II - Plaid Shirts
La puzza di fumo era asfissiante e la fece rizzare in piedi, svegliandola dal sonno.
Cierra sgranò gli occhi immediatamente e fu invasa da un improvviso calore. Si portò una mano alla bocca, tossendo: il fumo le impediva di respirare e le fiamme la circondavano, nella sua camera da letto.
C'era un incendio.
Si accovacciò, alla ricerca di un posto sicuro o un modo per spegnere il fuoco, ma era inutile.
«Mamma! Papà!» Chiamò la ragazza, incessantemente e con la voce spezzata dal pianto, ma non ricevette risposta: era come se fosse stata da sola in casa.
Al suo fianco, le lenzuola si infuocarono agli angoli; erano fiamme piccole, domabili, ma l'acqua non le annullava e il tessuto che Cierra gli stava sbattendo contro non le diminuiva.
Guardò di fronte a sé: la raccolta di libri, vinili e gli ultimi ricordi di suo fratello stavano andando a fuoco.
Cierra si piegò le ginocchia e si portò le mani ai capelli, terrorizzata e singhiozzante: quel fuoco era impossibile da spegnere.
Cierra si svegliò di soprassalto; l'immagine della casa in fiamme era vivida dinanzi ai suoi occhi, sbarrati per il terrore.
Sudata e con il fiato corto, la ragazza si girò di scatto a guardarsi intorno; davanti a lei la pelle nera dei sedili anteriori le copriva la visuale: era in un'auto. I due uomini che erano lì, l'uno affianco a lei e l'altro alla guida, erano la dimostrazione che quello che era successo prima del suo attacco di panico, in casa, non faceva parte dell'incubo dal quale si era appena destata.
La paura tornò a colmarla e un brivido le attraversò la spina dorsale; spaventata, Cierra si strinse involontariamente nelle spalle, come se avesse tentato di sparire nei suoi stessi indumenti, e si schiacciò con la schiena contro la portiera, allontanandosi dall'uomo accanto a lei.
La mora aveva i ricordi offuscati su cosa fosse avvenuto prima di perdere i sensi e il confine tra la realtà e ciò che aveva potuto immaginare era davvero labile; il viola improvviso degli occhi di uno dei due uomini, ad esempio, non le tornava. Chi essi fossero, poi, e il legame che sembravano avere con i suoi genitori era sconosciuto e la infastidiva enormemente. Che c'entrava lei? Magari i suoi la stavano usando come merce di scambio per qualche debito.
La sua mente ormai vagava alla ricerca di assurde spiegazioni a cui non credeva neanche lei e che scacciava scuotendo la testa.
Nel voltarsi verso il finestrino, Cierra si rese conto del sole che le scottava la pelle chiara; altra cosa che non capiva: era sera inoltrata quando era tornata a casa. Possibile che avesse dormito così tanto?
«Quanto tempo è passato?» Riuscì a mugugnare intimorita, con la voce impastata dal sonno, mentre cercava con lo sguardo vispo una via di fuga o un modo per stordire i due e fare qualcosa. Si curò poco della risposta, troppo impegnata a tastare i sedili caldi con le mani tremanti, alla ricerca del barattolino di pillole che cercava anche la sera prima e che le sarebbe potuto cadere dalla tasca dei jeans. Esso conteneva un paio di calmanti che Cierra si portava dietro da qualche anno.
Ella infatti, dalla morte di Noah, aveva cominciato a essere continuamente nervosa e spaventata; era diventata paranoica e a aveva preso a soffrire di frequenti attacchi di panico. Per precauzione, dunque, preferiva avere sempre con sé un rimedio, sebbene questo fosse divenuto, col passare del tempo, un'ancora di salvezza utilizzata anche quando ci si poteva salvare senza.
«Cercavi queste?» Chiese retorico l'uomo accanto a lei, attirando immediatamente la sua attenzione. Con una risata di scherno le lanciò il contenitore, che Cierra afferrò per miracolo. La guardò come se ella fosse stata una tossicodipendente, poi calò di nuovo il silenzio tombale.
Cierra buttò subito giù una pillola, poi si strinse maggiormente nella camicetta fine che indossava e gettò uno sguardo veloce allo squarcio di cielo che si stendeva in alto, fuori dal finestrino; il tepore del sole le scaldò il viso e la giovane realizzò che era quello il calore che aveva percepito durante l'incubo.
Ancora non sapeva quanto tempo fosse passato, perché non aveva ascoltato la risposta datale alla sua precedente domanda, ma pensò che saperlo avrebbe cambiato poco la situazione. Piuttosto, prese coraggio e preferì chiedere perché si trovasse lì, mentre ancora cercava un modo per scappare, ma ora appena con più calma.
«Ogni volta la stessa storia» ringhiò l'uomo al suo fianco, roteando gli occhi scuri.
«Ricordami perché faccio questo lavoro di merda» aggiunse poi, rivolgendosi al collega alla guida che, fino a quel momento, non aveva proferito parola.
«Perché non sai insegnare» gli rispose questi, prendendolo palesemente in giro malgrado l'espressività di un cubetto di ghiaccio.
Nel vederli appena distratti, Cierra ne approfittò per nascondere le mani dietro la schiena e tentare di aprire la portiera di soppiatto. Certo, saltare da un'auto in corsa non era una grande idea - anche perché non aveva ancora dato un'occhiata a cosa c'era fuori e non sapeva minimamente su cosa sarebbe atterrata o dove si sarebbe trovata; tuttavia, era l'unica soluzione che aveva trovato finora. Sicuramente non le andava di restare bloccata in un'auto diretta chissà dove con persone che non conosceva.
Tastò la portiera con la punta delle dita tremanti; era terrorizzata dalla possibilità di fare il più piccolo rumore che rischiasse di farla scoprire o di agire in maniera troppo sospetta e da ciò che poi sarebbe accaduto dopo, ma si costrinse a un minimo di lucidità e riuscì a sentire finalmente la maniglia sotto i palmi sudati delle mani.
I due uomini erano tornati in silenzio e gli unici suoni che si udivano erano lo stridio delle ruote e il cambio di marcia, ogni tanto. Cierra aprì la bocca per dire qualcosa nel tentativo di distrarli, ma pensò che così facendo avrebbe attirato le attenzioni su di sé ed era l'ultima cosa che le serviva. Serrò le labbra di scatto e tentò di agire nel minor tempo possibile; incastrò dunque entrambe le mani sulla maniglia e tirò con forza più volte, ma niente: le porte erano bloccate.
Non si era più preoccupata di fare rumore o meno: pensava che avrebbe avuto poca importanza se fosse scappata di lì a poco. Ma le cose non andarono come previsto e Cierra era non solo chiusa ancora in auto, ma ora chissà cosa sarebbe successo.
Si aspettava una qualche reazione violenta che, però, non arrivò: l'uomo alla guida non diede cenni di vita e quello accanto a lei si limitò a declinare la questione con uno sguardo di sufficienza.
«Sono bloccate, non puoi andartene» affermò solo, ovvio, e Cierra si diede della stupida per non aver notato prima il tastino di blocco alzato.
Cadde nel panico ancora una volta: se erano così tranquilli di fronte a una tentata fuga, voleva dire che non c'erano speranze.
La ragazza si passò una mano fra i capelli e si lasciò sfuggire un lamento sconfitto, che le morì tra le labbra e i denti, mentre la vista le si offuscava dalle lacrime. Si rassegnò, guardando in faccia alla realtà: non poteva scappare e non poteva nemmeno pensare di far del male ai due per prendere il controllo dell'auto in corsa. Aveva imparato quasi a guidare, sì, ma sarebbe stata una sedicenne intimorita che non era neanche arrivata a prendere la patente.
Si voltò indietro, cercando di capire almeno dove si trovasse. Era giorno, dovevano aver viaggiato per una notte intera e ora potevano essere in posti come l'Oregon o il Nevada.
Guardò dal finestrino sul retro, quello del portabagagli, e ciò che vide non era certamente l'Oregon o il Nevada: l'auto era a mezz'aria, su una distesa d'acqua che assomigliava tanto al Pacifico che bagnava Los Angeles; percorreva un ponte mezzo visibile, fatto di una scia luminosa dorata che si creava spontaneamente al passaggio e si disfaceva dietro di loro. Lontano metri vi era una sorta di buco dai bordi violacei, simile ai portali che si vedono nei film di fantascienza, colmato dall'immagine del Vincent Thomas Bridge; il collegamento dorato era scomparso in quel punto, ma restava una sorta di ombra, una sagoma semitrasparente dai riflessi colorati che ora era appena visibile, ora spariva del tutto.
Cierra sgranò gli occhi blu e sussultò; si portò una mano alla bocca ma fu inutile: non trattenne un urlo spaventato. Tentò di parlare, di esclamare qualcosa, sbraitare o fare una domanda palese ma le parole sembravano esserle morte in gola. Cominciava quasi a pensare che il calmante potesse darle le allucinazioni o di star sognando un'altra volta.
Si tirò subito indietro, voltandosi di nuovo; non sapeva dove restare seduta: voleva essere lontana da ciò che aveva visto dietro di lei, lontana dall'uomo che le era affianco e anche da quello alla guida. Si schiacciò contro la portiera alla sua destra, ma notò che anche lì fuori ci sarebbe stato il vuoto o, se era fortunata, un ponte dorato fatto di niente che sarebbe svanito non appena l'auto sarebbe avanzata di qualche metro.
Quindi si scostò ancora, come scottata, e si ritrovò più vicina all'uomo affianco a lei. Sarebbe voluta sparire o essere grande quanto un insetto.
«Che razza... di posto è questo?» Farfugliò, con una lacrima a inumidirle la guancia sinistra e la stanchezza nella voce. Era finita.
«Dove mi state portando?» Aggiunse, in un diminuendo di tono.
«Che volete da me?» Stavolta, il volume della sua voce fu così basso che gli altri due neppure la sentirono.
L'uomo alla guida le lanciò uno sguardo dallo specchietto retrovisore interno, e Cierra parve notare un accenno di compassione, ma si convinse di esserselo immaginato. Quello accanto a lei, invece, sbuffò per l'ennesima volta.
«Benvenuta a Domain» le disse, e tutto le sembrò tranne che un vero benvenuto.
«Buonanotte» le augurò poi, sprezzante e con un sorriso forzato e totalmente falso; poi le passò di nuovo una mano davanti al volto. Le palpebre tornarono pesanti e, prima che potesse tentare di controbattere, Cierra si addormentò un'altra volta.
━━━━ • 🔥 • ━━━━
«Cara... Cara, mi senti?»
Una mano delicata sfiorò il braccio destro di Cierra, scuotendola appena. Il sole era alto in cielo e la luce era così prepotente che forzò la mora ad aprire gli occhi.
Ella sollevò le palpebre, con difficoltà ed estrema lentezza; era ancora incosciente: la continua perdita di sensi delle ultime ore la stava asfissiando, ma tentò di riprendere conoscenza.
Nella sua mente era tutto molto confuso: un groviglio di ricordi che Cierra non era sicura appartenessero alla realtà.
Si portò entrambe le mani alla fronte, avvertendo un mal di testa lancinante, e riuscì ad aprire del tutto gli occhi. La prima cosa che vide fu il viso di una donna: era giovane, ma non aveva affatto la sua età. Le iridi verdi la scrutavano vispe, attente, come alla ricerca di qualche problema.
Quando realizzò di essere in piedi, poggiata contro un muro, e quindi non più nell'auto, Cierra riprese fiato di scatto, come se appena uscita da un'apnea. Fece un passo indietro, per allontanarsi, ma trovò una parete dietro di sé e dovette fermarsi. Si girò a guardarla e capì di essere fuori da un piccolo edificio bianco.
«Calma, sei al sicuro ora» le sorrise la donna, mentre si portava una ciocca di capelli neri dietro l'orecchio.
«Ti abbiamo solo fatto dei controlli e...»
«Dove sono?» La interruppe Cierra, che finalmente scorgeva la possibilità di rimettere in ordine gli avvenimenti dell'ultima giornata. Prestò più attenzione alla figura della donna e la guardò meglio: era sulla trentina e indossava un camice bianco. Probabilmente era un'infermiera, avendo parlato di controlli. Che fosse Cierra davvero al sicuro, ora?
La giovane cambiò visuale e squadrò tutto ciò che le era attorno: si trovava in un ampio cortile, tastava il terreno un po' sabbioso con le scarpe bianche e vi notava l'erba crescere di tanto in tanto. Alla sua sinistra, in lontananza, vi era un cancello scuro, alto, elegante e dalle guglie appuntite. Si estendeva per qualche metro, poi lasciava spazio a mura perimetrali di metallo, leggere e ricamate come il cancello. Al di fuori di esse vi era un bosco e sembrava non esserci più attività.
Gli alberi erano ovunque, rigogliosi e verdi, ma la vera vita si scorgeva alla sua destra: un castello colossale si ergeva maestoso e quasi sfiorava le nuvole. Era chiaro, forse di pietra bianca, a cui era alternato un blu particolare, dalle sfumature petrolio.
L'altezza e la presenza di numerosi pinnacoli, guglie e torrette suggeriva uno stile vicino al gotico medievale. Tutti erano blu e molto più bassi di quattro torri che si ergevano in modo curioso verso i quattro punti cardinali. Quella che puntava verso nord era la più alta e da lontano appariva anche più larga delle altre; era a pianta circolare, a differenza delle restanti, e chiusa da una vetrata trasparente nella parte superiore. All'apice si poteva notare una bandiera celeste, di un colore simile al ghiaccio. Probabilmente c'era scritto qualcosa, ma era impossibile scorgerlo a così tanta distanza.
Ciò che invece si capiva da fuori era che, all'interno, il castello era diviso in quattro piani: lo suggerivano le linee verticali che spezzavano la continuità della pietra bianca. Vi erano molte finestre e Cierra pensò che dovessero esserci altrettante stanze. Nel piano più alto, a collegamento tra la torre nord e quella ovest, vi era un terrazzino su cui si alternavano continui archi a tutto sesto.
Il castello era piuttosto semplice alla base; le decorazioni erano poste soprattutto dall'ultimo piano in poi. Eppure esso era imponente, solenne e Cierra si perse in tutta quella bellezza artistica.
L'infermiera dovette accorgersene, perché non rispose alla domanda della ragazza fino a quando questa non tornò a girarsi verso di lei.
«Sei a Domain» le disse semplicemente, con un sorriso.
Cierra aggrottò la fronte nel sentire nuovamente quel nome.
«Oregon?» Tentò, strappando una risatina alla donna di fronte a lei. Sperava di aver sognato quello strano varco che aveva visto in auto o di esserselo semplicemente immaginato.
«No, nulla a che fare con l'Oregon» scosse la testa l'infermiera, declinando la cosa con un cenno della mano.
«Vedi...» sospirò, e le poggiò una mano sulla spalla, che Cierra guardò con fare accusatorio e preoccupato.
«Ora sei in un posto diverso, un universo parallelo. Qui ci sono tutti i...»
«Un momento» la interruppe Cierra ancora una volta.
«Un universo parallelo? È tipo un multiverso, ho preso una decisione nella mia vita che ha aperto un varco spazio-temporale e...»
«No! No, assolutamente no!» Rise la donna, scuotendo con foga le mani davanti al volto. Le sorrise e continuò: «Domain esiste da molto prima di te.»
Cierra storse le labbra, lanciando un'altra occhiata al castello in lontananza. Forse le sarebbe piaciuto restare lì per qualche ora, pensò, ma era tutto così assurdo che non riusciva a capacitarsene. Un universo parallelo. Era finita in qualche film, per caso?
Si girò verso il cancello e quasi lo divorò con lo sguardo. «Io me ne torno a casa» disse, facendo per muoversi, ma non ne era poi così convinta. Bastò infatti che la donna le chiedesse il nome e lei si fermò, incrociando le braccia sotto al seno.
«Cierra, ascolta...» le parlò l'infermiera, inclinando il capo di lato con un'espressione comprensiva. Sembrava abituata a queste reazioni, forse le capitava spesso di dover gestire adolescenti spaventati e confusi. Almeno era più simpatica dei due che erano in macchina di cui, per la cronaca, Cierra non aveva più visto tracce.
«So che è difficile da assimilare, lo metabolizzerai col tempo. Certe cose ci vengono tenute nascoste per il nostro bene, ma ciò non vuole dire che esse non siano reali.»
Con un sorriso gentile aprì la mano e, sul palmo, nacque un piccolo vortice chiaro. Cierra si accigliò e si accovacciò appena, avvicinandosi per capire meglio. Il vortice crebbe a poco a poco, diventando un tornado di dimensioni enormemente ridotte.
Ma era lì: era un flusso d'aria sul palmo della sua mano, ed era reale. L'aveva creato lei e, così com'era stato dato alla luce, si ridusse nuovamente, finché non si annullò del tutto.
«Qui siamo tutti speciali» disse solamente, e bastò. Cierra sarebbe dovuta essere ancora più terrorizzata, ma ciò che percepiva sulla propria pelle era il contrario: familiarità. Rilassò le spalle e una scarica parve attraversarle la mano destra e quasi scottarla, così ella la scosse di scatto, lasciandosi sfuggire un lamento di fastidio e la sensazione sparì.
«Te ne capaciterai col tempo, ma questo è il tuo posto. Sei al sicuro qui.»
Cierra si passò una mano fra i capelli mossi; erano castani, ma al sole apparivano un po' più chiari. Concettualmente, aveva compreso: quello dove si trovava era un universo parallelo e lei doveva starci per restare al sicuro da qualcosa. Magari anche lei poteva creare un mini tornado, chissà.
In teoria, non era difficile. Ma in pratica, come poteva crederci? Sì, l'aveva anche visto, ma non riusciva a realizzare. Era troppo strano, troppo improvviso e troppo fantascientifico. Pensare che il giorno prima era a Los Angeles, con Hunter e la sua famiglia, a festeggiare.
Hunter! Che fine avrebbe fatto? Lo avrebbe mai più rivisto?
Fece per parlare, ma fu interrotta da una voce giovane, quella di un ragazzo al massimo sulla ventina che urlava il nome della donna. Si chiamava Nadine.
Nadine si scusò: serviva in infermeria. Cierra annuì incerta ma, prima che la corvina rientrasse in sala, le domandò di quali controlli stesse parlando all'inizio della conversazione. Nadine declinò la questione con sufficienza, spiegandole che era solo una prassi e che, fortunatamente, la ragazza era in ottima forma. Forse, anche troppo. Dopodiché si chiuse la porta bianca alle spalle e lasciò la nuova arrivata nel bel mezzo del cortile, coperta solo dall'ombra lunghissima del castello bianco e blu.
Cierra si lasciò andare a un sonoro sospiro, ormai arresa. Non aveva la più pallida idea di cosa fare adesso.
Socchiuse un occhio per il fastidio del sole, pieno in cielo e, guardando verso il castello, notò che quella zona pullulava ancora di gente, soprattutto ragazzi. Era sabato, quindi intuì potesse essere un punto di incontro e pensò che qualcuno avrebbe pur saputo aiutarla.
Si pulì le mani sudate sulla stoffa dei jeans chiari e, senza neppure farci caso, per abitudine, infilò una mano in tasca alla ricerca del cellulare; suo malgrado, non lo trovò. Probabilmente l'aveva perso in auto o forse gliel'avevano rubato.
«Oh, andiamo!» Sbuffò esasperata, cominciando a camminare indecisa verso il castello.
Non prestava troppa attenzione a ciò che le era attorno: il castello era così grandioso che la rapiva totalmente ed era una sorta di calamita che l'attirava a sé. Percepiva come una specie di energia concentrata tutta in un punto e voleva raggiungerla.
Poi, all'improvviso, fu travolta da tutt'altro, e in pochi attimi si ritrovò con la nuca a giusto qualche centimetro da terra e con il corpo in bilico tra il cadere con un tonfo e il restare in piedi.
Con lo sguardo basso, Cierra realizzò di essere ancora in equilibrio, ma solo grazie all'aiuto di un paio di braccia che le si erano incastrate dietro la schiena e perché lei si era arpionata con le proprie al primo appiglio che aveva trovato; una persona, in questo caso.
Una voce baritonale, stentorea mormorò qualcosa che Cierra neanche si sforzò di interpretare; piuttosto, ella alzò gli occhi e, a evitarle una rovinosa caduta di schiena sul suolo sabbioso, trovò un ragazzo che da subito pensò fosse singolare.
Era un adolescente: poteva avere - al massimo - poco più di una ventina d'anni. Le iridi scure, incastonate come ambra in una creazione di marmo candido, la rapirono. Quasi sembravano voler distogliere la cura da tutto il resto, come se non fosse stato importante.
Contornati da ciglia stranamente lunghe, che gettavano un'ombra seghettata sugli zigomi leggeri, gli occhi del ragazzo erano di un colore particolare, simile al nocciola. Il tono era uniforme in tutto l'iride e si accostava al marrone.
Lo sguardo era veloce e guizzava da una parte all'altra del volto di Cierra, come se fosse stato avido di dettagli e ne avesse voluti conservare il più possibile.
Cierra avvertì una strana sensazione: si sentì un po' a disagio, un po' derubata, ma la cosa quasi non la toccò; mirarlo fu come ballare qualcosa per la prima volta. Quando il ragazzo si scostò, aiutandola a rimettersi del tutto in piedi, ella si fermò a guardarlo meglio, ora nel suo insieme, e rimase colpita.
La pelle pareva di porcellana e quasi brillava alla luce del sole che, per di più, adesso trasformava il colore delle iridi quasi in un dorato accecante. I capelli erano come oro fluido che gli copriva il capo e che, ogni tanto, gli scorreva sulla fronte a piccole ciocche e che scendeva, ai lati, fino agli zigomi, collegandosi alle guance un po' scavate e sovrastando la mascella così squadrata che Cierra ebbe paura potesse spezzargli la dentatura se contratta.
Tutti i tratti del viso, per quanto spigolosi, erano ammorbiditi dal rilassamento di tutti i muscoli, che era palese e che, inoltre, costituiva un connubio divertente tra quanto fosse il suo viso duro e marcato e da quanto, invece, fossero delicate e fini le sue espressioni. Così come era divertente notare quanto ognuno si sarebbe aspettato un paio di occhioni celesti nel vedere una capigliatura tanto bionda. Tutte aspettative distrutte.
Era indubbiamente un viso molto bello, forse anche troppo; più Cierra lo guardava, più lo riteneva ciò che di più poteva avvicinarsi alla perfezione e più pensava che il giovane, se avesse avuto gli occhi azzurri, sarebbe potuto benissimo essere la trasposizione reale del principe azzurro delle fiabe.
«Stai bene?» le domandò il ragazzo, chinandosi lievemente per raggiungere meglio la statura dell'altra. Era alto, forse sul metro e ottanta, e aveva il fisico asciutto. Una semplice camicia a quadri rossi e neri gli fasciava il busto e si stringeva sulle spalle larghe, e Cierra si chiese come facesse a non morire di caldo con una camicia di flanella indosso a fine giugno.
La mora annuì distrattamente, ancora troppo scossa da così tanta bellezza. Era una bellezza composta, fine, ma ladra, come se avesse saputo di essere tale e si fosse voluta approfittare di chiunque le strisciasse ai piedi, conscia di essere irraggiungibile.
«Sto bene» aggiunse poi, con voce un po' rauca, rendendosi conto che, se avesse continuato a guardarlo così tanto, probabilmente sarebbe apparsa ancora di più come una pazza.
E l'idea che potesse esserlo davvero le sfiorò di nuovo la mente, vista la situazione che stava vivendo e a cui, da poco, sembrava essersi arresa, ma ella la scacciò con un cenno veloce della mano e riportò l'attenzione al giovane di fronte a lei. Alla sottile linea che divideva realtà e finzione, riflettè, ci avrebbe pensato più tardi.
«Sei sicura di stare bene?» rise il ragazzo, avendo notato il gesto dell'altra, mentre puliva la camicia scozzese dai granelli di sabbia che si erano alzati nello scontro.
Cierra fece per annuire di nuovo, ma rischiuse la bocca appena dopo averla aperta per affermare che sì, era sicura di stare bene. Perché, semplicemente, non era così. Non aveva ancora compreso del tutto cosa c'entrasse lei con tutta la storia dell'universo e ciò che vi seguiva e non aveva la più pallida idea di dove cominciare a muoversi per rimettere insieme i tasselli e capire, finalmente, se ci fosse un filo logico che collegava tutta quella assurda storia oppure no.
«No, per niente» sospirò allora, portandosi una mano alla fronte, esasperata.
Calò lo sguardo sui propri abiti e tentò di dargli un'aggiustatina, giusto per essere un minimo più presentabile. Si sentiva uno scarafaggio di fronte al biondo.
«Sei nuova?» intuì questi, sorridendole tranquillo e comprensivo come se fosse stata l'azione a cui era più abituato. Alzò poi una mano per salutare qualcuno con un cenno e una fossetta sulla guancia sinistra ben in vista. Cierra seguì il suo gesto e, girandosi, vide un gruppo di ragazzi nei pochi attimi in cui le passarono accanto; essi la studiarono, quasi a meditare del fatto che potesse essere degna o meno di star parlando con il giovane, poi la superarono con un'espressione di sufficienza sul volto.
Non aveva passato l'esame, era assodato.
Il biondo, d'altronde, sembrava invece una sorta di celebrità: lo conosceva chiunque e le persone si dividevano in chi lo guardava ammirato e chi intimorito da così tanti pregi; lui, in ogni caso, rispondeva a tutti con fare amichevole. Fuoriusciva carisma anche dalle orecchie.
«Si nota così tanto che sono nuova?» borbottò Cierra, portandosi le braccia al petto e stringendosi nelle spalle esili come a nascondersi in se stessa, di nuovo.
«Giusto un po'» rise l'altro, palesemente sarcastico, allargando al contrario le braccia con fare sicuro ed espansivo.
Cierra inclinò il capo di lato, ascoltandolo parlare e concentrandosi sul suo accento: ogni termine, ogni flessione di verbo richiamava un accento totalmente diverso dal suo, che era di Los Angeles; dopo averci ragionato su, giunse alla conclusione che, molto probabilmente, il giovane doveva provenire da oltre l'oceano, forse il Regno Unito.
Diamine, commentò mentalmente. Era un cumulo di fascino su un cumulo di fascino.
«Sono James, comunque» si presentò il ragazzo all'improvviso, spezzando un silenzio imbarazzante che si era venuto a creare. Avrebbe potuto semplicemente andarsene, d'altronde neppure si conoscevano, ma Cierra sperò vivamente che non lo facesse: era l'unico ad averle parlato finora e le serviva qualche informazione.
James. Bello pure il nome.
«Cierra» sorrise dunque lei, incerta, stringendo la mano che il biondo le aveva porto con educazione.
«Incantata» commentò lui, stiracchiandosi con nonchalance e facendo sì che, per poco, la sua figura fosse a metà tra il sole abbagliante e l'ombra del castello.
"In... Incantanta?" ripetè Cierra mentalmente, aggrottando le sopracciglia castane, sconcertata. James le aveva appena detto che lei era incantata di vedere lui? Sul serio?
«Incant... Oh, lasciamo stare» sospirò un'altra volta, roteando le iridi blu scuro verso il cielo. Stentava a credere a ciò che aveva appena sentito. O almeno, sperava che il ragazzo stesse scherzando, ma non ne era poi tanto convinta.
James rise ancora, divertito dalla sua reazione. Probabilmente era abituato anche a quello, e la cosa sembrava deliziarlo non poco.
«Immagino tu sia abbastanza confusa, ma è normale» aggiunse, tornando più serio.
«Ti verrà spiegato tutto con calma e avrai il tempo di assimilare» la rassicurò, cominciando a camminare verso il castello e facendole cenno di seguirlo.
Cierra non se lo fece ripetere due volte e lo affiancò; era sollevata di sapere che avrebbe fatto ordine presto, e inoltre era anche lieta di avvicinarsi al castello per poterlo ammirare da più vicino. Sembrava l'unica cosa bella di quel posto, visto che la gente non le aveva dato la stessa impressione - tra i due in auto, i ragazzi dalle occhiatacce e James mezzo innamorato di sé che le era anche caduto addosso, la scelta migliore le sembrava l'infermiera. E non era un segno positivo.
«Ovviamente non sei ancora stata dal preside, dico bene?»
«Ovviamente no, dici bene.»
Cierra non era sicura fosse una cosa tanto ovvia, ma non se ne curò più di tanto e assecondò James. Lui le chiese da dove venisse e lei cominciò a parlargli di Los Angeles, del balletto e di tanti aneddoti che forse neanche gli interessavano, ma che sembravano piacergli. James poteva non essere un tipo modesto, ma almeno era socievole, cortese e di compagnia. Era come se avesse voluto arricchirsi di più notizie possibili riguardo la vita normale, come se fosse passato così tanto tempo da quando era anche la sua che aveva dimenticato come questa fosse.
Cierra si rabbuiò: aveva paura potesse accadere anche a lei. Aveva paura di dimenticare Hunter, se fosse rimasta lì, e la sua famiglia, e l'emozione di stare su un palco. Il terrore del cambiamento l'attanagliava e quasi le toglieva il respiro.
Avrebbe lasciato tutto, se fosse rimasta a Domain. Avrebbe smesso di vivere ora che stava tornando a farlo. Non poteva avvenire, non poteva permetterlo.
Ma come? Si voltò a lanciare un'occhiata fugace al cancello di metallo e, non solo era lontano, ma probabilmente anche invalicabile. E poi, come voleva scappare? Gli abitanti di quel posto avevano poteri strani e lei non era capace di sottrarvisi. Comunque, se pure fosse scappata, come voleva tornare a casa, in un universo parallelo? Il ponte dorato e il portale sicuramente non si azionavano con lo schiocco di dita di una sedicenne confusa, intimidita e dagli attacchi di panico facili.
Decise di scacciare le sensazioni negative che stavano prendendo il controllo, almeno per il momento. Sarebbe scappata, appena possibile. Se lo promise.
Intanto, lei e James erano arrivati ai piedi del castello che, da vicino, era ancora più maestoso di quanto apparisse a distanza di metri.
«L'ufficio del preside è nella torre più alta, ti accoglierà sicuramente: è prassi parlarci all'arrivo» la informò James, fermatosi di fronte al portone bianco. Cierra sorrise: avrebbe visto la torre di vetro.
«Se ti perdi, ti basterà chiedere al primo che ti capita a tiro. L'Accademia è grande, ma tutti ne conoscono ogni centimetro.»
«Ottimo» commentò Cierra, voltandosi a guardare nuovamente il portone, un po' curiosa, un po' emozionata e un po' spaventata.
"L'Accademia..." ripeté mentalmente. Magari era arrivato il momento di comprendere.
Fece per salutarlo e dirgli che era stato un piacere, ma James la precedette e fu un bene, perché aggiunte come "piacere soprattutto tuo, ma ci sono abituato, me lo fanno notare in tanti" almeno uscirono dalla sua bocca e non da quella della mora.
«Ci vediamo in giro, allora» concluse il ragazzo, aprendo il portone e tenendoglielo con la mano sinistra, in attesa che Cierra entrasse, per poi alzare la destra in un cenno di saluto.
Cierra gli sorrise ma, nel voltarsi verso l'interno del castello, l'espressione lasciò presto spazio a una totalmente differente: ora lo stupore dominava completamente il suo viso.
Un nuovo ragazzo le era davanti; era molto più alto sia di lei che di James, tanto che il suo viso arrivava al petto dell'altro, fasciato da una semplice maglia nera. Gli occhioni verde smeraldo erano sgranati e languidi, dietro gli occhiali caduti sulla punta del naso, come se avessero finalmente trovato qualcosa che avevano anelato e cercato per tanto tempo, instancabilmente. I ricci corvini gli ricadevano sulla fronte e davanti alle lenti, indomabili e familiari.
Non lo aveva dimenticato, non avrebbe mai potuto. Lo avrebbe riconosciuto ovunque, sempre.
Noah Sharp era vivo. Ed era proprio di fronte a sua sorella.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro