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1.23 ● QUANDO FECI UN BAGNO NEL FANGO

Fuori dal balcone, guardavo in alto e ascoltavo degli eroi che facevano imprese incredibili, botaniche, come le aveva chiamate secchione. O qualcosa del genere.

Mi sembrava la prima volta che vedevo quello che stava intorno a me. Era tutto enorme e mi toglieva il fiato.

Anche Michael sembrava gigantesco, la sua conoscenza, e come mi aveva spiegato i disegni nel cielo, quella sera. Era buio e non c'erano i grattacieli davanti a coprire tutto. Le stelle erano un'unica striscia per il cielo, da una parte all'altra e tutti i nomi dei personaggi greci erano lì, scritti nel buio. I miei occhi vedevano così lontano che quasi mi sembrava di cadere. Anche il suo modo di fare mi dava la stessa sensazione.

Poi, di nuovo la magia era finita, e il viso di secchione era diventato più buio della soffitta di Seattle.

Dopo cena, chiusa in camera, chiamai Rita via Skype «Sai, Rita, non capisco se è solo il suo modo di spiegare le cose o se mi nasconde qualcosa.»

«Secondo me è solo perché è un adulto!» mangiava un dolcetto, probabilmente quello di fine cena.

«Allora non voglio mai diventare un adulto.»

«E a scuola, dì un po' hai trovato amici?»

«Sì, tre ragazzi che gli piacciono gli 'Y●EL●L'» Le feci la linguaccia, lei rispose allo stesso modo.

«Vedi, che ti dicevo? Solo a Seattle non piace, nel resto dell'America, sì.»

«Riverview non è il resto dell'America» rise.

Le raccontai di quello che organizzavamo col club di EL, ma non dei ragazzi che ci stavano prendendo in giro. Lei non avrebbe capito: era una ragazza normalissima e nessuno l'aveva mai presa di mira. Nemmeno a Beth era successo.

Quando spensi il computer la stanza tornò silenziosa.

Codie Everett.

Nel tornare a casa non aveva preso l'autobus che avevo preso io, per fortuna. Avevo paura della sua vendetta. Ero coraggiosa ma sull'autobus ero da sola.

Mi guardai allo specchio. Ero piccola, anzi, bassa. E a sentire loro, grassa. Evitai di guardare il mio corpo, in quel momento indossavo solo la camicia di secchione.

Lui che mi voleva fare lezione come se fosse stato lo scopo della sua vita.

Neanche la nonna mi stava così addosso per lo studio.

Nessuno aveva mai tenuto così tanto al mio studio, o ai miei voti. Mi abbracciai, il tessuto era morbido, ma stava perdendo il suo profumo.

Mi girai a guardare un meraviglioso poster di EL illuminato da luci molticolori.

Quando spiega non gli importa dei poster di EL che dice che gli fanno venire il mal di testa.

Mi gettai sul divano e afferrai il telecomando dello stereo e feci partire la compilation degli 'Y●EL●L'. Anche lui doveva aver avuto un sacco di problemi. Lo diceva nelle sue canzoni.

Lì c'era rabbia e la voglia di scappare da un mondo brutto che lo circondava, proprio come la mia. Man mano che conoscevo più canzoni di lui e mettevo insieme le parole, sentivo che quella persona doveva aver avuto qualcosa di terribile. Mi addormentai sul divano sognando EL e il suo mantello di stelle.

Il giorno dopo, grazie alla spiegazione del secchione, ero convinta di fare un test eccezionale.

«Ha! vedrai, ti farò guardare un concerto di EL che non te lo scordi» parlavo mentre camminavo in direzione della fermata, col braccio alzato e il dito verso il cielo. Già lo immaginavo, domandarmi scusa in ginocchio e adorare EL come facevo io.

Mi sedetti al solito posto e alla terza fermata Codie salì, mi superò senza nemmeno girarsi.

Scesi con un po' di fiducia in me dall'autobus, e mi avviai verso scuola, mentre il biondo mi superava.

Non siamo fatti per stare

Fermi sulla staccionata a guardare

Se vuoi camminare con me

Non ti tradirò mai

Siamo uno, io e te

ti seguirò ovunque vai

Era bella quella canzone sull'amicizia di EL, e per la prima volta ero felice di andare a scuola, al pensiero di ritrovare di nuovo i miei tre amici. I miei piedi si muovevano al ritmo della musica e alzai lo sguardo quando toccarono il marciapiedi che portava alla scuola.

Poco più lontano c'erano Brad, Codie e l'altro che parlavano e si voltavano verso di me. Un brivido mi paralizzò.

Vai avanti, Juno. Non ti fare impressionare, sono grossi ma stupidi.

Raddrizzai per bene la schiena e a testa alta e cercai un altro punto dove passare, ma in poco tempo me li ritrovai di nuovo davanti, che mi chiudevano il passaggio. Feci qualche passo indietro e mi misi un po' in punta di piedi «Scusate, ho una verifica. Alla prima ora» Strinsi i pugni sulla cinghia dello zaino fino a che non mi fece male il palmo. Il cuore aveva iniziato a battere più forte, sentivo caldo e freddo allo stesso momento.

Non fargli vedere che hai paura. No, tu non hai paura, Juno.

Quello con i capelli castani, che per primo mi aveva chiamata scrofa, mi parlò «Entri quando diciamo noi.»

Mi spostai di lato per evitarli, si stavano avvicinando «Non se ne parla nemmeno. Io devo fare quella verifica. Secchione deve guardare il concerto, niente al mondo me lo impedisce.»

Si misero a ridere tutti e tre, poi il quarterback, più veloce di me, si fece avanti e mi prese su di peso, mi ritrovai sulla sua spalla.

«Il tuo autista non c'è. Vediamo se riesci a passare questo.»

«Lasciami giù» tossii. La posizione in cui mi aveva presa mi schiacciava la pancia e i polmoni, e mi uscì una specie di strillo. La loro risata mi arrivò alle orecchie insieme al battito del mio cuore che mi assordava. Mi sentivo la faccia gonfia di sangue.

«Brad, non la maltrattare troppo, che esce troppa ciccia» riconobbi la voce di Codie.

Ero a testa in giù e uno degli altri due mi teneva per i polsi mentre Brad mi bloccava le gambe con un braccio, e con l'altro mi stringeva il sedere.

«Non mi toccare! Mettimi giù!» scalciai con le gambe sul suo petto.

Mi stavano portando da qualche parte. Brad rise. «Ehi Seb, questa cicciona pesa più di te. Potremmo usarla come sacco da allenamento.»

Un altro urlo insieme alla tosse mi uscì dalla gola.

Mi tirarono per i capelli fino a sollevarmi la testa. Ero di fronte a Codie «Smettila di strillare come un suino, se non vuoi che ti strappo i capelli uno per uno» sorrise, stupido e soddisfatto.

«Suino ci sarai tu! Lasciatemi!» gli ordinai, ma sentivo che il mio coraggio mi aveva abbandonata, le mie braccia e le gambe mi sembravano più deboli e pesanti del solito. Tentai di non piangere, come facevo con la nonna per non darle soddisfazione. Ma era diverso: non avevo idea di cosa stavano facendo e la posizione mi faceva mancare il respiro.

«Certo che ti lasciamo!» disse Brad.

Mi gettò a terra e caddi di faccia, battendo il braccio su del cemento. Feci appena in tempo a proteggermi la testa con la mano, per non sbattere con la fronte per terra. Una scossa partì dal gomito e arrivò fino alla spalla.

Sdraiata, mi guardai attorno: avevo i capelli davanti alla faccia, non distinguevo molto. Presi una boccata d'aria che puzzava di benzina. Il cuore mi arrivò in gola, chiudendola.

Mio dio! Mi vogliono dare fuoco!

Mi spinsi su con le braccia, un getto d'acqua freddo mi fece di nuovo cadere su un fianco, qualcosa di molle mi schiaffeggiò il viso e l'odore di marcio mi riempì il naso fino alla bocca. La maglia mi si era appiccicata addosso, era diventata viscida e a chiazze grigie. Il puzzo di carburante, confuso con quello di detergente e fango, mi nauseò e mi bloccò i singhiozzi e le lacrime che stavano per arrivare.

Spostai i capelli appiccicati alla faccia. Ero accanto a una pompa della benzina, a terra c'era una spugna grigia, forse quella che mi aveva colpito in faccia. Di fronte avevo Codie, con in mano un secchio, che faceva mostra del suo ghigno più stupido e arrogante.

«Ecco, i maiali stanno bene nel fango.» Mentre mi tiravo via il sapone che bruciava gli occhi, con i capelli bagnati appiccicati alle orecchie e forse anche con l'acqua dentro, non riconoscevo le voci. Sghignazzavano, in piedi, davanti a me, poi uno di loro gridò.

«Gambe, ragazzi.»

Corsero via tutti e tre ridendo soddisfatti, da dietro arrivò l'urlo di un uomo. «Canaglie. Dove scappate?»

Codie si girò e gettò il secchio verso di me, che però mi atterrò davanti senza colpirmi. Ero a terra, gocciolante. Avevo freddo e soprattutto, per la prima volta nella mia vita, la testa mi faceva male dalla rabbia e dalla paura. Lasciai uscire le lacrime che avevo tenuto fino a quel momento. Non riuscivo a gridare, ma in ogni caso, non avrebbe fatto la differenza. Ero a terra, umiliata, distrutta. Un maiale sporco, come avevano detto quei tre.

Un uomo si avvicinò piano, si chinò e con la sua manona macchiata mi fece forza e mi rimise in piedi «Ragazzina, tutto bene?»

Mi diede lo straccio appeso alla tuta «Tieni asciugati» lo squadrò, grigio e pieno di patacche di unto «Beh, forse non è il caso. Anche se tu non sei molto più pulita, ora».

«No.» scossi la testa e lo guardai attraverso i capelli bagnati.

«Li ho mandati via, ma non posso fare altro, scusa» borbottò, «Non è la prima volta che portano qui le persone per prenderle in giro e picchiarle. Tu però sei la prima ragazza.» Si fece serio e mi guardò con la sua faccia piena di rughe e strisciata di unto nero. «Everett gli para il culo, ai suoi amici.»

Annuii. «Lo so. Grazie per avermi difesa.»

Tornai sui miei passi, i piedi erano pesanti e a ogni passo facevo fatica a mettere una gamba davanti all'altra. Le energie sembravano essere scappate via. Ero anche in ritardo per il test.

Entrai nell'aula di letteratura e il professore mi fissò per tutto il tempo, mentre mi avvicinavo alla cattedra. Le mie mani stavano ancora tremando dal freddo.

La stanza era silenziosa, non guardavo gli altri compagni, ma potevo immaginare che non era perché erano concentrati sul compito.

Lo supplicai sottovoce. «La prego, mi faccia fare il test. Sono in ritardo ma non è stata colpa mia, io ho studiato.»

Sospirò, poi si mise un dito sotto il naso e fece una smorfia. «Sì, nessuno si getterebbe in una pozza di detersivo e benzina solo per un test di epica, Bennett. Farò un'eccezione a farti entrare, ma consegnerai quando lo faranno gli altri.»

Guardai le mie scarpe che non erano più rosa. «Grazie.» Feci un passo e lo superai. Mi lasciò andare, non chiese spiegazioni.

Non feci in tempo a terminare il test. Juliet si alzò e mi arrivò incontro. Mi prese per le braccia, aveva la faccia lunga e gli occhi non smettevano di guardarmi dall'alto al basso. «Juno. Ti ho notata appena entrata.»

Le tolsi le mani dal maglione. «Chi non l'ha fatto?»

Uscii e andai verso il mio armadietto. Janine ci venne incontro, dalla sua espressione sapevo che voleva farmi la stessa domanda. «Non mi dire che sono stati loro tre.»

«Sì.» Raccontai a tutte e due quello che era successo, intorno, gli altri compagni mi giravano alla larga e sventolavano le mani davanti al naso.

«Quelli fanno quello che vogliono se prendono di mira qualcuno.» continuò Janine, «Ancora non ho capito perché ce l'abbiano con te, ma stai attenta.»

Lungo il corridoio controllai la manica, le macchie si erano asciugate, ma l'azzurro pastello sembrava un grigio cielo di Seattle e il tessuto era rigido. «Mi chiedo perché non vengano puniti, almeno a scuola.»
«Perché erano dieci anni che la squadra di football non collezionava così tante vincite.» commentò Juliet «C'è una buona probabilità che grazie a Brad, Seb e Cody andremo alle nazionali.» spiegò.

«E questo vuol dire un sacco di soldi per la scuola.» concluse Janine.

Passò qualche minuto di silenzio, poi Juliet sbatté un piede a terra, decisa.

«Sai cosa ti dico? Alla faccia di quegli stronzi, questo week-end ci facciamo un pigiama party. Obbligo di venire!»

Si sporse fino ad arrivare a pochi centimetri dalla mia faccia. «E ci sarà anche quel perdente di Sean. Gli faremo una nuova treccina.»

Mi venne un sorriso spontaneo.

Stare con loro mi dava coraggio. Anche se quei tre del football se la stavano prendendo con me, non era come a casa dove i problemi erano solo miei e non potevo avere nessuno con cui parlarne. Io, Janine e Sean eravamo tre persone diverse, quattro se si contava anche Juliet, che magari non era del club ma si sentiva comunque responsabile per noi, e stavamo tutti affrontando qualcosa che conoscevamo.

Note Autore

Ma la simpatia di questi tre? si può sapere perché ce l'hanno con Juno? Io boh!

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