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1 - Come si fa con i panni asciutti

Era ancora buio quando quella mattina, come ero sempre solita fare, arrampicata sul mio albero di quercia, aspettavo il sorgere dell'alba che avrebbe dato vita a un nuovo giorno.

Portai davanti ai mie occhi la Canon e puntai l'obiettivo ad Est, il sole piano piano spuntava e io con tanti piccoli click lo catturai, afferrai anche il cielo tingersi di azzurro per poi far spazio anche al viola tenue e a un rosa pallido.

Accennai un piccolo sorriso mentre abbassavo la macchina fotografica, guardavo il sole, quella palla di fuoco che stava lì a dare agio alla natura di svegliarsi. Tuttavia paragonai le foto scattate con la bellezza di quella che era la realtà e sorrisi di nuovo scuotendo piano il capo perché effettivamente quelle due visuali non potevano essere messe a paragone. Quella mattina fui sciocca a farlo, sorrisi ancora: sempre così infantile, così mi reputavo, a volte.

Un filo di vento mi portò un brivido lungo le braccia, fece ondeggiare la bianca e lunga vestaglia a bretelle che indossavo e fece scuotere piano le foglie della maestosa quercia. Rimasi ancora qualche minuto a osservare l'orizzonte, ma quelle foglie non smettevano di svolazzare e i rametti più piccoli, che facevano avanti e indietro, mi facevano segno di andare. Avevano ragione.

Eppure non riuscivo a smettere di guardare il cielo che dolcemente si colorava. Di nuovo donna infantile, o tremendamente romantica, forse.

Come ogni mattina aspettai le sette e quindici prima di scendere da Ares, magari graffiarmi un po' con la sua dura corteccia e correre scalza, attraverso il campo di spighe che solleticavano le mie gambe nude, verso la baita.

Entrai silenziosamente preparando la borsa da portare al Centro di ricerche scientifiche: si trovava nel vivo della città, lontano dalla baita e lontano dalla piccola cittadina in cui vivevo.

Dopo aver tolto di dosso con un bagno freddo l'odore pulito della rugiada, misi in spalla la borsa e chiusi il portone, percorsi il viale che portava a una staccionata bianca, ma prima di aprirla presi la mia Graziella rossa, poi uscii dalla recinzione, la chiusi e pedalai, percorrendo i sessanta ettari di terreno che mi appartenevano, per poi proseguire sempre dritto e svoltare, a volte, a destra o a sinistra.

🍁

Entrai nel Centro dal padiglione A, Fin e Peet erano già in tenuta con la mani giunte al basso ventre con sguardo serio, tuttavia non appena mi videro arrivare accennarono un sorriso e Finn si affrettò ad aprire il portone d'ingresso.

«Buongiorno, Dottoressa!» Mi salutò lui, io velocemente ricambiai il saluto mentre sentivo il sussurro di Peet, probabilmente all'auricolare: «Annabel Dickenson ingresso padiglione A».

Camminai lungo il corridoio bianco. Le luci davano un senso di accoglienza e io ne approfittavo sempre per stringere a me la borsa a tracolla e volteggiare solo una volta, solo una, in quel lungo corridoio, consapevole che non ci fosse nessuno a guadarmi. Quando però stetti per aprire la porta del mio ufficio sentii accanto a me qualcuno che veniva dal corridoio di sinistra. Era Penelope, mia amica e collega.

«Sono appena arrivata. Ci credi che sono dovuta entrare dal Padiglione C perché Gregor, quel vecchio ritardatario, non era ancora di vedetta, insomma non era ancora arrivato capisci? Di conseguenza non ha aperto la sbarra per noi dipendenti. Ho dovuto lasciare la macchina nei parcheggi del Padiglione C. E se mi diranno qualcosa... oh che ci provino. Oggi non è giornata, Anna». Mi guardò storta mentre parlava e cercava di aprire la porta di vetro del mio ufficio.

«Ah! Tieni. Apri questa dannata porta». Alzai gli occhi al cielo aprendo la porta, la feci entrare e mi diressi alla mia scrivania facendo scivolare su di essa la borsa a tracolla.

«Penelope, m'importa solo che tu svolga il tuo lavoro correttamente. Ce la puoi fare?» Domandai cauta.

Lei in tutta risposta si mise gli occhiali da sole mentre mi guardava attentamente, poi si voltò, si sedette imperturbabile, accese il computer e io scossi la testa divertita.

Passò un'ora in silenzio, solo il click dei tasti echeggiava ogni tanto nell'ufficio semivuoto. Penelope aveva finito momentaneamente il suo lavoro nel mio ufficio, quindi non si trovava più con me. Difatti ero da sola.

Guardai l'orologio, erano appena le nove di mattina e constatai che a quell'ora eravamo ancora in pochi a essere operativi, quel giorno. Mi alzai e presi dalla borsa, che era rimata sulla scrivania, un documento, lo lessi attentamente.

«Giorno, Anna!» Trasalii all'udire il mio nome e per lo spavento quasi non inciampai da ferma.

Lincoln Lee se ne stava poggiato allo stipite della porta con un sorriso smagliante, elegante e con due cappuccini in mano.

«Pensavo di essere sola». Quasi imbarazzata posai il foglio e misi il camice bianco.

Lui abbassò lo sguardo e sorrise, poi si avvicinò a me e poggiò sulla scrivania una delle due bevande.

Una galanteria che ostentava fare tutti i giorni.

«Tieni, fai colazione prima di iniziare il tuo lavoro, Anna». Indicò i fogli, che s'intravedevano dalla borsa semi aperta, e la scrivania.

Alzai lo sguardo e notai che il sorriso era ancora lì sulle sue labbra. Io ne accennai uno.

«Grazie, Lincoln, ma non devi preoccuparti per me o... sai... la mia colazione», dissi ridendo.

«E poi la mia giornata lavorativa è già iniziata quindi davvero, non preoccuparti», gli sorrisi e presi di nuovo in mano il documento, distogliendo l'attenzione da lui.

«Non mi preoccupo, mi assicuro solo che la nostra Dottoressa abbia il necessario per iniziare con la giusta carica la giornata». Scossi la testa e tirai i fogli fuori dalla borsa per sparpagliarli sul tavolo.

«Cosa sei? Un personal trainer, per caso?!» Rise appena.

«Hey... mmh... vorrei accompagnarti a casa appena stacchiamo. So che sei venuta in bici, posso fare una passeggiata con te fino alla tua baita». Era una richiesta e allo stesso tempo era un'affermazione. Nascosi un sorriso nel tentativo vano di quell'uomo di scalfire questo cuore di pietra.

«Negativo». Lo guardai e un sorriso ingenuo quanto letale lo costrinse a sorridere ancora, abbassando il capo.

«Va bene, Doc. Buon lavoro, allora!» Disse mentre gli occhi mutavano e lui lasciava l'ufficio.

«Anche a te, Lincoln».

🍁

Quel giorno era stato pieno di soddisfazioni, i risultati coincisero finalmente con le ricerche e io non potevo che sentirmi orgogliosa. Quel lavoro significativa solo che l'azienda avrebbe raggiunto livelli altissimi e che io sarei stata al centro dell'opinione pubblica. Ormai me lo avevano ripetuto così tante volte che avevo finito per farmene una ragione. Intendevo sulla verità. Perché la verità seppur così effimera se alimentata diventava impenetrabile. E io la mia verità l'avevo resa tale.

Avevo così tante verità impenetrabili, io, che forse prima o poi mi avrebbero schiacciata, il loro peso lo conoscevo io e io soltanto.

🍁

Era ormai pomeriggio inoltrato quando finii di lavorare. Con la mia Graziella, la mia amata bicicletta rosso fuoco, mi diressi a casa.

Il calore dei raggi del sole mi inebriarono e decisi di deviare il mio percorso per andare al parco abbandonato, che tra l'altro si trovava non poco distante dalla baita. Posai distrattamente la bici e mi sedetti sotto un albero, estrassi dalla borsa il mio libro, uno dei tanti che mi portavo sempre dietro e, ben nascosta dal tepore del sole, lessi.

Il flusso dei miei pensieri non ne voleva sapere di fermarsi, neanche il signor Darcy ed Elizabeth riuscirono a distrarmi. Mi ritrovai con la mente piena di pensieri e immagini che non mi appartenevano: cellule, occhi, una moto, il mio vestito...

«Anna!» Una voce maschile mi fece sussultare come se fossi stata colta in flagrante. Chiusi violentemente il libro, maledicendomi mentalmente nel caso in cui l'avessi rovinato e arrossii lievemente.

Lincoln stava camminando in questa direzione prima di trovarsi davanti a me. Si diresse verso l'altalena, sedendosi.

«E tu cosa ci fai qua?» Chiesi alzandomi velocemente mentre tentavo di ripulire i miei abiti dell'erba secca.

«Sono abbastanza sicura che 'sta mattina avessi negato il tuo invito».

«Negativo. Non accetto un no come risposta». Il suo tono era cordiale, gentile.

La mia onesta reazione fu quella di corrucciare le sopracciglia, irritata e sorpresa.

«Negativo?» Ripetei quasi indispettita.

«Già, negativo, Anna».

Lincoln si alzò dall'altalena, la quale oscillò avanti e indietro avanti e indietro avanti e indietro avanti e indietro.

«Ti accompagno e me ne vado, hai la mia parola».

«La tua parola? Anche io ti avevo dato la mia, la quale era "Negativo": significa "No", Lincoln, - gli accennai un sorriso mentre spostai il libro davanti il basso ventre, tendendolo con entrambe le mani -, e inoltre io qui non ho finito». Alzai le spalle indicando con il capo i resti dei mie beni accasciati sulle foglie secche.

«Puoi sempre continuare a fare ciò che stavi facendo alla baita». Propose lui, dondolando lievemente. Mi stava pregando e io lo stavo quasi umiliando. Mi sentii in colpa.

«Non cederai, vero?» Il mio viso speranzoso lo fece sorridere, poi scosse la testa.

«Solo per questa volta, okay?» Sospirai, allentando il corpo dalla tensione.

Lui annuì e mi affiancò. Io raccolsi da terra la borsa e ci infilai dentro Orgoglio e Pregiudizio.

Camminammo per le vie di quella cittadina senza parlare troppo, senza sfiorarci nemmeno. Era una così bella giornata che mi persi nuovamente nei miei pensieri e quasi non ascoltai quando Lincoln accennò di essere arrivati. Non mi ero resa conto di trovarmi davanti la limpida staccionata di casa.

«Grazie, Lincoln». Lo salutai e aprii il piccolo cancelletto bianco. Con la bici entrai nel vialetto.

«Hey, ti andrebbe di bere qualcosa una di queste sere?» Mi voltai e notai la mascella serrata, gli occhi marroni e a mandorla curiosi e le guance colorate appena.

«Ora che l'esperimento è finito non avrai tempo, nessuno lo avrà in azienda e io vorrei tanto invitarti a bere qualcosa con me, prima che sia troppo tardi».

Lo guardai.

Ma no, non potevo permettermelo.

Misi il cavalletto alla bici e con dolcezza mi avvicinai a lui.

«Lincoln, non c'è niente di più che un'amicizia nei miei sentimenti per te». Gli sussurrai pacata e con un sorriso rassicurante.

«Non c'è niente», ripetè. Io annuii.

«Ho corso troppo, dovevo immaginarlo», farfugliò.

Non è questo il problema Lincoln.
Non so come dirlo che non voglio soffrire, non so come farlo capire che voglio essere lasciata stare.
Lasciatemi stare, a me, ché sono complicata.

«Lincoln, ascoltami: non potrà esserci nessun passo avanti, la nostra amicizia è tutto quello che voglio, niente di più, nulla in meno. Non si tratta di correre, preferisco che cammini sì, ma anche se lo dovessi fare non ci sarò ad attenderti alla fine della maratona». Lasciai intendere le mie intenzioni, ma lo feci dispiaciuta. Sinceramente dispiaciuta.

Odiavo dire quelle cose, mi rimaneva un senso di vuoto dentro, il senso di colpa galleggiava nel petto e stava lì, pronto a ricordarmi che avrei potuto cambiare le cose, le dinamiche della mia vita e di quella di qualcun altro. Il punto era, mia cara coscienza, che non avevo bisogno di cambiare le carte in tavola, non volevo obbligarmi ad amare, non sapevo farlo.

Lasciatemi stare.

«Ci sai ancora fare con le parole, Anna. - sorrise e lo feci anche io, abbassando per pochi attimi lo sguardo - Mi ricordo che da piccolina, forse avrai avuto dieci anni circa, raccontavi storie di fantasia e rapivi tutti con le tue parole. Io non sono mai stato alla tua altezza, lo riconosco». Andavamo nello stesso plesso, è vero. Spesso durante l'orario ricreativo tutti ci riunivamo e io raccontavo le mie fiabe agli altri bimbi che rimanevano incantati, affascinati e rapiti dalle mille storielle di fantasia.

«Ero piccola!» Dissi con gli occhi che mi brillavano e con un sorriso, quasi in una protesta infantile per aver ricordato quei momenti: i vecchi tempi andati, quelli spensierati e dolci. «E adesso sei un'adulta», sussurrò. Un soffio di vento mi scompigliò lievemente i capelli e ne portò una ciocca davanti al viso, mi affrettai a metterla al suo posto. Lincoln sembrò rapito da quel gesto, tanto da smettere di sorridere e guardarmi sommessamente.

«Sei sempre stata bellissima. La cosa che mi sorprende è che dopo tanti anni lo sei sempre e ancora di più». Non amavo i complimenti e solo a quelli non arrossivo mai, quindi mi limitai ad abbassare lo sguardo e pensare che fossero una bugia, le sue parole.

Non sono affatto bellissima; non vedi come ti tratto, Lincoln?
L'amore rende ciechi e io non voglio avere di bisogno un paio d'occhiali per vedere meglio.

«È meglio che tu vada Lincoln. Grazie per oggi, è stato bello parlare così».

Parlare così apertamente, assaporare le sensazioni, conoscere nuove facciate... è bello parlare così.

Annuì e fece per aprire bocca ma un rombo assordante di un motore - che io conoscevo bene - ci affiancò e rese impossibile la comunicazione.

Lincoln si girò per vedere chi era e anche io.
La moto era nera con poche sfumature bianche e grigio, la tuta che indossava l'uomo mi era familiare e altrettanto scura proprio come il casco. Ma quando se lo tolse e rivelò i suoi capelli biondi perfettamente scompigliati - che mi fecero battere le palpebre - e quegli occhi giada che mi fecero perdere un battito, sgranai gli occhi.

Dawson Ferran si trovava di fianco a me, con lo sguardo corrucciato puntato sulla mia figura, a pochi centimetri dalla mia vasta terra.

«Che... che ci fai tu qua?» Chiesi spaesata e confusa, per di più ballettai e le mie guance si tinsero di rosso.

«Abbiamo un compito da finire, ricordi?» Poggiò il casco sulla sua gamba e il gomito su di esso, non aveva intenzione di scendere.
Lanciò un'occhiata imperscrutabile a Lincoln, che ricambiò con una piena di sorpresa, per poi poggiare su di me il suo sguardo ora corrucciato ma più dolce.

Lo guardai persa e poi sgranai gli occhi. Oh Dio!

«Non abbiamo nes-», ringhiai serrando i pugni, quasi avrei voluto battere il piede a terra come una bambina.

Lui mi zittì con lo sguardo e il petto vibrò di rabbia. Io. Io avevo un compito da finire, ma non di certo con lui. Dannazione!

Lincoln non sembrava avere intenzione di andarsene e io non seppi come dividermi.

🍁

«Annabel, te ne eri dimenticata?» A sentire il mio nome pronunciare per intero sussultai, mi indusse a posare gli occhi sul biondo.

«Niente affatto!» Mentii con il viso rosso.

«Ci vediamo domani, Lincoln». Lo salutai e feci cenno a Dawson di scendere dalla moto per seguirmi. Quasi avrei voluto ringraziarlo per essere arrivato in quel momento e avermi dato una scusa per chiudermi in casa lontana da quel sentimento che mi aveva dichiarato di provare quell'uomo. Tuttavia non lo feci. Per ovvie ragioni. Una delle tante era che lui era Dawson Ferran e io e lui non avevamo nessun tipo di rapporto, se non parlare sporadicamente, per la maggior parte delle volte di argomenti discostanti. Discostanti come noi due. Quindi perché diavolo mi era venuto in mente di ringraziarlo? Come cavolo mi era solo osato passare per la mente?

Scossi il capo impercettibilmente e accennai un piccolo sorriso frustrato.

«Oh! A domani allora». Quasi bisbigliò mentre fece un cenno con la mano e si avviò nella direzione dalla quale era arrivato.

«Andiamo», sussurrò Dawson a pochi passi da me. Il suo respiro era sulla mia palle, così vicino da farmi rabbrividire. Mise una mano sulla schiena facendomi sentire il calore del suo corpo anche attraverso il tessuto. Mi spinse lievemente all'interno della mia terra.

«Ah! Anna!» Lo osservammo tornare indietro di corsa.

«Il capo ha detto che ti vuole domattina nel suo ufficio». Annuii. Dawson strinse la presa.

Nessuno dei due capiva il nostro rapporto. Nessuno che ci conoscesse, in realtà, capiva noi. C'era, poi, un noi? Era un noi dannatamente strano.

«Devi passare prima di metterti il camice». Si assicurò che io avessi capito e se ne andò.

Il ragazzo accanto a me puntò gli occhi nei miei e io mi girai, a mia volta, verso di lui. Stavamo pensando la stessa cosa.

"Succederà presto", era il pensiero che aleggiava tra noi.

«Andiamo?» Gli chiesi retoricamente e lui, per tutta risposta, mi spinse delicatamente fino a raggiungere la baita. Ci lasciammo alle spalle Lincoln e finalmente aprii la porta con il mio mazzo di chiavi. Dawson sospirò e mi chiesi cosa avesse dopo aver praticamente fatto allontanare senza un motivo apparente, dal mio punto di vista, il mio collega.

«Perché Lincoln Lee era a casa tua?» Chiese una volta entrato nella piccola cucina. E boom! Senza accorgersene aveva letto i miei pensieri, parlando proprio di quell'uomo lì.

«Non era in casa mia, era davanti casa mia», precisai, prendendo un bicchiere.

«Vuoi qualcosa da bere?» Chiesi voltandomi verso di lui ma lo trovai già a osservare il mio vestito bianco o i miei lunghi capelli sciolti o la mia schiena oppure un piccolo dettaglio insignificante dietro di me, non lo capii.

«No. Siediti», disse con voce roca. «Non cambia molto, era comunque con te. Cazzo, Annabel!»

«Smettila, smettila, smettila!» Dio, Dawson! «Non puoi dire certe cose. Smettila». Lo guardai negli occhi e tentò di capire come tentavo di capire io. «E non mi siedo, okay? Non mi siedo».

Conoscevo il suo lavoro, ma non doveva eseguirlo su di me. Lo sapeva eppure lo faceva comunque.

Frustrato, si passò una mano sui capelli e mi guardò. Sbattei le ciglia per capire cosa fare, per uscire da quella realtà, ma niente, non era possibile. Riempii il mio bicchiere d'acqua e bevvi, dissetai la mia bocca secca.

«Hai ragione, okay? È solo...» Non finì la frase. La lasciò lì, in sospeso, ad aspettare che qualcuno la tirasse giù come si fa con i panni asciutti.

«"È solo" cosa?» Chiesi con il bicchiere a mezz'aria.

«Non lo so, Annabel». Puntò i suoi occhi verdi nei miei marroni così intensamente da farmi tremare la mano che teneva stretta il bicchiere.

Non sopportai lui, il suo viso, il suo sguardo. Dovetti voltarmi, posare il bicchiere, poggiare i palmi sul bancone, abbassare il capo e respirare.

«Studia, fai le tue ricerche. E ricordati che mi devi ancora una risposta». Lo sentii dire. Allorché mi girai.

«Non ti devo alcuna risposta, perché l'ho fatto ieri e il giorno prima e anche quello prima ancora».

Pacata mi diressi su per le scale, pedinata da lui, per andare nella mia stanza a prendere dei libri e delle penne.

Dawson non rispose, credevo avesse solo un sorriso beffardo spiaccicato in faccia.

«Vuoi stare qui o all'aperto?» Chiesi ma notai che era preso a osservare la mia macchina fotografica e le foto scattate da me appese a una parete. Passò poi lo sguardo sul manoscritto e lì persi un battito.

Me stessa in piccoli oggetti, in piccole parole che non potevano essere toccate e lette.

«Dawson?» Cercai di distrarlo e ci riuscii perché puntò i suoi occhi profondi nei miei e mi disse: «Non sapevo che scrivessi». Sorrise e io abbassai lo sguardo.

«Non sai molte cose». Sfiorò la scritta sulla copertina dei fogli del manoscritto che diceva: Pietra d'oro di Annabel Dickenson.

«Di cosa parla?» Chiese con un cipiglio.

«Non sono affari tuoi, Dawson Ferran». Quasi ringhiai ma non riuscii perché era la prima volta che qualcuno osservava da così vicino il mio romanzo incompleto, era la prima volta che qualcuno sapeva di me e della scrittura, era la prima volta che qualcuno sfiorava quelle lettere incise a penna. Solo... non ci riuscii.

Non ti interessare, non fingere, non chiedere. Aiutami perché io non voglio che ti importi.

«Allora?» Insistetti ancora alla ricerca di una risposta.

«Andiamo fuori, ho bisogno di fumare». Tastò la sua giacca e sospirò di sollievo quando notò che aveva con sé la sua nicotina.

«Seguimi». Gli dissi, ma prima di uscire mi fermai di colpo, il suo sguardo era interrogativo: seguiva i miei movimenti.

Estrassi dalla borsa, che portavo a lavoro, Elisabeth e Darcy e, dopo un attimo di esitazione, decisi di portare anche la macchina fotografica. Lui rise della mia indecisione, io invece mi limitai ad alzare gli occhi al cielo e interrogarmi, mentre scendevo le scale, sul suo strano modo di fare. Di solito non mi guardava, non rideva in mia presenza e no, non parlava più del dovuto, mentre, adesso, nella mia umile dimora in legno, mi scrutava, sghignazzava e si divertiva mentre conversava con me. Mi chiesi se lo avrei mai capito.

Lo portai al mio albero e lì ci sedemmo per svolgere quel compito che dovevo risolvere. D'altronde anche se la ricerca era andata a buon fine il mio lavoro in azienda non era finito.

«Ti spiace se fumo?»

«Mh?» Alzai lo sguardo dal libro e osservai Dawson interrogativa, soprappensiero. Tuttavia quando notai estrarre il pacco di sigarette dalla tasca del giubbotto in pelle, che aveva precedentemente poggiato su un tronco, la mia espressione si fece più chiara.

«No, figurati», sussurrai appena, prima di rivolgere la mia attenzione al compito.

Nel frattempo che mi occupavo del lavoro, Dawson passava il suo tempo a osservarmi con la sua fatidica sigaretta tra le labbra e lo sguardo concentrato. Avevo preso in prestito alcuni vecchi libri di mia madre, in più mi ero fornita di materiale alla biblioteca del Centro.

🍁

Ero distesa a pancia in giù e piedi per aria quando, dopo ore, sbuffai.

«Non ce la faccio più!» Sussurrai e mi alzai.

«Non hai trovato nulla?» Chiese il ragazzo togliendosi l'ennesima sigaretta dalla bocca.

«Ho trovato tutto, solo non ce la faccio più a stare con il naso sui libri». Dichiarai poggiandomi sulla corteccia del mio albero.

L'avevo chiamato Ares, come il dio della guerra nella mitologia greca, mi piaceva questo nome e quindi, sì... lui era Ares come il dio della guerra. E io ero Eirene come la dea della pace. Solo che forse tanta pace non la portavo.

«Sai che ti dico? Andiamo a farci un giro, continui dopo». Affermò alzandosi.

«Non se ne parla, Dawson. È quasi il crepuscolo, devo cenare e domani devo svegliarmi presto».

«Annabel, sali in moto. Ti riporto a casa appena tramonta. Hai bisogno di distrarti», disse dandomi le spalle, incamminandosi verso la baita.

«Sai cosa c'è Dawson?» Alzai per aria le mani frustrata mentre lui si girò con sguardo corrucciato e confuso.

«Non capisco perché stai facendo questo oggi», dissi indicando sconcertata lo spazio sotto l'albero di quercia dove io ero seduta e lui appoggiato. Sbuffai e lui accennò un sorriso.

«Sei stato con me tutto il pomeriggio a non fare nulla, a guardarmi. E poi hai mandato via Lincoln e poi... e poi... - mi girai, guardai la corteccia di Ares - e poi lo hai mandato via e mi hai detto che "era con me" come se ti importasse. Che te ne importa?» Mi voltai, frustrata e confusa. Lo osservai per attimi che parvero minuti interminabili, il che mi fece salire l'irritazione che avevo trattenuto.

«Sai benissimo che passo tutti i giorni dalla tua baita, sai che rimango qualche secondo appena stacco dal mio lavoro, sai che,» Dawson si avvicinò a me mentre io indietreggiavo: la corteccia di Ares era diventata un posto in cui essere incatenata, «se potessi stare più tempo con te lo farei. Sai che,» e questa volta lui fu davanti a me, con la mano sulla corteccia, accanto al mio viso, con le labbra che sfioravano l'orecchio, «farei il possibile per starti accanto anche solo trenta secondi al giorno».

Il mio respiro era inesistente, se c'era io non lo percepivo, tuttavia sentivo come la sua mano aveva toccato la mia coscia scoperta dal vestito bianco, fu allora che osai voltarmi. Il suo capo era abbassato, osservava me, il mio corpo, le mie gambe. Io d'altro canto mi accorsi di avere il respiro accelerato perché il suo petto andava su e giù in sincrono con il mio.

Avrei voluto accarezzargli il collo ben visibile, accarezzargli la schiena, le braccia tatuate, le mani. Ma quei pensieri mi portarono alla realtà. No.

Lo spinsi via.

«Che ti dice la testa, Ferran? Che diavolo ti dice la testa? Vattene». Dissi, eppure non avrei voluto quello, tuttavia sapevo bene quali erano le mie priorità. Sapevo bene che il mio cuore di pietra d'oro non poteva essere sostituito da uno anatomico capace di battere e di lasciarsi consumare, ancora una volta. Quindi presi le mie cose da terra con violenza, strappando anche dell'erba e, regalandogli una spallata, mi avviai alla baita, lasciando interdetto, con la mascella serrata e frustrato, Ducan. Ducan che sapevo era rimasto davanti ad Ares per mezz'ora fumando, camminando, fumando ancora, per poi dirigersi verso la staccionata, salire in sella alla moto, mettere il casco e sparire.

Un sospiro lasciò le mie labbra quando dalla finestra della mia stanza in soffitta non mi persi neanche un attimo di quanto accaduto.

Lo spazio di Cenere

Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto,
se sì, per favore lasciatemi una
stellina!

Nel prossimo ci saranno nuovi personaggi. 🤫

Cosa avrà chiesto Dawson ad Annabel nei giorni precedenti? E che razza di rapporto è il loro?

Scoprirete tutto prossimamente!
Succederà un gran trambusto... tenetevi pronti.

Mi trovi su Instagram come cenere.astrale per commentare insieme. 🖤

Al prossimo aggiornamento!

- Cenere

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