere una risposta come "Il deserto di chi?"

Ma in inglese verrebbe reso come :

"What's this? Gobi's desert?"

E Juno risponderebbe:

"I got no sweet from the kitchen" (non ho preso dolci dalla cucina) scambiando la parola deserto con dolce e scatenando ovviamente il mal di testa al ragazzo.

Okay, dopo questo pippone, sappiate che c'è chi sa già di essersi sentita omaggiata con un personaggio di questo capitolo, che ha fatto le veci della sua aiutante Belinda 💖
Te vojo bè!

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